BERTOLUCCI, IL RITORNO - ESCE “IO E TE” E BERNARDO RICORDA IL NO DI RYAN GOSLING: “NON CE LA FACCIO A ESSERE COSÌ NUDO” - PER “ULTIMO TANGO A PARIGI” RICEVETTE IL RIFIUTO DI TRINTIGNANT E BELMONDO (“MA CHE COS’È QUESTA PORNOGRAFIA?”) - “C’È UNA COSA PERÒ DI CUI MI PENTO: QUANDO GIRAMMO QUELLA VOLGARMENTE DEFINITA LA “SCENA DEL BURRO” NON SPIEGAMMO A MARIA SCHNEIDER IL SENSO. MI SEMBRAVA PIÙ VERO, MA QUESTO LA UMILIÒ”...

Marina Cappa per Vanity Fair

Il primo esame non lo passo. Sdraiato sulla chaise longue che alterna alla sedia a rotelle su cui è costretto da anni, legge sul Kindle alcune righe in francese: «Chi è l'autore?». Sbaglio: la parola «bourgeois» mi ha fatto pensare a Molière, si tratta invece di Madame Bovary. Però Bernardo Bertolucci non è un professore cattivo, non sale in cattedra. Anche perché a 72 anni, un film (L'ultimo imperatore) da 9 Oscar e tante opere memorabili, non ha bisogno di dimostrare nulla.

Mentre in casa si moltiplicano operai e lavori, il regista depone il Kindle con cui alterna la lettura di Flaubert a quella dei Tre moschettieri («Il mio preferito? Porthos»). Arrotonda la «erre» in ricordo delle origini parmigiane e comincia a parlare mescolando memorie di ieri e curiosità di domani. Il domani più immediato è l'uscita il 25 ottobre in Italia, dieci anni dopo l'ultimo, The Dreamers, di Io e te.

Tratto dal romanzo breve di Niccolò Ammaniti, presentato all'ultimo Festival di Cannes e invitato a fine settembre al Festival di San Sebastián, il film ha per protagonisti un quattordicenne chiuso nel suo mondo che decide di blindarsi una settimana in cantina dicendo ai genitori che va in settimana bianca e la sua sorellastra di 23 anni, tossica e sofferente. A interpretarli due debuttanti: Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco.

Il secondo nome del suo attore - Olmo - è quello che lei aveva dato al personaggio di Gérard Depardieu in Novecento: ha influito sulla sua scelta?
«Mi ha fatto piacere. Ho scoperto che ce ne sono tanti di Olmo, anche fuori Italia, in omaggio al film. Io non ho avuto figli, questa è una sorta di paternità».

E di Tea Falco che cosa l'ha colpita?
«Questo suo accento catanese, bellissimo, che non ti aspetti da una donna così sofisticata. Al provino la guardavo e intanto la filmavo, come fosse una piccola Marlene».

Di solito lei come sceglie gli attori dei suoi film?
«Ho una sensazione immediata e profonda. La bellezza conta, ma è un insieme, una questione di personalità. Io voglio essere sedotto dai miei attori. È successo anche con Eva Green e Louis Garrel, per The Dreamers».

C'era anche Michael Pitt in quel film...
«Ma per quel personaggio avevo pensato a Jake Gyllenhaal, che non poteva. E poi a Ryan Gosling, che avevo visto in un film, ma poco prima dell'inizio delle riprese lui mi ha telefonato: "Non ce la faccio a essere così nudo". Così, c'era Michael Pitt, che prima avevo escluso perché troppo caruccio e con i labbroni. Venne a trovarmi a Cannes e gli dissi: accetto che tu mi piaccia tanto, e ti prendo».

Prima di Gosling, anche Jean-Louis Trintignant, come ha ricordato in un'intervista a Vanity Fair, aveva rifiutato un suo film perché troppo osé. Si trattava di Ultimo tango a Parigi, presentato a New York esattamente 40 anni fa, il 14 ottobre 1972, e in seguito censurato, sequestrato, condannato a essere distrutto, finché solo quindici anni dopo poté tornare in circolazione.

«Avevo girato Il conformista con Trintignant e Dominique Sanda e li avrei voluti anche per Ultimo tango. Ma lei era incinta e lui - quasi piangendo - mi disse che non se la sentiva, non riusciva più a fare un film seminudo. D'altra parte, non fu l'unico a dirmi di no. Lo proposi a Jean-Paul Belmondo, e mi cacciò dicendo: "Ma che cos'è questa pornografia?". Andai da Alain Delon, e lui l'avrebbe fatto, a patto però di produrlo. Ma era un film troppo particolare perché io lo facessi produrre ad altri».

Maria Schneider, che prese il posto della Sanda, quel film non glielo perdonò per tutta la vita, diceva che l'aveva rovinata.
«Avevo 30 anni e non mi rendevo conto che lei ne aveva solo 19, le parlavo come se fosse grande. Brando invece la teneva fra le braccia, era paterno, ma lei sviluppò una grande acredine. C'è una cosa però di cui mi pento: quando girammo quella volgarmente definita la "scena del burro" non le spiegammo il senso. Volevo che scoprisse davanti alla cinepresa che il burro non era per imburrare baguette: mi sembrava più vero, ma questo la umiliò».

Anche con Brando poi ebbe dei problemi?
«Dopo un po' di tempo, ero a Los Angeles, lo richiamai, ma rispose che mi avrebbe ricevuto solo se avessimo girato insieme un film sui pellerossa».

