NO VASCO, IO NON CI CASCO - L’ESTETOLOGO ALESSANDRO ALFIERI E IL CRITICO MUSICALE PAOLO TALANCA DISTRUGGONO IL MITO DI VASCO ROSSI - IL BLASCO PERSEGUE “UN INEDITO ROMANTICISMO DELLA TRASANDATEZZA, DELLA VOLGARITÀ, DELLA MARGINALIZZAZIONE SOCIALE E DELL’IGNORANZA” - È SEMPRE UGUALE A SÉ STESSO, AI SOGNI DEGLI ANNI ’80, E PER QUESTO VIENE MITIZZATO DA UNA COMBRICCOLA DI FAN TENUTA INSIEME SOLO DAL CULTO DEL “MAESTRO”…

Massimiliano Panarari per "La Stampa"

A volte la pop filosofia è davvero «spericolata». Un po' come la vita. E, naturalmente, non poteva non applicarsi anche a chi della spericolatezza esistenziale ha fatto un vessillo, vedendo le proprie canzoni tramutarsi in oggetto di singolar tenzone da parte di noti opinionisti (da Nantas Salvalaggio a Edmondo Berselli e Marcello Veneziani).

Stiamo parlando di Vasco Rossi,«il più grande di tutti» secondo i suoi fan, ma non a giudizio dell'estetologo (docente a La Sapienza) Alessandro Alfieri e del critico musicale Paolo Talanca, autori di una sua minuziosa vivisezione filosofica che, già dal titolo, non dà adito a dubbi. Vasco, il Male (Mimesis, pp. 128, euro 12) è un libro contro, un j'accuse, molto analitico e circostanziato, che decostruisce l'aura fatale del «Komandante» tanto dal punto di vista canoro che della sua «filosofia di vita», ma tributandogli, in ogni caso, la dovuta considerazione come fenomeno di massa e icona popolare dal successo stratosferico.

La tesi, in soldoni, è la seguente: il rocker di Zocca è un «cattivo maestro» - detto, però, da sinistra. Il peccato strutturale del vaschismo consiste nell'avere abbracciato, dopo essersi presentato come un momento di rottura, la «logica dell'identico» e dell'eterna ripetizione di se stesso, secondo uno schema, alquanto banale, per cui la rivolta contro il «mondo borghese» passava per lo sbandieramento di una supposta idea di trasgressione (a partire dal consumo di droghe) e, scrivono gli autori, di un «inedito romanticismo della trasandatezza, della volgarità, della marginalizzazione sociale e dell'ignoranza».

Insomma, niente di nuovo sul fronte italiano, e, anzi, nient'altro che l'ennesima manifestazione di anti-intellettualismo e di rigetto della cultura. Ovvero, una delle varie forme realizzate di egemonia sottoculturale.

A colpi di rasoio di Occam, Alfieri e Talanca incidono così il repertorio musicale e comportamentale del Blasco per leggerlo nei termini di un'ulteriore autobiografia (canora) della nazione, per cui nulla muta mai in questo Paese del Gattopardo che soffre di eterni ritorni e riproposizioni continue (politiche come artistiche), e della conseguente «asfissia creativa», che ci porta a una decadenza incessante (e a una transizione infinita). Il vaschismo come altra faccia della stessa sottocultura pop di cui si è nutrito il berlusconismo, ed entrambe espressioni idealtipiche dello spirito dei tempi degli Anni '80.

Del resto, «squadra che vince non si cambia» mai dalle nostre parti, e non si vede perché la cosa non dovrebbe valere anche per la musica. Lo dimostra la «canzone a una dimensione», che da Stupido hotel del 2001 in avanti, si fa cifra esclusiva del Vasco del terzo millennio, congelando ed esaurendo definitivamente la sua vena artistica.

I cori che accompagnano canzoni come Senza parole o Vivere non possiedono più la natura innovativa della scrittura per slogan degli esordi, convertendosi in mero borbottio e gargarismi sovreccitati. Rossi, insomma, si iconizza, ben sapendo che il significato e la forza dell'icona stanno proprio nella sua riproposizione pura e semplice. E, difatti, il Blasco è, a furor di popolo rock e giovanile, un «mito», che abolisce ogni distinzione tra la propria vita reale e l' «opera d'arte» sul palco (persino più di figure come Andy Warhol, David Bowie e Alice Cooper).

I suoi fan lo vivono all'insegna di una dimensione mitopoietica: lui «è così da sempre», «va al massimo» da tempi immemorabili, venendo trasfigurato, come accade giustappunto nei miti, su un piano di eternità. E, al pari degli eroi mitologici, «istituisce» una comunità (quella dove Siamo solo noi ), tenuta insieme dal culto del «Maestro» e dal riconoscimento identitario reciproco dei supporter, non esente da un certo tasso di settarismo e vittimismo (espresso dalla lotta contro tutto e tutti dell'incompresa «Combriccola del Blasco», perseguitata e vilipesa come nelle parole di Blasco Rossi).

Curiosa parabola per chi, aedo dell'individualismo, aveva preso le mosse dando voce alle frustrazioni e inquietudini adolescenziali, vissute fino ad allora rigorosamente in solitudine e all'interno delle proprie camerette tappezzate di poster. Ma tant'è, a un mito non si può chiedere di essere consequenziale.

Un intreccio inestricabile tra vita e show, dunque, che, non a caso, si afferma nel decennio dell'ascesa inarrestabile della società dello spettacolo e dell'edonismo, presentandosi, per generazioni di giovani rapiti dal suo incantesimo - e oggi estremamente precari non soltanto da un punto di vista esistenziale, ma anche lavorativo - come l'alfiere dell'eterna (e confusa) rivolta anti-borghese. Ma, guardato dall'età della «dittatura dello spread», rimane, giustappunto, un pifferaio magico intento a riproporre gli stessi (stanchi, artefatti e piuttosto anacronistici) sogni di quegli anni Ottanta.

 

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