FORZA TRAVAGLIO! - COMING OUT DI BELPIETRO: “TRAVAGLIO MI STA SULLE BALLE, MA NELLA POLEMICA CON SCALFARI HA RAGIONE DA VENDERE - LUI NON è UN VOLTAGABBANA COME IL FONDATORE DI “REPUBBLICA”, CHE HA RINNEGATO IL SUO SOSTEGNO ALLA PROCURA DI PALERMO PUR DI DIFENDERE LA PRIVACY DI NAPOLITANO, DOPO AVER CALPESTATO QUELLA DI BERLUSCONI. SCALFARI HA PERFINO DIFESO LA TRATTATIVA CON LA MAFIA, LUI CHE AI TEMPI DEL SEQUESTRO MORO NON ACCETTAVA IL DIALOGO COI TERRORISTI”…

Maurizio Belpietro per "Libero"

Allontanate i bambini, nascondete la copia di Libero: state per leggere un articolo politicamente scorretto. I lettori sanno che quando scrivo cerco di non offendere mai nessuno e i miei articoli rimangono nell'ambito del diritto di critica e quando intingo il pennino contro qualcuno non lo faccio per partito preso, né do sfogo a miei pregiudizi. Ciò nonostante oggi dovranno perdonarmi se dico quel che penso di Marco Travaglio. Confesso infatti che il vicedirettore del Fatto, nonché spalla di Michele Santoro al giovedì sera in tv, mi sta poco cordialmente sulle balle. La sua aria saputella, il suo tono irridente e soprattutto la faziosità con cui trincia giudizi nascondendo ciò che non gli fa comodo, mi danno sui nervi. Per questa ragione, appena lo vedo in video mi viene voglia di cambiare canale.

Ciò detto, rivelata cioè tutta la mia antipatia nei confronti del collega, non posso fare a meno di dire che nella polemica che lo oppone ad Eugenio Scalfari, e di conseguenza a Giorgio Napolitano, Travaglio ha ragione da vendere. O meglio, dal mio punto di vista il vicedirettore del Fatto ha torto, perché non si ascoltano le telefonate dei capi di Stato neanche per scherzo, ma devo riconoscere che in questa faccenda Marco è il solo ad essere rimasto coerente con se stesso e non aver voltato gabbana per convenienza.

Cosa che al contrario non si può dire del direttore-fondatore, il quale, quando nel mirino c'era Silvio Berlusconi, si batteva perché le conversazioni del capo del governo venissero rese pubbliche e i magistrati potessero continuare a intercettare a proprio piacimento le chiacchiere del malcapitato, ma adesso che l'orecchio dei pm è arrivato fino al Colle, scalpita per mettere il bavaglio ai pubblici ministeri. Io non sto con Antonio Ingroia e ritengo che le sue inchieste siano politiche più che giudiziarie. La faccenda della trattativa non è roba da tribunale, semmai da commissione antimafia o ancor meglio da storici.

E penso che l'incriminazione di Nicola Mancino e altri sia solo un espediente che l'aggiunto di Palermo ha inventato per ficcare il naso nella faccenda. Ciò detto, fino a ieri in prima fila nel difendere le indagini siciliane c'erano proprio Barbapapà e il suo giornale. Ma come si fa a scrivere quel che Scalfari ha scritto l'altro ieri su Repubblica e cioè che in vent'anni i magistrati siciliani non hanno prodotto altro che bufale, includendo la vicenda del finto pentito Scarantino sulla base delle cui dichiarazioni sono state condannate delle persone?

Ma se le cose stanno così, se cioè i pm di Palermo e Caltanissetta in vent'anni non hanno combinato un bel niente tranne che inseguire Berlusconi (cosa che Libero sostiene da tempo), il direttore-fondatore dov'era? Si è accorto solo ora che le inchieste degli uffici giudiziari dell'isola hanno una venatura politica? Oppure lo aveva capito da un pezzo e gli ha fatto comodo non dirlo, tacendo sull'inconcludenza di certe indagini in quanto colpivano di volta in volta Andreotti, il generale Mori, Contrada, Dell'Utri, il Cavaliere, cioè tutta gente considerata nemica da Barbapapà e dalla sua cricca?

Per l'occasione Scalfari diventa anche un sostenitore della trattativa con la mafia. «Quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile», sentenzia il filosofo che dialoga con l'Io, il quale, per rafforzare le sue tesi, ricorda la trattativa con le Br. Peccato che all'epoca, quando Aldo Moro era nelle mani dei brigatisti e Craxi suggeriva di fare delle concessioni ai terroristi, liberandone una in cambio della consegna del presidente dc, il direttore di Repubblica fosse nemico giurato di qualsiasi dialogo con i terroristi.

Allora Barbapapà capeggiava il partito della fermezza, ma oggi, per proteggere un suo vecchio compagno d'armi come il presidente della Repubblica, non ha esitato a cambiare bandiera. Trattare con i brigatisti per salvare la vita di Moro era moralmente inaccettabile, farlo con la mafia invece è moralmente passabile.

Tralascio le altre tesi sostenute da nonno Eugenio in difesa di nonno Giorgio: bastano infatti le prime due per capire l'inversione a U praticata dall'uomo simbolo del giornalismo radical chic. Pur di sostenere le ragioni del presidente della Repubblica, il direttore-fondatore non esita a gettare a mare vent'anni di storia giudiziaria antimafia e un pezzo della sua stessa storia. La capriola è talmente azzardata che viene da chiedersi quale sia la ragione.

Che cosa c'è di così scottante nelle telefonate tra il capo dello Stato e Nicola Mancino da spingere Barbapapà a simile triplo salto carpiato? Anche a me, che pure sono per la segretezza delle conversazioni di chi ricopre incarichi istituzionali e diffido delle inchieste a sfondo politico, giunti a questo punto della vicenda un po' di curiosità è venuta.

Se Scalfari si gioca la faccia e la sua stessa carriera di decano del giornalismo impegnato, che cosa c'è da nascondere? Quasi quasi, anche se Travaglio mi sta sulle balle, vien voglia di sostenerlo per scoprire giochi e giochetti dei nonni della Repubblica.

 

MAURIZIO BELPIETRO MARCO TRAVAGLIO NICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO eugenio scalfari Gustavo Zagrebelsky foto La Presse

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