1- FERMI TUTTI! IN UN’INTERVISTA A ‘LA STAMPA’ RILASCIATA IL MESE SCORSO L’EX AMBASCIATORE USA IN ITALIA, REGINALD BARTHOLOMEW (MORTO DOMENICA A 76 ANNI) RICOSTRUISCE I RAPPORTI TRA ROMA E WASHINGTON AI TEMPI DELL’INCHIESTA MANI PULITE 2- UNA BOMBA DOPO L’ALTRA SU MANI PULITE! “QUALCOSA NON QUADRAVA NEL RAPPORTO TRA IL CONSOLATO USA DI MILANO E IL POOL MANI PULITE. CON ME TUTTO QUESTO CESSÒ. NELL’INTENTO DI COMBATTERE LA CORRUZIONE I MAGISTRATI DI MILANO VIOLAVANO SISTEMATICAMENTE I DIRITTI DI DIFESA DEGLI IMPUTATI IN MODO INACCETTABILE PER UNA DEMOCRAZIA. LA CLASSE POLITICA SI STAVA SGRETOLANDO PONENDO RISCHI PER LA STABILITÀ DI UN NOSTRO ALLEATO STRATEGICO NEL BEL MEZZO DEL MEDITERRANEO” 3- “L’AVVISO DI GARANZIA A BERLUSCONI? SI TRATTÒ DI UN’OFFESA AL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI CLINTON, PERCHÉ ERA AL VERTICE E IL POOL DI MANI PULITE AVEVA DECISO DI SFRUTTARLO PER AUMENTARE L’IMPATTO DELLA SUA INIZIATIVA GIUDIZIARIA CONTRO BERLUSCONI” 4- SETTE IMPORTANTI MAGISTRATI ITALIANI INCONTRARONO IL GIUDICE DELLA CORTE SUPREMA

1- SCAMPÃ’ AD UN ATTENTATO. AVEVA 76 ANNI ADDIO AL DIPLOMATICO REGINALD BARTHOLOMEW

L'ex ambasciatore statunitense a Roma Reginald Bartholomew è morto domenica scorsa in un ospedale di New York. Aveva 76 anni ed era malato di tumore. Ne ha dato notizia, stando a quanto riferisce il Washington Post che pubblica un necrologio in ricordo del diplomatico, la moglie Rose-Anne. Nato nel 1936 a Portland, nel Maine, nella sua lunga carriera Bartholomew è stato tra l'altro ambasciatore in Italia dal 1993 al 1997 durante la presidenza a stelle e strisce di Bill Clinton.

È rimasto poi a lungo nel nostro Paese come dirigente della banca d'investimento americana Merrill Lynch. Prima di arrivare nel nostro Paese, è stato anche ambasciatore in Libano, tra il 1983 e il 1986. Un gran lavoro nella nazione mediorientale. Il 23 ottobre del 1983, il giorno prima dell'arrivo di Bartholomew nella sede diplomatica di Beirut, un attentato dinamitardo di estremisti sciiti aveva fatto saltare le installazioni militari Usa e francesi a Beirut. Morirono 241 marines e 58 parà francesi. Ma l'ex ambasciatore americano in Italia sopravvisse lui stesso ad un attentato durante gli anni della guerra civile. Dopodiché fu trasferito in Spagna. A Madrid è rimasto dal 1986 al 1989. Oltre alla moglie, Bartholomew lascia quattro figli.

Maurizio Molinari per "La Stampa"

Il mese scorso ho incontrato a New York l'ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull'Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell'ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza. Raccolsi il suo racconto che lui ha avuto modo di rivedere trascritto con l'intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull'approccio americano al team «Mani Pulite».

Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell'epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l'ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell'iniziale sostegno americano all'inchiesta di Antonio Di Pietro. Quando ho saputo dell'improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all'ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica a cui aprì le porte dell'Ambasciata e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto.


Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all'appuntamento nell'Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l'ambasciata americana a Roma. «L'Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l'anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce. In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato.

«Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l'Italia spunta nell'agenda.

Siamo all'inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l'Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell'Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo.

«Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell'intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l'Italia, a cui ogni americano si sente legato». Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava».

Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d'ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto.

Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite». Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell'incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone».

Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un'offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l'impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l'ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite».

Nulla da sorprendersi se in tale clima l'ambasciatore Usa all'epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D'Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D'Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo
una certa sorpresa, accettò rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell'Italia».

Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo».

L'apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l'Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l'approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D'Alema». L'altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all'ambasciata da solo, mi presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere "King" o "Kingmaker"», ma l'osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l'impressione di non sapere cosa significasse "Kingmaker" e dopo essersi consultato con Letta mi rispose "Kingmaker? Noooo"».

Dall'incontro, avvenuto poco prima dell'entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l'impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l'Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi».

A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l'Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D'Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.

DA MARIO CHIESA AI SUICIDI CLAMOROSI
Febbraio '92 L'arresto di Chiesa

Mario Chiesa, 47 anni, ingegnere socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato a Milano. È il 17 febbraio 1992. I carabinieri lo sorprendono alle 17.30 nel suo ufficio subito dopo aver intascato una mazzetta di sette milioni di lire da Luca Magni, proprietario di una piccola azienda di pulizie. Inizia così Tangentopoli, la maxi inchiesta che segna lo spartiacque tra la Prima e la Seconda repubblica.

Dicembre '92 Craxi, avviso di garanzia

Il 15 dicembre 1992 arriva il primo avviso di garanzia al segretario del Psi Bettino Craxi per corruzione, ricettazione e violazione del finanziamento pubblico ai partiti. Due giorni dopo parla di «aggressione personale» e resta alla guida del partito socialista. Ad agosto, Craxi attaccò Di Pietro sull'Avanti!, organo del suo partito: «Non è tutto oro quello che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite. Mentre, dopo l'arresto di Chiesa, Craxi parlò di un «mariuolo isolato».

Dicembre '92 Il discorso di Scalfaro

Nel suo primo messaggio di Capodanno, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro invita i giudici del pool milanese di «Mani pulite» a continuare nelle indagini contro lo scandalo della politica, i partiti a rinnovarsi, il Parlamento a fare le riforme e auspica «un nuovo Risorgimento».

Luglio '93 Il suicidio di Cagliari

Milano, 20 luglio 1993. Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, si toglie la vita a 67 anni nel carcere di San Vittore con un sacchetto di plastica. In cella dal 9 marzo per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. L'inchiesta sui fondi neri Eni.

Luglio '93 Gardini si toglie la vita

Un colpo di pistola in testa. L'imprenditore Raul Gardini, 60 anni, si suicida a Milano il 23 luglio 1993. Dopo le confessioni del manager Giuseppe Garofano, nel mirino dei giudici: rischiava un ordine di cattura per i buchi neri Montedison.

 

 

 

 

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