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DAGO IN THE SKY – PIERLUIGI PANZA: “STASERA SU SKYARTE SI VIAGGIA A 360 GRADI NELL’’’EGO-NOMENIA’’, OVVERO NELLL’ETÀ DEL SELFIE (NON SONO, MA MI RAPPRESENTO) – COME LA CREAZIONE DI UN CAPITALE ESTETICO DI VISIBILITÀ CHE DIVENTA ANCHE CAPITALE ECONOMICO’’

Pierluigi Panza per http://fattoadarte.corriere.it/?p=2005

 

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Quel che furono la fotografia e l’atelier di Nadar per gli Impressionisti sono oggi la rete e le nuove tecnologie per i creatori di immagini? Pensare a un’arte senza materia e senza quel “lavoro con le mani” che ha sempre contraddistinto l’artista è difficile. Ma anche se non si chiamerà arte, la rivoluzione digitale ha stravolto la creazione delle immagini e la loro diffusione.

 

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Per la creazione collettiva di immagini in cui l’informatica ha un peso preponderante vengono usati molti nomi: Bio art, Bots art, Database art, Digital activism, Digital Animation, Digital community, Digital graphycs, Digital performances, Game art, GIF art, Glitch art, Digital Interactive installation, Nano art, Net art, Robotics, Virtual art… Da oggi, a far da Caronte in questi gironi internettian-artistici è Roberto D’Agostino, fondatore del sito Dagospia (“DAGO IN THE SKY”, dal 1° giugno, il mercoledì alle 20.30 su Sky Arte HD).

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La prima puntata è dedicata a qualcosa di molto antico per l’arte: l’autoritratto. Si intitola “Io sono la mia fiction (selfie o la costruzione di se’)”. Il selfie è l’autoritratto (ne erano maestri Rembrandt come Caravaggio, che si piazza in tutti i suoi quadri) nell’età del nichilismo digitale, ed è la forma permanente dell’età social di quel “sentirsi coessenziali al mondo” che, per Jean Paul Sartre (“Che cos’è la Letteratura”) era la condizione originaria dell’individuo che concepisce se stesso come artista.

 

“La vita è una battaglia per non essere noi stessi. Una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere”, dice D’Agostino. E il selfie è lo strumento che aiuta in questo. Aiuta nella forma  dell’auto-rappresentazione di sé, visto che l’assenza di fondamento non consente l’indagine sul sé, ma solo quella della sua rappresentazione. Non penso, quindi non sono, ma mi rappresento.

 

D’Agostino concorda con quanto dice lo scrittore Douglas Coupland: “I selfie sono tentativi di creare un autentico senso di sé al cospetto del vortice di informazioni che cresce a ritmo esponenziali e in cui essere un individuo autonomo sta diventando sempre più difficile”.  

 

Ed ecco che nella prima puntata del programma di D’Agostino vediamo esperienze di sé che si dissocia in un dedalo di varie sue rappresentazioni. Ci sono selfie di Obama, Papa Bergoglio, Kirsten Dunst, James Franco. Si viaggia a 360 gradi nell’egonomenia, ovvero nell’io molteplice. Si parte con Justin Biber  e con la consacrazione del selfie negli Oscar del 2014 e si arriva ai selfie scattati nel punto più vicino al punto di non ritorno.

 

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Tuttavia, Adorno docet, a ogni prassi rivoluzionaria e libertaria si accompagna una controprassi che ne rivela il volto regressivo. Penso che per l’età del selfie la controprassi sia di due tipi. L’età del selfie è quella della  creazione di un capitale estetico di visibilità che diventa anche capitale economico (la tesi è mediata da Pierre Bourdieu); ma a questo capitale estetico difficilmente si approda con il solo selfie.  

 

E’ una distorsione pensare che nell’età del blog e del selfie – ovvero del protagonismo militante senz’opera – si possa autocreare  capitale di visibilità o valore testimoniale.  Anzi, Snaptchat è la riprova che l’autorappresentazione contemporanea non agisce su un piano di memoria testimoniale ma solo di apparenza momentanea.

 

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Mentre avanza una generazione di pornostar fatte in casa (o fatte nel camerino di un negozio cinese), nessuna vuole passare alla personale rivoluzione della sua vita come pornostar.  

 

Inoltre, credo che anche il selfie si riveli come una forma panottica di controllo: in questo caso, l’aspirazione alla gloria in assenza dell’opera (il quarto d’ora di celebrità) agisce come uno Xanax antirivoluzionario.

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