LA GRANDE BELLEZZA O LA VERA BRUTTEZZA? UNA ROMA SENZA POLITICI, RAI, GAY (E UN PO’ DI CINICO DISINCANTO)

Filippo Facci per "Libero"

Ho conosciuto Paolo Sorrentino in una dimensione che ha contribuito all'equivoco: una serata a casa di Roberto D'Agostino e della moglie Anna Federici, ovviamente a Roma, sulla loro terrazza che si affaccia sulle anse del Tevere e si offre pienamente alla Grande Bellezza. Parlammo dei suoi film e di cose varie. Sorrentino era lì dichiaratamente per cercare e studiare atmosfere che potessero essere utili al suo film, e che, come ora è evidente, non trovò o forse non volle utilizzare.

Era nel posto migliore per coglierle, per carpirne dialoghi e spirito: ma non lo fece. L'unica spiegazione del resto è questa: che Paolo Sorrentino non abbia minimamente tentato di fare il film che tutti pensano abbia tentato di fare, o pensano che volesse fare. Niente Dolce vita in versione aggiornata, per capirci.

Ci sarebbe il solito colossale equivoco, insomma: perché il suo non è un film prettamente su Roma e cioè sull'eterna Roma da basso impero che molti aspettavano, la stessa che in qualche modo imparentava al Cafonal carnevalesco che Umberto Pizzi e Roberto D'Agostino fotografano da 13 anni, la stessa che altri cronisti di passaggio - i soliti Fellini e Arbasino tra questi - hanno affrescato in epoche diverse e al tempo stesso identiche.

Quella del film non è Roma, o non particolarmente: non lo è e basta, neppure in caricatura, quei chirurghi plastici non esistono, quelle feste discotecare non esistono o sono più milanesi che romane, così come inesistenti o meneghine sono le caricature delle performance d'arte moderna alla Marina Abramovic, vacuamente ridicolizzate in uno dei tanti e rinunciabili coiptus interruptus di cui è disseminato il film.

Non esiste un settimanale come quello diretto dalla direttrice nana, non esiste quell'ufficio col peluche gigante e il minestrone riscaldato, non esiste uno scrittore-grande-firma stile Jep Gambardella che oltretutto non è chiaro neppure come potrebbe campare, oggi: soprattutto in una casa con terrazza sul Colosseo che, tanto per cambiare, credo non esista. Così come non esistono i nobili in affitto (cioè: esistono, ma sono nobilastri, e non sono affatto tristi) e non esistono certe altre caricature bozzettistiche che imbottiscono il film come certi panini di MacDonald, che non sai da che parte morderli.

Esistono, quelle sì, le personalissime proiezioni di Paolo Sorrentino della grande bruttezza: il dominio della coca, le stronze, i parassiti, le attricette, gli scrittorucoli, «le ricche», gli industrialotti, i cardinali da talk show, il perverso paese dei balocchi coi suoi maghi e le giraffe e i lanciatori di coltelli; ma sono visioni personali, appunto, e forse basterebbe ripeterlo.

Del resto non è neppure chiaro perché dovessimo aspettarci qualcosa di diverso: di verista, nei film di Sorrentino, non c'è mai stato nulla. Non esiste il mondo del calcio e della canzone descritti ne L'uomo in più, non esiste la Svizzera de Le conseguenze dell'amore, non esiste la Sabaudia de L'amico di famiglia (il suo film più bello, ritenuto il più brutto) e tantomeno sono esistiti il Paese e la Roma politica descritti ne Il divo, il film che grazie alle surreali e suggestive descrizioni di alcune stanze del potere, forse, ha contribuito a qualche aspettativa di troppo.

Insomma i film sono plagio più fantasia, e grazie tante, lo sapevamo, infatti il problema pare un altro: capire perché Sorrentino abbia voluto ricorrere alla fantasia quando la realtà - se avesse voluto coglierla - la supera di gran lunga. Le critiche più feroci al film, stringi stringi, sono tutte qui: non perché un regista non abbia diritto alle sue visioni, ma perché le sue visioni questa volta non sono parse gran cosa proprio in termini di scrittura e sceneggiatura. Ora, di rito, andrebbe fatta la contabilità delle cose che mancavano nel film.

Mancava la contaminazione politico-editoriale- letteraria classica romana, impastata di cinismo millenario e imbucata da personaggi spesso impagabili. C'erano i nani, c'erano le ballerine, ma neppure un acrobata, un domatore da circo, solo Jep Gambardella che poi alla fine non era Gambardella, era Servillo come al solito. Era più squallida che grande, la bruttezza: impersonale, da esportazione, senza la grandiosità dei veri mostri che avviluppano la Capitale e che forse erano più presenti in quella serata a casa di Roberto D'Agostino che in tutti i dialoghi da terrazza del film.

