LE MANI SULL’EGITTO: FUORI L’ISLAM, KUWAIT, ARABIA SAUDITA ED EMIRATI MANDANO MILIARDI DI DOLLARI AL CAIRO

Alberto Stabile per "la Repubblica"

Il colpo di Stato con cui i generali hanno estromesso il presidente Morsi si sta rivelando, all'apparenza, un ottimo affare per la disastrata economia egiziana. Così sembrerebbe, almeno, a giudicare dalla valanga di finanziamenti, prestiti e aiuti che alcune monarchie del Golfo stanno riversando sui nuovi governanti del Cairo. Soltanto per citare l'ultimo dei benefattori, il Kuwait ha promesso di donare all'Egitto 4 miliardi di dollari, che si aggiungono agli otto miliardi messi insieme da Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

Un'epifania come non s'era mai vista, dietro la quale, però, si celano lotte e manovre per l'egemonia, o per trarre i maggiori benefici dal terremoto politico che da due anni e mezzo scuote il mondo arabo. Con la vittoria elettorale di Morsi e della Fratellanza musulmana, la Primavera egiziana sembrava essersi incanalata verso la realizzazione di quegli obiettivi che i fautori dell'Islam politico avevano proposto come la cura di ogni male ereditato dai vecchi regimi e le condizioni per la rinascita.

A fornire i mezzi per attuare questo progetto erano stati Paesi come il Qatar e la Turchia. Il primo, munito di ricchezze pressoché illimitate e di una politica estera assai spregiudicata, era intervenuto in soccorso di Morsi con un pacchetto da 8 miliardi di dollari.
La seconda, offrendo la più modesta cifra di due miliardi di dollari, ma soprattutto proponendo un modello di sviluppo, quello incarnato dal boom economico turco. Entrambi, Qatar e Turchia, vantano eccellenti rapporti con i Fratelli musulmani.

L'Arabia Saudita e gli emirati satelliti hanno assistito a questo rimescolamento di carte sul teatro egiziano senza, apparentemente, battere ciglio. Ma è nota l'avversione di Riad verso la Fratellanza, che considera una minaccia alla legittimità della monarchia, mentre negli Emirati decine, se non centinaia, di confratelli musulmani sono stati mandati alla sbarra con l'accusa di aver tramato i regimi del Golfo.

Così, quando il generale Abdel Fattah al Sissi ha annunciato che Mohammed Morsi era stato deposto, il re saudita, Abdullah, non ha aspettato neanche che venisse nominato il nuovo presidente ad interim per telefonare al Cairo e congratularsi con il comandante in capo dell'esercito egiziano. Bruciando sul tempo il giovane emiro del Qatar mentre la Turchia s'è scagliata contro i golpisti. Che il Qatar e l'Arabia Saudita sin dall'inizio
della Primavera araba viaggiassero su binari diplomatici paralleli e inconciliabili non è una novità. La crisi egiziana ha sancito questa spaccatura.

Ora, non deve stupire che nel gioire per il golpe, re Abdullah si sia ritrovato accanto ad un imbarazzante e sicuramente non richiesto compagno di viaggio, il rais siriano Bashar al Assad, contro cui (al pari del Qatar, ma con diversi referenti sul terreno) ha dichiarato una guerra senza quartiere.

Entrambi avevano le loro buone, seppure opposte, ragioni per compiacersi del colpo subito dall'Islam politico in Egitto: Assad, nella speranza che i Fratelli musulmani egiziani trascinino nella loro caduta anche i Fratelli musulmani siriani, sempre dominanti nello schieramento delle forze ribelli; re Abdullah, nel tentativo di mantenere al sicuro da elementi eversivi la sua monarchia teocratica. Ma talvolta, come si sa, gli opposti coincidono.

 

 

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