A PALERMO LA PRIMA REPUBBLICA ALLA SBARRA

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"

Dagli scranni della Corte d'assise lo Stato guarda se stesso, come se chi è chiamato a giudicare si specchiasse in chi ha chiesto il giudizio e chi dev'essere giudicato. Di fronte alla corte la pubblica accusa è schierata al gran completo: il procuratore Messineo, l'aggiunto Teresi e i sostituti Di Matteo, Del Bene e Tartaglia. Sulla stessa fila gli avvocati dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, assente.

Subito dietro ecco l'imputato Nicola Mancino, già presidente del Senato e numero due del Consiglio superiore della magistratura; lui, ministro dell'Interno al tempo della presunta trattativa con la mafia, accusato «solo» di falsa testimonianza, non nasconde l'irritazione per trovarsi alla sbarra insieme a mafiosi del calibro di Riina, Bagarella, Brusca e Cinà. Che assistono all'udienza dalle rispettive prigioni sparse per l'Italia, in video-conferenza.

Alle spalle di Mancino siede l'ex comandante del Ros dei carabinieri, generale Antonio Subranni, imputato insieme ai colleghi Mori e De Donno (assenti) di aver contatto Vito Ciancimino per «agevolare un canale di comunicazione» con Cosa nostra, «favorire lo sviluppo di una trattativa» e agevolando la latitanza di Provenzano, «principale referente mafioso della trattativa» e stralciato per motivi di salute. Come l'ex ministro Mannino che ha chiesto il giudizio abbreviato.

Al generale coimputato Mancino stringe la mano, dopo aver salutato alla stessa maniera il procuratore Messineo. Nessun contatto, invece, con Massimo Ciancimino, il figlio di «don Vito» a sua volta accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia De Gennaro.

Nelle sue fluviali e controverse deposizioni, Ciancimino jr (misterioso ispiratore di questo processo, che da un lato ha fatto riaprire il capitolo della trattativa e dall'altro ha imbrogliato platealmente le carte) ha tirato in ballo pure Mancino, e l'ex ministro l'ha denunciato per calunnia. Ora sono tutti e due a giudizio, per reati diversi ma ugualmente connessi - secondo l'accusa - al «patto indicibile» fra le istituzioni e Cosa nostra.

Terminato l'appello degli imputati, tocca alle parti civili. C'è la presidenza del Consiglio, ci sono il Comune di Palermo e la Regione Sicilia, c'è il movimento delle «agende rosse» di Salvatore Borsellino; c'è Rifondazione comunista, unico partito sopravvissuto dal 1992 a oggi, dopo vent'anni di terremoti politici; ci sono vari movimenti antimafia e un sindacato autonomo di polizia.

Ma altrettanti gruppi, enti locali e singoli cittadini chiedono di potersi costituire contro gli imputati, dal Comune di Firenze «nella persona del sindaco Matteo Renzi» a Libera di don Ciotti, dal comitato Addiopizzo all'Associazione giuristi democratici. Sull'ammissibilità la corte deciderà alla prossima udienza.

Nell'aula stracolma di avvocati, giornalisti, telecamere e pubblico si respira aria da processo storico; quasi una replica di quello a Giulio Andreotti che cominciò nel 1995. E per certi versi questo dibattimento ne è la prosecuzione ideale.

Anche Andreotti fu giudicato per essere sceso a patti con la mafia, e la corte d'appello stabilì che effettivamente nel 1980 aveva trattato con i boss, per poi cambiare linea e diventare un artefice del contrasto a Cosa nostra. Oggi altri imputati devono rispondere degli avvenimenti seguiti a quella stagione, quando fra il '92 e il '94 si cercò di fermare le stragi mafiose in cambio di qualche garanzia, alla ricerca di nuovi equilibri nei rapporti tra mafia e politica.

«La mafia non può esistere senza il rapporto con la politica», spiega il procuratore aggiunto Teresi, che cerca di ridimensionare le aspettative e forse le polemiche, sempre in agguato in un processo dove l'accusa vuole far testimoniare i più alti rappresentanti delle istituzioni di ieri e di oggi:

«Questo non è il processo allo Stato o a una classe dirigente, ma un giudizio su singoli reati ed episodi. È vero che ci sono imputati e imputazioni particolari, ma proprio per questo dobbiamo mantenere il giudizio nell'alveo dei fatti, e non di astratte ricostruzione estranee al processo. Ci aspettiamo un clima sereno nel giudizio della corte, ma vorrei che anche dall'esterno questo dibattimento non venga caricato di significati impropri, né da un lato né dall'altro».

Un altro pm, Di Matteo, aggiunge: «Se si dovessero accertare elementi di colpevolezza dello Stato, lo Stato non potrebbe nascondere eventuali responsabilità sotto al tappeto». Fuori dall'aula, un gruppetto di manifestanti mostra di avere già emesso il verdetto. Indossano magliette con i volti dei pm, sventolano simil-agende rosse e gridano contro Mancino che se ne va su un'auto scortata, scuro in volto: «Vergognati! Fuori la mafia dallo Stato, Fuori lo Stato dalla mafia!».

 

 

Nicola Mancino Nino Di MatteoMASSIMO CIANCIMINOAntonio Ingroia MARIO MORI

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