CHAVEZ, UN PERON IN CAMICIA ROSSA - QUANDO SPUNTÒ NEL 1998, ERA IL PRIMO ANIMALE POLITICO “DIVERSO” CHE ROMPEVA UNA SERIE DI LEADER TUTTI SIMILI, PELUCHE DEGLI STATI UNITI - DICHIARA LA SUA AMMIRAZIONE PER FIDEL CASTRO, PUNTA SULL'INTEGRAZIONE LATINOAMERICANA CONTRO L'IMPERIALISMO YANKEE, MA NON NE FA UNA QUESTIONE IDEOLOGICA. È UN CAUDILLO CLASSICO, PIÙ PERONISTA CHE MARXISTA, AMICO DI LULA COME DEI KIRCHNER…

Rocco Cotroneo per il "Corriere della Sera"

Nei primi quattro anni di potere Chávez, il caudillo che sfidò gli Stati Uniti, non indossa camicie rosse, né si definisce socialista. Dichiara la sua stima per Fidel Castro, attacca gli Usa, punta sull'integrazione latinoamericana.

Quando spuntò per la prima volta tra le notizie come il tenente colonnello dei parà che aveva vinto le elezioni presidenziali in Venezuela, era il dicembre del 1998, Hugo Chávez Frias suscitò immediato interesse. Era il primo animale politico «diverso» che emergeva in Sudamerica dopo la fine delle dittature e un decennio di consolidamento della democrazia. Rompeva una serie di leader tutti simili, fedeli in economia alle ricette liberiste e in politica all'amicizia con gli Stati Uniti, di bella presenza e distanti a parole dal recente passato.

Chávez era qualcos'altro, già dalle presentazioni. Sei anni prima, nel 1992, appena 38enne, aveva tentato di abbattere con un colpo di Stato il presidente Carlos Andrés Pérez. Fuori dal Venezuela la notizia era passata quasi inosservata. Venne bollato come un golpe folcloristico, fuori dal tempo, tanto che lo stesso ideatore non venne eccessivamente punito: due anni di galera e poi la libertà. Alle presidenziali del 1998, più che il suo ritorno da competitor democratico, all'inizio fece scalpore la candidatura della bionda ex miss Universo, Irene Sáez.

Per il Venezuela la prima vittoria elettorale di Chávez fu comunque traumatica. Rompeva il consociativismo tra due partiti corrotti (Ad e Copei) che si spartivano il potere da decenni in un Paese seduto su un mare di petrolio. Il Venezuela aveva conosciuto una certa ricchezza negli anni 60 e 70, dopo aver attratto nel dopoguerra centinaia di migliaia di emigranti italiani, ma stava ormai scivolando verso i peggiori cliché latinoamericani: corruzione, povertà e diseguaglianze sociali, politica piegata agli interessi dei poteri economici.

Chávez ha una buona oratoria e la faccia meticcia dei venezuelani poveri, che mai si era vista ai piani alti della politica; eppure alla prima uscita, più che il voto dei diseredati, attrae soprattutto quello di una borghesia urbana e progressista che non ne può più del sistema corrotto. Non si definisce legato ad alcuna ideologia, e il richiamo al mito di Simón Bolivár, il libertador, l'eroe nazionale, è considerato innocuo e bipartisan. Tutto è intitolato a Bolivar, in Venezuela.

Ma sono sufficienti pochi mesi per capire che l'obiettivo di Chávez non è unire il suo Paese, ma rivoltarne il sistema politico, distruggere il passato e governare in nome del solo popolo, contro l'oligarchia e la borghesia. Lemma principale la divisione tra i suoi (i rivoluzionari, i nuovi, i puliti) e gli altri (presto ribattezzati gli squallidi). Si mette subito al lavoro per cambiare la Costituzione, forzando quella in vigore per piegare il Congresso. Sottopone l'elettorato a una raffica di votazioni, vincendo sempre.

Ma smentisce, dal primo all'ultimo giorno della sua parabola, chi si aspetta nel passo successivo la fine della democrazia rappresentativa. Che Chávez non cancellerà mai, pur mettendo in campo tutto l'armamentario dell'autoritarismo populista, assoggettando a poco a poco il legislativo, il sistema mediatico e quello giudiziario, confondendo alla fine lo Stato con il suo partito. Sullo sfondo le forze armate, dalle quali proviene: guardiane della Revolución «bonita», come ama chiamare la sua creatura politica.

Usa la tv come mai nessuno aveva osato: in diretta riesce a parlare fino a cinque o sei ore senza fermarsi, canta, recita poesie, nomina ministri o li caccia in malo modo. È uno show unico al mondo.

