IL BOOM DELLA TURCHIA? GRAZIE ALL’ACCORDO SEGRETO CON I CURDI

Marco Ansaldo per "La Repubblica"

La scena si svolge la sera al ristorante Rigèl, affacciato sulla costa asiatica di Istanbul. A cena, a un tavolo che quasi tocca le acque del Bosforo, c'è lo scrittore Yashar Kemal, il grande aedo dell'epopea dei curdi. Ad avvicinarlo sono prima due bambini: «Abbiamo letto il suo libro "La collera del monte Ararat". Era bellissimo».

Poi è la volta di due studentesse: «L'abbiamo riconosciuta. Sta scrivendo un altro libro?». Quindi tocca a un giovane universitario: «Ma sa che l'altra notte l'ho vista in sogno, e lei mi parlava della pace? Io sono turco, curdo e circasso». Dopo è la volta di marito e moglie, professionisti: «Quanto abbiamo sofferto in questo Paese». Infine piomba una signora alta e bionda, chiara esponente dei "turchi bianchi", così diversi dai curdi e dai più scuri anatolici. Vuole a tutti i costi una foto: «Lei è il più grande scrittore di questo Paese». E gli stampa un bacio sulla guancia.

Non era mai accaduto. Nelle tante sere passate da Kemal, oggi quasi 90enne, da Rigèl con gli amici, una scena come questa, con la gente che avvicina con calore l'autore
incarcerato ed esiliato per anni a causa della sua identità curda, sarebbe stata inimmaginabile. Ma mai come oggi in Turchia la gente si sente libera di dichiarare il proprio Dna etnico. A mezzanotte lo scrittore di "Memed il falco" se n'è andato con un sorriso estasiato. Oggi turchi e curdi sono pronti a riconciliarsi.

Trent'anni di guerra, 40 mila morti, 300 miliardi di danni. Eppure il conflitto nel Sud est dell'Anatolia, un massacro a bassa intensità ma capace di mietere nel silenzio del mondo ogni giorno vittime fra soldati e ribelli, sembra sul punto di finire. «Facciamo tacere le armi, lasciamo parlare le idee», dice il capo della guerriglia, da quasi tre lustri prigioniero in un'isola circondata da navi da guerra.

«Se rinuncerete alle armi - risponde il premier, da Ankara - finiranno le operazioni dell'esercito». Abdullah Ocalan e Recep Tayyip Erdogan nella loro vita forse non si incontreranno mai. Troppe le distanze e le diffidenze fra due leader diversi, uniti solo dal carattere autoritario. Ma il promettente botta e risposta, foriero di nuovi messaggi, tra il capo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e l'uomo forte della Turchia può mettere davvero fine a un massacro spaventoso.

Saranno i soldi a far tacere le armi. E verranno i sogni di rinascita nazionale a far cessare il tributo di sangue. Perché ad avviare un processo di riconciliazione che appariva ormai senza speranza è l'inarrestabile sviluppo del Paese. Unito alle attese di Istanbul di ospitare le Olimpiadi del 2020. Con la prospettiva delle zone curde di ritagliarsi una fetta di pace e prosperità. Svanito il sogno di entrare prontamente in Europa, sono altre carte a promettere il successo.

«Il terrore è costato alla Turchia 300 miliardi di dollari nelle ultime 3 decadi - dice il premier islamico moderato - ha preso vite umane e salassato l'economia. Ora spero che questo negoziato porti a una soluzione». «D'ora in poi - gli fa eco l'uomo prigioniero nell'atollo - non deve più cadere una goccia di sangue».

Per arrivare a questo risultato la Turchia si è affidata ai suoi servizi segreti e a una commissione di saggi. Una trattativa inedita è scaturita fra il capo dell'intelligence, Hakan Fidan, fedelissimo di Erdogan, e il leader incarcerato,quell'Apo confinato nell'isola di Imrali dove nel 1961 i generali golpisti avevano già impiccato un primo ministro, Adnan Menderes. Il negoziato ha portato a consensi inattesi. Dalla sua cella Ocalan continua a inviare lettere ai capi della guerriglia, come Murat Karayilan, cercando di concordare il ritiro nonostante i loro dubbi («i nostri militanti non possono consegnare le armi - è l'opinione di Karayilan, nascosto nel Nord Iraq - se ne parlerà semmai solo nell'ultima fase»).

Da Ankara Erdogan mostra di voler tenere a bada nazionalisti ed ex Lupi grigi, come il capo del Partito di azione nazionalista, Devlet Bahceli, che lo accusa di «aver svenduto i valori della Repubblica turca». A dettare i tempi dell'intesa è una road map in 3 fasi.

Con il seguente scenario: 1. Ritiro dei 1500 guerriglieri del Pkk sul suolo turco verso le basi in Nord Iraq, che il governo vorrebbe far chiudere entro l'inizio di novembre. Reinserimento dei ribelli nel territorio dell'Anatolia; 2. La "commissione dei saggi" avvicinerà turchi e curdi preparandoli al cambiamento radicale. Concessione di maggiori diritti politici, culturali e di autonomia amministrativa ai 15 milioni di curdi del Sud est; 3. Abolizione della legge antiterrorismo. Liberazione di migliaia di attivisti ora in carcere. Possibile esilio per i capi della guerriglia, e concessione di uno status speciale da parte delle nazioni disposte a ospitarli (quelle scandinavi, forse anche altre).

E qui si apre un capitolo delicato sul futuro di Abdullah Ocalan. Il capo dei guerriglieri curdi è da trent'anni il nemico numero uno della Turchia, l'uomo più odiato, «l'assassino dei bambini».

Il piano studiato da Ankara potrebbe portare a una sorpresa. Lo si capirà entro un anno, dopo le elezioni amministrative del marzo 2014. Ma l'accordo pattuito nell'isola-prigione fra l'intelligence e Ocalan in persona si concluderebbe con un suo trasferimento sulla terra ferma. Forse in un appartamento sicuro nella città di Diyarbakir.

In un'area controllata dai suoi fedelissimi, dove la sicurezza al 64enne Apo verrebbe garantita anche dai militari turchi. E con il suo movimento ormai sciolto, l'ex comandante la cui fuga dalla Siria lo portò nel 1998 a nascondersi per due mesi a Roma, potrebbe sognare l'insperabile: tornare a essere un uomo libero.

 

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