IL LUPO DI CAPRIO - A LEO PIACCIONO I PERSONAGGI STRONZI, COME “THE WOLF OF WALL STREET”: “È UN CALIGOLA DEI GIORNI NOSTRI, L’AMERICAN DREAM IN VERSIONE DISTORTA”

Paola Jacobbi per "Vanity Fair"

Se fossi un divo del cinema, vorrei essere Leonardo DiCaprio. Perché è uno che sa come si fa. Conosce tutti i trucchi, le pause giuste da infilare nella conversazione per dire abbastanza ma sempre evitando di scoprirsi troppo. Sa «vendere» i suoi film, soprattutto se sono diretti da Martin Scorsese come quest'ultimo, il quinto che girano insieme, The Wolf Of Wall Street (Il lupo di Wall Street) che esce negli Stati Uniti a Natale e in Italia il 23 gennaio.

Il film - un po' forzatamente infilato nella categoria Best Comedy - e l'interpretazione di DiCaprio sono già candidati al primo dei premi cinematografici che verranno consegnati nel 2014: i Golden Globes.

Potrebbe essere la volta buona anche per l'Oscar, ma non è il caso di farsi troppe illusioni, e non tanto e non solo perché quest'anno la concorrenza (vedi Matthew McConaughey) è forte: all'Academy, si sa, DiCaprio non piace.

Non è la bandiera di una di quelle vite private esemplari che tanto si portano a Hollywood: non è il pater familias di un mulinobianco tipo Ben Affleck, per intenderci, ma nemmeno il giulivo scapolone con fidanzata decorativa al seguito come George Clooney. Sfugge ai cliché: colleziona ragazze sempre più belle. L'ultima in carica si chiama Toni Garrn, ma potrebbe anche essere già stata sostituita, per quanto ne sappiamo. Il fatto è che queste ragazze non lo accompagnano quasi mai sui tappeti rossi dove, di preferenza, lui arriva con la mamma o con il padre e la sua seconda moglie.

Inoltre, dicono gli insider, Leo è poco diplomatico e troppo indipendente dal punto di vista professionale. Rifiuta i ruoli da americano perbene, a favore di personaggi difficili. L'anno scorso è stato un disgustoso schiavista per Quentin Tarantino (Django Unchained), adesso è - appunto - il lupo di Wall Street. Storia vera di Jordan Belfort, speculatore di Borsa mascalzonissimo e ignaro di ogni tipo di scrupolo che furoreggiò negli anni Ottanta. Dopo la galera si è redento (ovvio, senza redenzione che Scorsese sarebbe?) ma il film è un tripudio di sesso, droga e soldi. Tanti soldi. La gioia dei soldi facili. Il potere divinizzato dei soldi.

La sceneggiatura, tratta dall'autobiografia di Belfort stesso, girava da un po'. Nel 2007 DiCaprio vinse l'asta dei diritti contro Brad Pitt, anche lui interessato. Nessuna major ha voluto produrlo - questo al cinema è il tempo dei vampiri di fantasia, c'è poco spazio per quelli veri - ma, a un certo punto, è entrata in scena una piccola impresa indipendente che, alla fine, ha trovato i 100 mila dollari necessari.

Se saranno stati bene o male investiti lo sapremo tra un mese. Quel che è certo è che, Oscar o non Oscar, DiCaprio ha un'aura di leggenda che pochi possiedono
e, dettaglio non da poco, è una vera star che manda la gente al cinema, come dimostrano gli incassi del Grande Gatsby: critiche avverse che salvavano solo la sua performance, risultati economici che hanno ossigenato il box office dell'ultima primavera.

Lo scrittore Tom Wolfe, nel suo ultimo romanzo Le ragioni del sangue, quando vuole citare una star del cinema per antonomasia cita proprio lui: lo fa in parodia, chiamandolo Leon DeCapito, infilandolo in una scena di ricchi e famosi che vagano tra una mostra e l'altra di Art Basel Miami.

