I PEZZI DI MERDOGAN NON MUOIONO MAI - NONOSTANTE SCANDALI E INTERCETTAZIONI COMPROMETTENTI, IL PREMIER TURCO VINCE LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE E PROMETTE VENDETTA: “QUELLI CHE HANNO FATTO QUESTO GOLPE PAGHERANNO”

1 - PLEBISCITO PER ERDOGAN ANCHE ISTANBUL E ANKARA RESTANO FEDELI AL GOVERNO
Monica Ricci Sargentini per il "Corriere della Sera"

Le scatole di scarpe piene di soldi, le intercettazioni compromettenti, le leggi liberticide e la chiusura di Twitter e Youtube non hanno scalfito nemmeno di un millimetro la popolarità del premier turco Recep Tayyip Erdogan, al governo del Paese dal 2003. Se le elezioni amministrative di ieri erano considerate un referendum sulla sua permanenza al potere, la partita è stata vinta a mani basse.

«Chi prende Istanbul vince la Turchia» aveva ripetuto in questi giorni il premier. Ebbene l'Akp, il partito filoislamico al governo, si è confermato primo nella megalopoli sul Bosforo con cifre intorno il 49% dei voti e è riuscito a conquistare anche Ankara, la capitale che molti davano per vinta dall'opposizione. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo sembra aver superato di gran lunga il risultato delle scorse amministrative (2009) quando si era attestato sul 39%, arrivando al 45% dei consensi.

A tarda sera il premier è comparso sul balcone del quartiere generale dell'Akp ad Ankara. Di fianco a lui la moglie Emine, i figli Bilal e Sümeyye, i suoi fedelissimi (ministri e non). «La Turchia è fiera di te» gli ha gridato la folla festante. «Ringrazia Dio e tutto il popolo turco - dice il premier con il suo solito piglio, la voce tonante - Ve l'avevo detto che avremmo vinto noi. Ora quelli che hanno fatto questo golpe pagheranno. Alla politica delle intercettazioni il popolo ha risposto con uno schiaffo ottomano».

La giornata elettorale era iniziata con un qui pro quo sull'ora legale: doveva entrare in vigore alla mezzanotte di sabato ma all'ultimo minuto è stato deciso di rimandare tutto di 24 ore. Il risultato è stato che alcuni elettori, ingannati dagli smartphone, si sono presentati ai seggi con un'ora di anticipo.

Che il vento tirasse in favore dell'Akp e del suo carismatico leader si era già capito parlando con chi si recava ai seggi. «Ma quale scandalo sulla corruzione, è tutta un'invenzione di Gülen!» diceva, guardando la cronista con diffidenza, un signore sulla cinquantina seguito da alcune donne velatissime a Cihangir, quartiere cosmopolita di Istanbul. Dopo di lui una signora bionda con gli occhiali da sole: «Erdogan prenderà più voti delle scorse amministrative, ci scommetto».

C'è grande amarezza tra i ragazzi della società civile che si sono offerti di fare gli scrutatori per vigilare sul voto. Molti di loro erano a Gezi Park e hanno votato, turandosi il naso, per Mustafa Sarigül, il candidato del Chp a Istanbul: «Se vincono queste elezioni siamo finiti - diceva Turkan, una delle pasionarie della protesta - penso che me ne andrò anche se amo questo Paese. La base dell'Akp non sa cosa fare con la libertà, loro credono alle teorie del complotto perché sono come le mogli tradite che non vogliono vedere».

In disaccordo l'ambientalista Mustafa Nogay: «Sapevamo che Erdogan non si sarebbe arreso - spiega - è un processo lungo. Non si può vivere in un Paese in cui i ladri sono protetti». Silenzio dalla sede del Chp. Il partito socialdemocratico di Kemal Kiliçdaroglu è rimasto al 28%, un risultato largamente al di sotto delle aspettative. Oggi la cartina della Turchia è un'enorme distesa gialla. Il colore dell'Akp.

2 - LE INCOGNITE DI UN PAESE RIMASTO AL BUIO
Antonio Ferrari per il "Corriere della Sera"

Il verdetto del popolo turco è abbastanza chiaro, nonostante il caos, le manipolazioni e lo strano blackout elettrico, a macchia di leopardo, che ha costretto molti scrutatori a un romantico lavoro al lume di candela. Il premier Erdogan, pur ferito e screditato, si salva dal naufragio. Numericamente il leader tiene bene, politicamente si indebolisce per aver trasformato il voto amministrativo in un referendum su se stesso.

Il suo futuro, infatti, è in declino e la presidenza della Repubblica è sempre più lontana. Un sogno di gloria e di presunzione che pare arenato nel deserto dell'arroganza. L'immagine che affiora dalle urne, con i seggi assediati da un'affluenza record che rivela l'estrema politicizzazione (e polarizzazione) della volontà popolare, è quella di una sentenza senza veri vincitori e vinti.

Erdogan, pur travolto dagli scandali, non è stato severamente punito. Però ha corso il rischio di perdere il controllo di Istanbul, la città più importante del Paese con i suoi 15 milioni di abitanti: polo miliardario di appalti dorati. I fedelissimi sostenitori dell'Akp, il partito islamico di cui il premier è l'anima, hanno infatti deciso di restare dalla sua parte, tacitando le correnti di dissenso interne al partito.

Se valesse una metafora sportiva, si potrebbe dire che il voto turco ha espresso un virtuale pareggio: non tra il governo e l'opposizione laica, ma tra chi è sempre con Erdogan, costi quel che costi, e chi invece è contrario al capo del governo ed è pronto ad allearsi col diavolo pur di abbatterlo politicamente.

A conti fatti, il discusso leader resta in sella, anche se i più attenti analisti turchi sostengono, già adesso, che sarà assai improbabile, fra pochi mesi, alle elezioni presidenziali, vedere Erdogan come candidato vincente. Il capo dello Stato, pur indicato dal partito di appartenenza, deve essere espressione della conciliazione nazionale: in sostanza non può essere totalmente sgradito agli avversari, come è accaduto per Ozal, per Demirel, per Sezer, e per lo stesso Gül, che con l'attuale premier è fra i fondatori dell'Akp. È proprio la divisione in due blocchi dell'elettorato turco, avvenuta ieri, a suggerire le interpretazioni del voto più aderenti alla realtà.

Nel fronte islamico moderato ha prevalso la conservazione: più che gli scandali ha pesato sul voto il rischio che la rovinosa caduta di Erdogan riporti il Paese al rigore laicista del passato. La macchina del consenso è stata quindi tradizionale: controllo della stampa, delle televisioni, comizi con folle oceaniche, capillare propaganda porta a porta. Quella del fronte opposto si è scatenata sui social network, i veicoli della comunicazione più sgraditi al premier.

La chiusura coatta di Twitter e YouTube ne ha rivelato, per contro, la forza inarrestabile. Sul web, il giorno delle elezioni, sono stati invitati tutti i sostenitori del «no» ad andare a votare indossando le maglie di tutti i club più famosi, compresi quelli che il premier riteneva dalla sua parte. In sostanza, per ora, cambierà poco o nulla in Turchia. La guerra tutta islamica fra Erdogan e il predicatore Fetullah Gülen, che vive negli Usa, si è combattuta anche ieri. L'agenzia di Stato e quella di Gülen si sono scontrate velenosamente sui risultati e sui loro interessati (seppur illegali) exit poll. Chi sperava da questo voto un raggio di luce è sempre al buio. E senza candele. Le incognite, invece di risolversi, si sono moltiplicate.

 

 

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