Dopo le traversie di Ultimo tango, e dopo la «scena del burro», quale potrebbe essere oggi una vera trasgressione?
«Oggi è difficilissimo trasgredire. Per me personalmente, trasgressione sarebbe salire per un prato a Casarola (paese in provincia di Parma dove nacque il poeta Attilio Bertolucci, padre di Bernardo, ndr). Avevo un'ernia al disco che mi faceva soffrire terribilmente: quando il dolore è tanto, e anche la morfina non basta, diventa un'ossessione e sei disposto a tutto per eliminarlo. Da piccolo vedevo mia madre, che ogni mese soffriva di forti emicranie e scompariva in camera: io socchiudevo la porta e ascoltavo il suo respiro, così capivo che era ancora viva».

Quindi, si è fatto operare per via del dolore?
«Sì, se avessi resistito, sarebbe passato e oggi camminerei. Invece, da una banale ernia dopo tre operazioni mi trovo sulla sedia a rotelle».

Come ha affrontato tutto questo?
«Pensavo che non avrei più lavorato. Invece, a un certo punto, non so come, ho accettato questo mio stato che prima rifiutavo e allora tutto è cambiato. È arrivato Ammaniti con il suo libro e ho deciso di tornare a dirigere. Probabilmente, tornare al cinema era ciò che volevo più di tutto».

Io e te è girato nello studio dell'artista Sandro Chia, che diventa la cantina della storia. Come si muoveva?
«Avevo una sedia elettrica magica, capace anche di alzarsi. Scoprire che potevo ancore girare è stato bellissimo. Ogni giorno pensavo: è un miracolo. Ma allo stesso tempo mi sembrava la cosa più naturale del mondo».

Nel film ha cambiato il finale rispetto al libro. Perché?
«Mi sembrava banale, la morte della tossica, troppo vista. L'ho detto ad Ammaniti e dopo una smorfietta di dolore ha accettato. Il fatto è che l'amore positivo fra i due fratelli li cambia: da quando si riconoscono, vedono nascere il loro sentimento. D'altra parte, a me piace cambiare i finali. Era successo anche con Alberto Moravia per Il conformista: gli avevo spiegato che avevo dovuto un po' tradirlo».

Non è che adesso che sta leggendo Madame Bovary vuole farci un film, in cui magari lei si salva?
«No, anche perché ci sono già state troppe Bovary. Poi, voglio continuare a lavorare, ma sempre su progetti compatibili con il mio stato. Quelli che io chiamo kammerspiel kolossal».

Potremmo tradurre «kolossal da camera». Sempre però film di sentimenti?
«Non sarei capace di fare un film in cui i sentimenti non hanno importanza. Forse oggi nei ragazzi sono un po' repressi, se ne ha paura perché si ha paura del futuro. Ma esistono. E poi io amo moltissimo i giovani: tutte le idee che mi vengono hanno a che fare con quell'età».

Da ragazzo, lei ha scritto poesie. Perché non ha continuato?
«A Pasolini (amico di famiglia, di cui Bertolucci fece poi l'aiuto in Accattone, ndr) erano piaciute, e le ho anche pubblicate in un libretto che ha vinto il Premio Viareggio per l'opera prima. Ma poi ho scoperto la cinepresa, e quella è diventata la mia penna. Non potevo mettermi in competizione con mio padre. Però, il fatto che avessi scritto è stato importante nel nostro rapporto».

E Ultimo tango come lo ha accolto suo padre?
«Dopo la proiezione, con la faccia cupa, mi fa: "Finiremo tutti in galera". "Taci, che è bellissimo", ha detto mia mamma. Ma lui aveva ragione. Sono stato condannato e, anche se non sono finito in prigione, quando l'anno dopo sono andato a chiedere il certificato elettorale per votare ho scoperto che per 5 anni mi avevano tolto i diritti politici. È stato brutto, io credo nel voto».

Bella addormentata di Marco Bellocchio, regista cui lei l'anno scorso consegnò il Leone alla carriera, ha riaperto a Venezia le polemiche sulla morte di Eluana. Lei che cosa ne pensa?
«Non ho ancora visto il film. Ma penso che una persona debba poter lasciare un testamento biologico: è crudele impedire che uno scelga di non soffrire più».

Lei lo ha fatto, il testamento biologico?
«Mia moglie sa che io la penso così. E io so di lei».

In giugno è morto suo fratello Giuseppe, regista e più giovane di sei anni...
«Una cosa tremenda, contronatura, una morte che non metti in conto, contrariamente a quella dei tuoi genitori, proprio perché lui era più piccolo. Giuseppe ha molto lottato, e per fortuna non è entrato in quella lunga fase di preagonia che succede talvolta».

Era consapevole?
«Sperava. E questa sua speranza faceva sperare anche noi».

Secondo lei, è giusto che un malato terminale sappia esattamente ciò che lo attende?
«Negli Stati Uniti il medico è obbligato a dire tutto. Da noi, per fortuna, si informano i parenti ma per il resto la situazione è più dubbia. Trovo che lasciare un angolino di speranza sia importante, sempre».

Speranze a parte, com'è il mondo visto dalla sedia a rotelle?
«Come un'inquadratura dal basso. Di quelle che io non faccio mai perché non mi piacciono: inquadrare dal basso o dall'alto mi sembra serva solo a creare effettacci. Ma insomma, è un altro punto di vista».

 

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