Del resto, non ci sarebbe niente di strano. Come molti colleghi danarosi e affamati di riconoscimenti culturali, Leonardo è un collezionista, ma di recente è anche entrato nel board del Lacma, il Museo di arte contemporanea di Los Angeles. Quando fa una cosa, DiCaprio la fa bene. L'ambientalismo, per esempio, è la sua causa del cuore e si impegna moltissimo. Anzi, vi capitasse di trovarvelo di fianco a una cena, mi raccomando: mostratevi ferrate su impatto zero e biocombustioni. Potrebbe essere il vostro asso nella manica, in caso siate prive di un corpo da modella di lingerie.

Al nostro incontro a Los Angeles si presenta in jeans, camicia a scacchi e un'orrenda giacca, di taglia sbagliata. Al collo porta una catenina con un ciondolo che per tutto il tempo cerca di nascondere spingendola verso la clavicola, tanto che alla fine me ne andrò con questo quesito irrisolto. Un talismano? Una medaglietta religiosa? Chissà. Leonardo è così, sfuggente e misterioso: prendere o lasciare.

Come definirebbe il film?
«Ha presente Quei bravi ragazzi di Scorsese? Ecco, forse, questo è il film che gli somiglia di più. È una dark comedy su un Caligola dei giorni nostri. La storia di uno che ha un'insaziabile voglia di denaro e che non intende rispettare le regole per ottenerlo. Una specie di versione distorta dell'American Dream».

Ha conosciuto Jordan Belfort per prepararsi?
«Sì, ci siamo frequentati per mesi. Adesso è pentito e tiene seminari per insegnare alla gente a non farsi fregare e a gestire al meglio i risparmi. Un'identità che si è rovesciata, se si pensa a quello che è stato: un uomo che non era in grado di considerare le conseguenze delle sue azioni, che si sentiva una specie di dio in terra, venerato come una rockstar. Oggi ha ritrovato il senno».

Un simile cambiamento è credibile?
«Sì, la gente cambia, impara dai propri errori. Credo succeda a molte persone, per fortuna».

È pronto per quel tipo di rituali polemiche genere «ma qui si fa un eroe di un delinquente»?
«Non si può mai sapere che reazioni avrà il pubblico di fronte a un film. Ho conosciuto broker che mi hanno raccontato di aver scelto quel lavoro negli anni Ottanta perché avevano visto Wall Street di Oliver Stone e mitizzavano il Gordon Gekko di Michael Douglas. Ma oggi i tempi sono cambiati. Non credo che gli affaristi di Borsa siano figure popolari, anzi (ride, ndr)».

Anche lei vive in un mondo in cui girano tanti soldi. In una scala da uno a dieci, quanto misura la sua voglia di denaro?
«C'è uno scambio di battute nel Grande Gatsby che fa "Noi non ci preoccupiamo di questioni di denaro", e la risposta è "Perché ne avete!" (ride di nuovo, ndr)».

Rido anch'io, ma non mi ha ancora risposto.
«Credo che l'avidità sia un istinto naturale dell'uomo, uno dei nostri strumenti di sopravvivenza, una cosa che sta dentro di noi. Obiettivo dell'intelligenza della nostra specie dovrebbe essere cercare di superarne i limiti. O almeno viverla con equilibrio. Una cosa è certa: se sei ossessionato dai soldi, e quindi dal potere, è segno che non stai bene. Hai solo quell'idea lì a cui attaccarti e, a certi livelli, la smania di denaro è una dipendenza altamente distruttiva, non molto diversa da quella dalla droga».

È alla sua quinta collaborazione con Scorsese. Ricorda come vi siete conosciuti?
«Un sacco, davvero un sacco di tempo fa. Ero a New York, avevo 18 anni e avevo girato solo un paio di film, Voglia di ricominciare e Buon compleanno Mr. Grape. Eravamo a un party, l'ho visto e mi sono avvicinato con l'idea di presentarmi. Ma lui mi ha preceduto: "Ehi, ragazzo, ho visto il tuo film. Ottimo lavoro, continua così". Non sono riuscito a dire una parola, ero paralizzato. Scorsese sapeva chi fossi. Wow».