Forse mancava semplicemente la Rai. La macchietta della miliardaria comunista cornuta e con piscina, coi suoi cliché, non l'avremmo scritta così neppure dalle parti di Libero o del Giornale: se il senso era rendere il sinistrismo in cachemire, allora, tanto valeva piazzarci Concita De Gregorio nella terrazza mediatica di Ballarò. Jep Gambardella, come molti di noi, e come Sorrentino, «non può più perdere tempo a fare cose che non ha voglia di fare»: ma Roma ridonda di gente che ha tutto il tempo per fare tutto, e però non sa neppure che cosa abbia voglia di fare, non l'ha mai saputo.

La vacuità di Isabella Ferrari in tal senso era perfetta, del resto è la sua parte da tutta la vita. Lo era anche Serena Grandi deformata e cocainomane. E anche Sabrina Ferilli: perché non recitava. Mancava però sua maestà l'indifferenza, il forzato disincanto dei romani anche di fronte ai pochi incanti che restano e che non sanno riconoscere, mancava l'ipocrisia esibita, la grande commedia della piaggeria. E poi, lentamente, scivoliamo verso la Grande Bellezza, quella che la critica ha snobbato - proprio perché non la merita, non la riconosce - e che però io giudico la parte più riuscita del film.

È vero che c'era il trucco: la musica. Del mio breve scambio con Sorrentino ricordo che scherzammo e che definimmo i film come una scusa per piazzarci musica a piacimento: gli avevo detto che avrei salvato Il Divo anche soltanto per la scena della passeggiata notturna di Andreotti con la Pavane di Fauré. Ma ora si fa più complicata. Sorrentino ha ripescato il terzo movimento della Terza di Gorecki (che fa molto sinistra cachemire, e che io, giuro, stavo ascoltando due ore prima di vedere il film) più una serie di delizie sceltissime e validi interludi di Lele Marchitelli.

Con certi sottofondi (soprafondi, dovrebbero chiamarli) personalmente troverei la Grande Bellezza anche di fronte a immagini di Bombolo e Tomas Milian, ma io non faccio testo, io non sono un critico istituzionale, non sono un romano brutto di quelli che la musica è musica, vabbeh, e il film, vabbeh, forse era un po' lungo.

La Grande Bellezza, nel film, c'era perlomeno per chi era interessato a coglierla: ai più, invece, è parso interessare solo il tasso di riconoscibilità della bruttezza, come se relegassero a scontato fondale - e siamo al problema - le silenziose albe romane con la loro luce radente e fotografica, i dipinti e le statue della Roma segreta, gli scorci mozzafiato, i giardini degli aranci, il banalissimo contrasto - nessun timore ad ammetterlo - tra la grande bellezza dell'arte classica e l'apatia dei romani che non conoscono Roma ma s'accalcano dietro a ogni manzoniana merda d'artista.

A Roma non c'è da accumulare modernità in case labirintiche: c'è da aprire bene le finestre. In sintesi la Grande Bellezza c'era, e il titolo del film dopotutto era questo: mancava la vera bruttezza, ma è meglio del contrario. Poi sì, lungo la pellicola corre parallela anche la bellezza dell'inespresso, dell'ambizione non realizzata da Jep Gambardella e da intere generazioni. Anche qui niente di nuovo: ma perché, dovrebbe esserci?

Quel flusso audiovisivo forse non abbisognava neppure di frasi sospese e analgesiche in stile Terrence Malick: la frase «la povertà non si racconta, si vive» a quanto pare è piaciuta, «mangio le radici perché le radici sono importanti» è parsa una stronzata. Il duplice riferimento al Flaubert che voleva scrivere un romanzo sul niente (in realtà «su niente», che è diverso) non tiene conto di una ricchezza che Flaubert non aveva: il cinema.

Forse ci avrebbe provato, come ci ha provato Sorrentino col suo niente «incompleto» per definizione. Che poi capita spesso, di dire che un film è incompleto, che è un'occasione mancata, che mancava questo e quello: ma è perché in realtà ci è piaciuto, e vorremmo che proseguisse.

