1- CORNUTI E MAZZIATI: A NOI LE SPESE, AGLI ALTRI PETROLIO, RICOSTRUZIONE, PRESTIGIO 2- L’INCAZZATURA DEL GENERALE TRICARICO: “IL GOVERNO BERLUSCONI È RIUSCITO A PERDERE LA GUERRA NONOSTANTE I SUCCESSI DEI SUOI MILITARI. DALL’ITALIA SONO PARTITI L’80% DEGLI AEREI PER LA LIBIA, SGANCIATI ALMENO OTTOCENTO TRA BOMBE E MISSILI: SENZA GLI AEROPORTI ITALIANI LA CAMPAGNA DELLA NATO NON CI SAREBBE MAI STATA” 3- EPPURE OBAMA HA IGNORATO ROMA NEI RINGRAZIAMENTI PER IL SUCCESSO DELL’”OPERAZIONE UMANITARIA” SOTTOLINEANDO INVECE IL PESO DELL'ASSE SARKOZY-CAMERON 4- E IL GENERALE TRICARICO VUOLE RESTITUIRE LA LEGIONE D’ONORE ALLA FRANCIA

Gianluca Di Feo per "l'Espresso"

Dicono che abbiamo combattuto come gli altri e forse più degli altri. Solo francesi e britannici ci hanno superato come numero di raid e ordigni sganciati per spazzare via il regime di Gheddafi. Non ci sono bilanci ufficiali, ma le fonti più attendibili rivelano dati impressionanti: i nostri caccia hanno individuato 1.500 obiettivi e ne hanno distrutti oltre cinquecento con almeno ottocento tra bombe e missili. È il massimo volume di fuoco scatenato dall'Aeronautica sin dal 1943: gli arsenali sono stati svuotati, impegnando contro le postazioni dei "lealisti" l'intera scorta di armi di precisione con puntamento laser o satellitare.

I vertici delle forze armate sono certi che le azioni non abbiano inflitto danni collaterali: ogni incursione è stata pianificata con cura, per evitare di colpire la popolazione. In alcuni casi, è stato persino posto una sorta di veto agli attacchi degli alleati, quando si è ritenuto che lo scenario fosse troppo confuso per distinguere tra guerrieri e abitanti. Perché è dalle nostre basi che è partito l'80 per cento degli aerei: senza gli aeroporti italiani la campagna della Nato in Libia non ci sarebbe mai stata.

Dal punto di vista militare, gli alti comandi atlantici hanno riconosciuto la rilevanza del nostro intervento. Ma sono bastate le parole di Barack Obama per far capire che l'Italia questa guerra l'ha persa. Il presidente americano ha ignorato Roma nei ringraziamenti per il successo dell'operazione, sottolineando invece il peso dell'asse franco-britannico. È come se si fosse chiuso un ciclo, cominciato nel 1999 con il conflitto in Kosovo che aveva dato un credito nuovo alle capacità italiane: poi c'erano state Iraq, Afghanistan e addirittura la leadership in Libano nel 2006. Adesso l'Italia di Silvio Berlusconi torna in un angolo, con un crescente sospetto di inaffidabilità. E questo accade proprio in Libia dove si trovano risorse fondamentali per l'economia nazionale ed esiste un rapporto privilegiato che, nel bene o nel male, va avanti da un secolo.

Il generale Leonardo Tricarico è stato un protagonista di queste vicende: ha coordinato le missioni Nato sulla ex Jugoslavia, è stato comandante dell'Aeronautica e consigliere militare dei premier D'Alema, Amato e Berlusconi. Oggi è uno dei promotori della Fondazione Icsa, il primo think tank italiano di questioni strategiche, ed è critico nei confronti del governo "che è riuscito a perdere la guerra nonostante i successi dei suoi militari".

A partire dal silenzio imposto alle forze armate: "Non si riesce a capire perché si è scelto di non comunicare l'attività compiuta dai nostri aerei sulla Libia. L'informazione è stata ridicola, quasi una presa in giro. I nostri reparti hanno avuto un ruolo importante dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Chi sa che gli aerei italiani hanno sganciato centinaia di bombe? Il cittadino deve conoscere cosa fanno i militari, nel rispetto dei vincoli di segretezza, e come vengono spesi i suoi soldi".

Tricarico si sofferma sul ruolo dei caccia Tornado attrezzati per accecare e distruggere la contraerea libica: sono stati decisivi nelle prime settimane di conflitto. E sui ricognitori senza pilota Predator di ultima generazione, che solo Italia e Stati Uniti hanno schierato.

"È stato proprio uno di questi velivoli robot statunitensi a scoprire il convoglio di Gheddafi e permettere la cattura del dittatore. L'Aeronautica li ha usati contemporaneamente sulla Tripolitania e sull'Afghanistan, teleguidandoli da un bunker pugliese. Io penso che questo conflitto debba fornire la base per riflettere sul futuro delle forze armate. C'è la necessità di potenziare il numero di aerei senza pilota e, cosa che penso avverrà in un tempo ridotto, dotarli di missili. Così come il Parlamento deve chiedersi quale missione vuole affidare ai nostri stormi: la campagna di Libia giustifica investimenti in mezzi d'attacco come il super-caccia F35, progettato proprio per azioni del genere".