Se ripensa al Leonardo diciottenne e si vede come è diventato oggi, si dice che sta vivendo la vita dei suoi sogni?
«In un certo senso, sì. Ho avuto molta fortuna, però - me lo lasci dire - io prendo questo lavoro molto seriamente. Il successo non è sprecato addosso a me. Anche perché è il risultato di una lunga storia di passione e di disciplina. Mia e dei miei genitori. Mio padre che mi ha incoraggiato sempre, mia madre che ci ha creduto e che mi portava a fare i provini, quando avevo dieci anni, perché ero io a chiederglielo».

Un bambino con le idee chiare.
«Di recente ho incontrato un mio amico d'infanzia che adesso fa il pittore. Ci siamo ricordati che, da piccoli, lui disegnava fumetti e io li interpretavo, facendo le voci di tutti i personaggi. È andata bene a entrambi».

È merito dei suoi genitori se lei non si è perso per strada, come capita a molti attori che iniziano da bambini?
«Si riferisce a Hollywood e alle sue tentazioni?» (e qui fa uno di quei suoi tipici sguardi obliqui, con gli occhi stretti e l'aria di sfida, ndr).

Mettiamola così.
«Se io fossi stato portato per i disastri, ci sarei arrivato anche prima di essere un attore. Vivevamo in un quartiere molto poco sicuro, di fronte a casa nostra c'era un viavai di tossici che Hollywood e i suoi vizi al confronto fanno ridere».

Va bene. Detto questo?
«Detto questo, il sostegno dei miei è stato fondamentale perché in effetti la fama, la troppa attenzione, il potere e la disperazione indotta dalla paura di perdere tutto da un momento all'altro sono un rischio reale. Lo ammetto».

Certo, lei ha un'idea molto precisa degli stati d'animo che accompagnano la vita di una star.
«Onestamente, io so chi sono. So quando è il tempo di divertirsi e quando quello di essere serio. E so che cosa sono capace di fare e che cosa no».

Pensa che saprà fare anche il regista, un giorno?
«Dirigere un film è una cosa che possono fare molti, ma diventare un regista davvero bravo è molto difficile. Sono necessarie doti che, appunto, non sono sicuro di avere. Quindi, per ora, la risposta è no. Non sono pronto».

E al compimento dei quaranta, cui manca meno di un anno, è pronto?
«Non ci penso, non ho schemi né progetti. Anche perché dire che entro una certa età bisognerebbe fare questo o quest'altro è una sicura ricetta per la catastrofe. Aspetto tranquillo il mio compleanno, mentre voi giornalisti me ne parlate in continuazione».

C'è un collegamento tra questa serenità personale e il suo desiderio di investire denaro in cose utili, come i progetti per l'ambiente?
«Siamo in tanti, nel mondo dello spettacolo, ad avere una causa che ci sta a cuore. Da fuori, molti pensano che sia un modo come un altro per far parlare di noi, o fingere di essere persone migliori di quello che siamo. Io non le chiedo di credere alla mia sincerità, ma le dico che chiunque porti attenzione a certi temi, per qualunque ragione lo faccia, va ascoltato».

A me sembra che i media diano parecchio spazio a questi temi.
«Sarà, ma sta di fatto che gli anni passano e qui si va indietro anziché avanti. Forum internazionali si susseguono e nessuno decide niente. Le politiche dei governi non cambiano e le multinazionali continuano a dettare legge. In Canada stanno scavando un buco grande quattro volte la Florida in cerca di petrolio e non c'è verso di fermarli. Non so lei, io personalmente sono piuttosto preoccupato».

E poi si alza, ci salutiamo e se ne va, il viso un po' corrucciato e immerso nella sua nuvola di fumo. Elettronico, si capisce.

 

 

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