 

Filippo Facci SORRENTINOsorrentino sul set di La grande bellezza la grande bellezza sorrentino TONI SERVILLO NEL FILM DI SORRENTINO "LA GRANDE BELLEZZA" FOTO GIANNI FIORITO sabrina ferilli sul set di La grande bellezza la grande bellezza sulla croisette - servillo-ferilli-sorrentino-verdoneverdone coi baffi nel film di sorrentino PAOLO SORRENTINO

Ultimi Dagoreport

troisi papa leone carocci monda

CIAK! LA MESSA È FINITA: ANDATE IN PACE AL CINEMA "TROISI", COSÌ FATE FELICI IL SUO DOMINUS VALERIO CAROCCI E QUEL DISOCCUPATO A CACCIA DELLA BIENNALE VENEZIANA, ANTONIO MONDA - MENTRE LA SETTIMA ARTE IN ITALIA, SOTTO IL DOMINIO DELL’ARMATA BRANCA-MELONI, STA VIVENDO UNA DELLE SUE FASI PIÙ COMATOSE, TRA SALE VUOTE E “SINISTRI” TAGLI AL TAX-CREDIT DEL MINISTRO GIULI-VO, PAPA LEONE XIV RUGGISCE IN FAVORE DELLE SALE CINEMATOGRAFICHE (MA DA QUANDO IN QUA IL PONTEFICE SI OCCUPA DI RIEMPIRE LE SALE, ANZICHÉ PREOCCUPARSI DI RIEMPIRE LE CHIESE?) - L'UNICO CINEMA CHE BENEFICIA DELLA GLORIA DI PREVOST È IL "TROISI", GESTITO DA CAROCCI CHE, IN DUPLEX CON ANTONIO MONDA, HA CONVINTO IL CARDINALE JOSE' TOLENTINO DE MENDONÇA NELLA DIVINA MISSIONE DI ORGANIZZARE AL CINEMA "TROISI" NOVE INCONTRI CON REGISTI E ATTORI INTERNAZIONALI, SOTTO IL PATROCINIO DEL SANTA SEDE - GRATIS? MANCO PER NIENTE. PER ACCEDERE ALLA SALA BISOGNERÀ SBORSARE 8 EURO. E COSÌ SIA - CAROCCI E LA NOTA STAMPA DEL "PICCOLO AMERICA" CHE RILANCIA LE PAROLE DEL PAPA...

pier silvio marina berlusconi marta fascina arcore

FLASH! - COL PRETESTO DI DARE UNA RIVERNICIATINA A VILLA SAN MARTINO (CHE HA SPESE DI MANUTENZIONE E SERVITU’ DI 220 MILA EURO ALL’ANNO), MARINA & PIER SILVIO SONO FINALMENTE RIUSCITI A FAR SLOGGIARE MARTA FASCINA E IL SUO PAPA’ ORAZIO, CHE NON L’ABBANDONA MAI, DALLA REGGIA DI ARCORE - ORA LA VEDOVA MORGANATICA E’ CONFINATA IN UNA DÉPENDANCE DEL VILLONE DI 130 METRI QUADRATI, DOVE PROBABILMENTE ALLA FINE RESTERÀ IMPEGNATISSIMA A CONTARE I 100 MILIONI DI EREDITA’ OTTENUTI DALLA BUONANIMA DI PAPI SILVIO…

ignazio la russa sergio mattarella

FLASH! – PER SOSTENERE I FRATELLINI D’ITALIA CIRIELLI E SANGIULIANO ALLE REGIONALI CAMPANE, SI È SCOMODATO PERSINO IL PRESIDENTE DEL SENATO, IGNAZIO LA RUSSA – CHE LA SECONDA CARICA DELLO STATO FACCIA CAMPAGNA ELETTORALE, FOTTENDOSENE DEL SUO RUOLO ISTITUZIONALE,  NON AVRÀ FATTO PIACERE PER NULLA A SERGIO MATTARELLA – D’ALTRONDE, IL PRESIDENTE LEGHISTA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, LORENZO FONTANA, NON CI PENSA ASSOLUTAMENTE DI SCAPICOLLARSI IN VENETO A SUPPORTO DEL CANDIDATO DEL CARROCCIO, ALBERTO STEFANI…

emanuele filberto di savoia - consulta dei senatori del regno

MONARCHIA UNICA VIA! – SABATO PROSSIMO A PALAZZO BORGHESE DI FIRENZE SI RIUNISCE QUEL CHE RESTA DEI MONARCHICI DE’ NOANTRI, PER LA SERATA DI GALA DELL’ORGANIZZAZIONE “CONSULTA DEI SENATORI DEL REGNO”. OSPITE D’ONORE “SUA ALTEZZA REALE” EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA – NELL’INVITO SONO BEN EVIDENZIALE LE “NOTE DI ETICHETTA”: “È CONSUETUDINE FARE L'INCHINO (C.D. CURTSY) AD UN'ALTEZZA REALE, DINANZI ALLA SUA PERSONA”, “NON È CONSUETUDINE (POICHÉ NON ELEGANTE) UTILIZZARE COSTANTEMENTE I TELEFONI CELLULARI” – AGLI UOMINI È “RICHIESTO IL COSIDDETTO ‘WHITE TIE-CRAVATTA BIANCA’ VALE A DIRE IL ‘FRAC’”. E PER LE DONNE? "È D’UOPO L’ABITO LUNGO. NON SONO AMMESSI..."