Al di fuori degli aspetti tecnici, la coalizione contro Gheddafi ha mostrato un'altra novità di cui bisognerà tenere conto nel futuro: il ritiro americano. Per la prima volta, gli Usa si sono fatti da parte lasciando agli europei la gestione della guerra. "Il primo attacco francese, lanciato da Sarkozy senza consultare gli alleati, poteva provocare il caos: il presidente francese ha voluto fare da direttore d'orchestra imponendo agli altri i tempi e modi del conflitto. Lì gli americani hanno in qualche modo tamponato la situazione, inventando una struttura di comando che ha gestito la crisi per circa tre settimane prima dell'entrata in scena della Nato.

Ma i loro interessi vitali non sono in Libia. Il segretario alla Difesa Gates è stato chiaro: gli Stati Uniti non intendono pagare un prezzo così alto per la difesa dell'Europa, una linea ribadita in modo perentorio dal suo successore Panetta. Adesso le capitali dell'Ue devono prenderne atto e ricominciare il percorso per costruire una difesa europea, partendo da quelle istituzioni comuni che già esistono. Questa è stata un'occasione persa: se Sarkozy invece di appropriarsi indebitamente della regia delle operazioni avesse concertato con gli alleati europei ci saremmo subito incamminati sulla strada giusta".

Tricarico è durissimo con il presidente francese: vuole restituire la Legion d'onore con cui fu premiato il suo coordinamento dei raid in Kosovo. "Oggi quello spirito di collaborazione non c'è più. E non accetto le risatine sull'Italia né sul presidente del Consiglio che comunque la rappresenta". Ma l'Italia di oggi sembra tagliata fuori dalla decisioni europee. E la gestione franco-britannica degli eventi libici lo ha dimostrato.

"Di sicuro, l'Italia della politica ha perso questa guerra. Noi non abbiamo avuto un ruolo guida. La nostra posizione è stata distinta da mutazioni continue, nei dettagli e nella sostanza. Ricordo di avere letto un'intervista del ministro Frattini nella prima fase del conflitto che, vista la malaparata, ha tentato di mettere insieme una linea nazionale ma è mancata una visione unica persino tra i partiti della maggioranza. Il mondo politico si è spaccato: come possiamo sostenere una nostra iniziativa europea se non abbiamo neanche una coesione interna?".

E i militari - sottolinea - avvertono il peso di questa spaccatura: "Provi a immaginare come si sente un pilota di Tornado che sta decollando per Tripoli, mettendo a rischio la sua vita e quella di altri, quando ascolta il leghista Matteo Salvini che critica l'intervento? Ci vuole tutto il senso del dovere per andare avanti". Ma le fratture nelle maggioranze ci sono sempre state, dal 1999 in poi: "In Kosovo riconosco la capacità di Massimo D'Alema di tenere insieme una maggioranza dove c'erano dissensi. Ricordo le acrobazie anche verbali del governo, come definire "difesa integrata" i raid sulla ex Jugoslavia".

Negli ultimi dodici anni sono state soprattutto le missioni militari a rendere credibile la nostra politica estera: oggi con questa débâcle si chiude un ciclo o quello che è accaduto dipende solo dalla particolarità dei nostri interessi in Libia? "Proprio il legame con Tripoli poteva offrire a Berlusconi l'occasione per imporre la nostra leadership: bastava agire cinicamente e far pesare i nostri aeroporti, invece il governo è stato incapace di usare politicamente lo strumento militare. Sin dall'inizio Palazzo Chigi poteva diventare determinante: era in grado di dire "sediamoci a un tavolo e decidiamo come e cosa fare".

Anche ad agosto, quando Gheddafi ha scritto al premier "amico" invocando la fine dei raid, si poteva ancora riprendere il controllo della situazione. Invece ci siamo accollati costi dieci volte superiori agli altri senza conquistare riconoscimenti politici. Anzi, abbiamo ottenuto l'effetto opposto. Non so quanto l'omissione di Obama sia stato un incidente o una scelta. Ma non credo sia la fine di un ciclo: quando avremo recuperato una coesione interna si potrà riprendere il nostro posto nello scacchiere internazionale".

Il generale preferisce guardare oltre: "Abbiamo perso la guerra, cerchiamo di vincere la pace. Noi possiamo contribuire alla nascita di un Paese moderno e democratico, partendo dalla fiducia che i libici hanno nei nostri confronti. Tanti sgomiteranno per farsi spazio, ma noi siamo in grado di fornire mezzi, personale ed esperienza. Penso alla necessità di ricostruire da zero le forze armate: noi mezzo secolo fa studiavamo in accademia con i loro cadetti. Oggi il governo dovrebbe creare un'iniziativa forte: ci sono tanti imprenditori piccoli e medi che vogliono tornare a Tripoli ma non sanno a chi rivolgersi. Ci vorrebbe una figura con ampi poteri per coordinare e garantire il nostro impegno per la ricostruzione".

Questo conflitto ha mostrato per la prima volta anche il protagonismo di un'azienda italiana, con una sua diplomazia e una sua attività autonoma sul campo: l'Eni, che ha fatto da supplente del governo nelle relazioni con gli insorti. I plenipotenziari italiani sono loro? "È nei fatti. E se guardiamo avanti, non solo l'Eni ma anche Finmeccanica hanno potenzialità enormi nella ricostruzione. Cito un esempio: a Tripoli c'è l'impianto creato da Finmeccanica per la manutenzione e costruzione di elicotteri e aerei. È intatto: basta che le nuove autorità decidano cosa farne. E che l'Italia finalmente cominci ad agire come un sistema Paese".

 

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