fat talk balti

GRASSO MENTALE - PARLARE DEI CHILI DI TROPPO SENZA ESSERE OBESE: L'OSSESSIONE DEL "FAT TALK" COLPISCE PERFINO LA MODELLA BIANCA BALTI - “DOPO IL PARTO HO PAURA DI INGRASSARE. LE ALTRE DONNE MI SEMBRANO TUTTE MAGRISSIME”

BIANCA BALTI 2BIANCA BALTI 2

Daniela Monti per il “Corriere della Sera”

 

Il fatto che anche Bianca Balti, top model prossima alla perfezione, sia caduta nella trappola del fat talk — del «parlare del grasso», ovviamente con tutto il disgusto possibile — è insieme una buona e una cattiva notizia. Buona perché dopo tante dichiarazioni tipo «io mangio di tutto e resto magra», anche per lei il vento è cambiato (insieme al metabolismo), segno evidente che la giustizia divina esiste.

 

Cattiva perché il fat talk è un flagello, una spia del nostro rapporto malato con il peso, una perversione molto pop (e il movimento contro la criminalizzazione del grasso avrebbe bisogno di sostegno, non di altre voci nel coro). «Adesso che è nata la mia seconda bambina — ha detto la modella a Linkiesta — il mio corpo è diventato un’ossessione! Guardo le altre donne e mi sembrano tutte magrissime, mentre prima mi sembravano tutte ciccione». 
 

FAT TALK BALTIFAT TALK BALTI

Anche le modelle, come tutte, fanno dunque fat talk . Battute apparentemente innocue su quante calorie mangiamo (sempre troppe), sul bisogno disperato che abbiamo di andare in palestra («prima ci andavo poco — dice la Balti —, ades so devo farlo tutti i giorni»), su quanti chili dovremmo perdere, sulla birra che gonfia, sul caffè che ci ha fatto aumentare la cellulite, sul costume che l’anno scorso ci stava meglio.

 

Quel tipo di conversazione contagiosa perché universale, che decolla in fretta anche con le sconosciute perché crea subito confidenza (il fat talk con la vicina di ombrellone è un caso di scuola). Basta che una cominci e non c’è più verso di fermarsi. Le donne sono diventate così brave a denigrare il proprio corpo. 
 

Perché il problema con il fat talk è questo: non è mai propositivo, non motiva a fare scelte più sane o a prendersi più cura del proprio corpo. No: è il condividere un sentimento di vergogna, un’autopunizione. «Le altre mi sembrano tutte magrissime!».

 

BIANCA BALTIBIANCA BALTI

«Non dirlo a me, ho fatto un anno di pilates e guarda che sedere». Invece di scatenare empatia, trascina verso il basso (motivo per cui lo scorso marzo Facebook, negli Stati Uniti, ha rimosso l’emoticon del «mi sento grassa» — faccetta paffuta e doppio mento — dall’elenco degli aggiornamenti di stato, sotto la spinta di una petizione con migliaia di firme). Il fat talk ha poco a che fare con un sovrappeso reale e molto con le nostre paure. «Non ho paura di invecchiare: ho paura di ingrassare!», chiude Balti in crescendo. 
 

Rebecca Adams sull’ Huffington Post ne parla come di un’epidemia sociale. L’espressione fat talk è stata coniata nel 1994, dopo aver osservato il modo in cui le ragazze di una scuola media parlavano fra di loro del proprio corpo: mai che fossero contente, c’era sempre qualcosa che non andava, qualcosa da «aggiustare». Da allora, sono piovuti studi che dimostrano quanto siano onnipresenti nelle conversazioni, soprattutto femminili, i giudizi negativi sul corpo e sulla propria forma fisica. 
 

Se il fat talk prospera è perché il «grasso» è diventato il nostro metro di giudizio. Grasso uguale cattivo. E non c’è redenzione. «Siamo così spaventati che i nostri corpi possano essere percepiti come grassi — scrive la Adams —. È una delle cose peggiori che ci possono capitare». Essere magri è una virtù morale, la risultante della somma di scelte giuste: fare sport, non prendere l’ascensore, mangiare un’insalata a pranzo.

TESS HOLIDAY 3TESS HOLIDAY 3

 

Marc Augé scrive che «dimostrare la propria età significa lasciarle prendere le leve del comando». E che c’è di peggio che cedere il timone, autodenunciarsi come «senza carattere»? Con i chili è lo stesso: se mangio quello che voglio, in fondo non sto facendo del tutto il mio dovere. Ho perso il controllo. 
 

Renee Engeln, psicologo della Northwestern University, sul New York Times dà i numeri del fenomeno: oltre il 90 per cento delle donne pratica il fat talk nonostante solo il 9 per cento sia in realtà in sovrappeso. «Non possiamo controllare un sacco di cose in questo mondo, tipo l’industria della moda che continua a preferire i modelli skinny — scrive — ma possiamo controllare le nostre parole. Per il nostro bene e per il bene degli altri, le donne smettano di parlare in questo modo. Dobbiamo cambiare la conversazione». Ecco, cambiare la conversazione. 
 

Tess Holliday, modella taglia 52, si è messa a capo della crociata per riappropriarsi dell’aggettivo grasso — al posto dei medicalizzati obeso e sovrappeso o della loro versione fashion over size e curvy — «togliendo potere a chi utilizza la parola solo per giudicarmi». Il suo non è un incitamento all’abbuffata (accusa che le viene rivolta da quelli che provano a zittirla). È l’invito ad aprire gli occhi su altri canoni corporei e di bellezza, diversi dalla 42 («Se Dolce e Gabbana facessero abiti nella mia taglia, comprerei tutto!», ha detto a Vanity Fair ). Modelli non per forza «malati».

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Lo sostiene anche un’altra delle poche voci dissonanti. «Se sei uno dei 45 milioni di americani che hanno intenzione di mettersi a dieta, ho un consiglio per te: non farlo», attacca su Slate Harriet Brown, autrice di «Body of Truth» in cui cerca di fare a ritroso l’intero percorso: come e perché siamo diventati ossessionati dal peso corporeo?

 

È vero che grasso coincide con poca salute? Lei sostiene di no, non sempre. Certo, leggendo la Brown si scopre che la grassofobia non è invenzione di oggi. «Preferirei morire che essere grassa», diceva Amelia Summerville, attrice. Era il 1916. 
@danicorr

 

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