Nei primi quattro anni di potere Chávez non indossa camicie rosse, né si definisce socialista. Dichiara la sua ammirazione per Fidel Castro e attacca gli Usa, punta sull'integrazione latinoamericana contro l'imperialismo yankee, ma non ne fa una questione ideologica. È un caudillo classico, più peronista che marxista. Ma solo fino al 2002-2003, quando l'offensiva dei suoi avversari per eliminare l'anomalia Hugo fallirà, finendo per rafforzarlo.

Nell'aprile del 2002, viene allontanato dal potere per due giorni in un goffo tentativo di golpe. Nei mesi successivi, dopo che Chávez annuncia di voler prendere il pieno controllo del colosso petrolifero statale Pdvsa, gli scatta contro la serrata dell'economia. Due mesi di paralisi, con sindacati e imprenditori uniti, fanno precipitare il Pil ma non il governo chavista, che resiste e poi reagisce con epurazioni di massa dall'azienda.

Con i soldi del petrolio, sul quale ha ormai il controllo completo, Chávez lancia le missioni sociali. Crea un nuovo sistema sanitario per i poveri, e poiché sostiene che i medici venezuelani non vogliono andare a lavorare nelle favelas, ne fa arrivare 30.000 da Cuba, pagandoli a caro prezzo al governo castrista; annuncia la fine dell'analfabetismo; apre un sistema di distribuzione a prezzi calmierati di beni di primo consumo; sovvenziona tutto, dai frigoriferi ai regali di Natale per i bambini.

Chávez resiste ad un'altra spallata nel 2004, un referendum per revocarne il mandato, e radicalizza la sua rivoluzione, attraverso la nazionalizzazione di tutti i settori strategici dell'economia e colpendo con espropri molti proprietari terrieri e imprenditori non allineati. Revoca la concessione ad un network tv ostile. La sua personale guerra con il presidente colombiano Alvaro Uribe porta i due Paesi sull'orlo di una guerra.

Gli Usa, amministrazione Bush figlio, accusano il Venezuela di appoggiare la guerriglia colombiana e il narcotraffico. Chávez risponde con uno storico discorso all'Onu: «Sento odore di zolfo su questo podio, è appena passato Bush, il demonio!». Dal re di Spagna Juan Carlos si becca un plateale «Perché non stai zitto?», durante un vertice, mentre accusa alcuni dei leader presenti di essere servi degli Stati Uniti. L'ammirazione per Cuba diventa un ponte aereo di aiuti e petrolio, che poi si estende ad altri Paesi: Bolivia, Ecuador, Nicaragua.

La stessa Argentina dei Kirchner diventa un Paese amico, e viene soccorsa quando non riesce a piazzare bond. Il brasiliano Lula ne è distante per stile e princìpi, ma lo difenderà sempre. La legittimità di Chávez prosegue attraverso il voto. Viene rieletto - dopo aver ottenuto il diritto a presentarsi tutte le volte che vuole - nel 2006 e 2012. Diventa un idolo per milioni di venezuelani, ai quali non offre una vita granché migliore ma che la sua retorica fa sentire cittadini e soggetti politici.

In economia, il cosiddetto «socialismo del XXI secolo» riduce la povertà, ma crea un sistema paternalistico e squilibrato. Gli investimenti esteri fuggono dal Venezuela degli espropri. Il controllo sui prezzi fa crollare la produzione agricola, e costringe il governo a importare di tutto. L'inflazione resta sempre a due cifre, il cambio nero arricchisce la finanza, la corruzione esplode. Ma Chávez è fortunato, perché per un decennio il prezzo del barile resterà a livelli che gli permettono di espandere la spesa sociale senza pensare agli equilibri di bilancio.

La malattia lo coglie impreparato nel 2011. Chávez conduce una vita sregolata, non si controlla, vive di eccessi, è un accentratore compulsivo. È costretto ad ammettere di avere un tumore solo quando non può più fermare le indiscrezioni, ma senza mai offrire dettagli.

Ha il mito e la paranoia della segretezza, come il suo maestro Fidel Castro, e da lui vola per curarsi quando il parere di molti glielo sconsiglia: ha un tumore molto aggressivo e raro, e andrebbe trattato in ospedali più attrezzati e da medici più esperti. Affronta l'ultima campagna elettorale fingendo di essere completamente guarito, in realtà gonfio di farmaci per tenersi in piedi, e vince di nuovo. Ma la menzogna, la peggiore della sua vita, stavolta non dura nemmeno il tempo di insediarsi per la quarta volta alla presidenza.

 

 

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