QUANDO IL “SI’” DIVENTA “NO” TRA LE LENZUOLA – LA CASSAZIONE HA CONFERMATO LA PENA A 12 ANNI DI CARCERE PER UN UOMO DI BUSTO ARSIZIO CHE NON SI ERA FERMATO DURANTE UN RAPPORTO SESSUALE, DOPO IL “NO” DELLA MOGLIE, INIZIALMENTE CONSENZIENTE – SECONDO I GIUDICI, “IL CONSENSO AGLI ATTI SESSUALI DEVE PERDURARE NEL CORSO DELL'INTERO RAPPORTO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ”. ALTRIMENTI SI TRATTA DI VIOLENZA SESSUALE

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Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “il Messaggero”

 

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Il consenso può venire meno anche all'improvviso, persino durante un rapporto sessuale, e allora si profila il reato di violenza. Mentre le molestie (anche se soltanto verbali) possono portare al licenziamento legittimo di un dipendente.

 

La stretta della Corte di Cassazione in materia di reati contro la persona arriva con due diverse sentenze: la prima che conferma la condanna a dodici anni per un uomo di Busto Arsizio, accusato di violenza sessuale e maltrattamenti, la seconda che legittima il licenziamento del dipendente di una società, denunciato da una neoassunta, con contratto a tempo determinato, per i continui apprezzamenti a sfondo sessuale.

 

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Per i giudici della Suprema Corte, poco importa cosa sia accaduto prima di un rapporto sessuale tra maggiorenni. La Cassazione stringe ancora di più il campo in materia di stupri e consenso da parte di una donna.

 

Si legge nella sentenza: «Si rammenta che, in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza - precisano gli ermellini - che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga in itinere una manifestazione di dissenso». E i giudici sottolineano che tale manifestazione può «anche non essere esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà».

 

la corte di cassazione la corte di cassazione

[…] Era stata una sofferta testimonianza in aula della vittima a rivelare i dettagli dei rapporti sessuali con il marito: la donna aveva riferito di essere stata costretta a proseguire nonostante l'espressa richiesta di smettere.

 

Riguarda invece le molestie sul luogo di lavoro, la seconda sentenza della Corte. I giudici chiariscono che non occorre che ci sia un approccio fisico per integrare il reato di molestie, che può portare al licenziamento di un dipendente.

 

La Cassazione ha confermato così la decisione della Corte di appello di Firenze che aveva già respinto il reclamo di un dipendente autore di molestie verbali nei confronti di una giovane collega neoassunta, con contratto a termine, e assegnata a mansioni di addetta al banco del bar. La lavoratrice aveva denunciato per due volte i comportamenti dell'uomo alla direzione aziendale: allusioni a sfondo sessuale, non gradite, che per la Corte erano idonee violare la dignità della donna.

 

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Tanto da legittimare il licenziamento dell'uomo, che invano si era giustificato sostenendo che non vi fosse alcuna volontà offensiva e che tra i colleghi il clima era sempre stato goliardico.

 

Nel giudizio la procura generale aveva sollecitato la conferma del licenziamento per giusta causa, considerando molestie «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

 

 

Per la Cassazione la discriminante è il «carattere indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale». […]

 

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