BERLINO, NUOVA GERUSALEMME - CRESCE IL NUMERO DI EBREI CHE LASCIA ISRAELE E SI TRASFERISCE NELLA RICCA GERMANIA (QUANDO IL BUSINESS TIRA PIÙ DELLA STORIA)

Tonia Mastrobuoni per "la Stampa"

La prima volta che sono venuto qui, dopo il servizio militare, volevo solo divertirmi. Ma avevo anche la testa piena delle storie orribili dei miei genitori e dei miei nonni e quel numero: sei milioni di morti. Dopo un po' ho cominciato a sentire tutto quello che c'era stato prima e che senti ovunque, e ho capito che Berlino è come Gerusalemme».

Zeev Avrahami sta preparando dell'hummus con le melanzane, ogni tanto esce dalla cucina, si siede al tavolo e racconta un pezzo della sua storia. Mentre armeggia con le pentole, canticchia le canzoni di Ariel Silber. «Qui non lo conosce nessuno, ma noi "nuovi ebrei" lo conosciamo tutti». I «nuovi ebrei», spiega, sono quelli che come lui che hanno deciso di andarsene da Israele per cercare le loro radici qui. «Siamo sempre di più. Tanti, come me, vengono dopo il militare, poi sentono dentro questa cosa forte. La "grande bestia" ha cercato di ucciderci. Ma noi stiamo tornando».

Quarantaquattro anni, una moglie tedesca e due figli piccoli, Zeev indica le loro foto appese al muro del suo piccolo ristorante a Prenzlauer Berg. «Il piccolo è israeliano, la grande è tedesca», sorride: il bimbo ha gli occhi scuri e i capelli neri, come Zeev, la bambina i capelli chiari, gli occhi verdi.

«Mi chiede perché sono rimasto, perché mi sono innamorato di una tedesca? Insomma, qui si inciampa ovunque sulla nostra Storia, e non solo perché tante cose ricordano l'Olocausto. I miei sono persiani, emigrati nel Sinai, ma credo che nella diaspora la mia identità di rafforzi. Ecco perché sono andato via da Israele. Più sono qui, più mi sento ebreo».

La comunità di israeliani sta crescendo enormemente a Berlino assieme a quella degli ebrei americani e russi. Ma è già la seconda ondata, dopo quella giunta in Germania dopo la caduta del Muro, che arrivò per motivi economici, ma soprattutto per la ragione più antica del mondo: l'antisemitismo. Con il collasso delle repubbliche sovietiche, raccontano i rapporti del «Consiglio centrale degli ebrei in Germania», crebbe la paura di un ritorno dei vecchi odi.

Gli ebrei russi, ucraini, lituani cominciarono a emigrare verso il Paese che più ne aveva minacciato la sopravvivenza. Nel giro di pochissimo, il governo tedesco si adeguò dichiarandoli rifugiati e aiutandoli con leggi e incentivi specifici ad integrarsi, e il numero quadruplicò da circa 25 mila a 100 mila. Oggi si stima che siano circa 120 mila; la maggior parte, circa 18 mila, vive a Berlino, le seconde comunità più grandi sono Francoforte e Monaco.

L'ondata più recente, tuttavia, non viene per paura, non scappa da zone difficili. Viene perché è attratta dalla Germania e in particolare da Berlino. Uno dei centri nevralgici della comunità è il quartiere attorno a Oranienburger Strasse, dove c'è la grande sinagoga distrutta durante il pogrom dei nazisti nel '38 e ricostruita dopo la guerra, ma protetta ancora da imponenti misure di sicurezza.

Accanto all'edificio, Gal Titan sta caricando rami di palma e di salice su un camion. Un ragazzo dalla barba già lunga che indossa un cappello nero a falda larga lo aiuta: è Menanem Mendel. Si stanno preparando al Sukkot, la festa ebraica che ricorda la traversata del deserto degli ebrei verso la Terra promessa. Il nonno di Gal è l'unico sopravvissuto di sei fratelli: gli altri sono morti nei campi di concentramento. «Mio nonno è di Berlino, ma non tornerebbe mai, non metterebbe mai piede in Germania». Lui invece sta perfezionando il tedesco, e sta finendo di studiare geografia.

«Certo, è stata dura tornare, sentire la Storia, ma io voglio chiudere il cerchio». Per Gal è stata più forte la ricerca della sua identità che «il sangue dei nazisti». Menanem, che ha interrotto i preparativi per il Sukkot e ha messo un braccio attorno alle spalle di Gal, annuisce: lui studia per diventare rabbino, viene dalla Russia, ma non sa se resterà. «Si sta bene qui», dice.

Non sempre, però, Berlino si dimostra all'altezza di questa sfida storica, non sempre riesce a incoraggiare il ritorno e il reintegro. Crescono gli episodi di intolleranza. E non solo da parte dei neonazisti, si moltiplicano anche nei quartieri ad alta densità turca e araba. Tanto che il rabbino Daniel Alter, picchiato brutalmente per strada un anno fa da un gruppo di arabi, è convinto che esistano ormai delle «no-go-areas» nella capitale, dove è meglio nascondere la kippah.

Un timore condiviso dal 32enne Yossi, che è venuto da Israele per studiare architettura e ha sposato una russa. Non sa se resterà. Abita in un quartiere dove vivono moltissimi turchi, a Neukölln: «Quando vado in giro cerco di non essere riconoscibile», ammette. Il padre è austriaco e non vuole venire a trovarlo, anche a lui è stata assassinata la famiglia dai nazisti. Ma Yossi non prova nessuna rabbia: «Appartengo a un'altra generazione», dice. «Con noi ricomincia tutto».

 

 

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