GAVINO LEDDA: “L’ACQUA NON UCCIDE, È L’UOMO CHE NON DIFENDE LA TERRA. LA TRAGEDIA IN SARDEGNA COLPA DI POLITICI E IMPRENDITORI (CHE PENSANO SOLO AD ARRICCHIRSI)”

“Il cielo non ha colpe, la natura ha tutto il diritto di sfogarsi, siamo noi che invece di proteggerla continuiamo a forzarla” – “Per quale ragione non ne teniamo conto quando si fanno opere per l’agricoltura, per l’architettura, per le urbanizzazioni? Come si fa a vivere in cantine e poi pensare che non si allagheranno?...

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Gavino Ledda per "La Repubblica" (testo raccolto da Pier Giorgio Pinna)

Non è l'acqua che uccide, ma l'uomo che non difende la terra. Da quando ho scritto "Padre padrone", negli anni Settanta, come pastore ho cantato la letizia della terra, sia pure con una lingua come quella italiana che non era del tutto in grado di esprimere questa gioia, tant'è vero che adesso sto rielaborando quel poema con uno spirito e un linguaggio diversi, più liberi.

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Ecco: con un'impostazione analoga si dovrebbero muovere politici, ingegneri, geologi, architetti. Invece oggi, così come troppo spesso è avvenuto nel recente passato in Sardegna e in altri luoghi, quel canto si è trasformato in pianto di morte. E la stessa questione si ripropone ogni volta che il cielo si deve sfogare: perché il cielo naturalmente ha tutto il diritto di sfogarsi.

L'uomo invece non si decide mai a prendere le misure giuste per salvaguardare la propria terra, l'ambiente naturale. Spesso costruisce le case lungo i fiumi o, come a Olbia, sotto il livello del mare. Non è la prima volta che accade. Cinque anni fa c'è stata la tragedia di Capoterra, vicino a Cagliari, con quattro morti. Ancora prima, nel 2004, c'è stato il disastro di Villagrande Strisaili, in Ogliastra.

Ma non è solo l'isola a soffrire. Ovunque, con preoccupante ciclicità, si ripetono sciagure: dalla Liguria al Piemonte e alla Toscana. Bisogna essere meno egoisti. Tutto questo equivale a una forma di mancato rispetto nei riguardi della terra, una madre vivente che deve poter cantare senza costrizioni.

In passato, anche nel mio passato, quando sino a 20 anni stavo nell'ovile, per fortuna non ho assistito alla cementificazione selvaggia. Parlo del periodo tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta. E per capirlo basta pensare che in quell'epoca la strada tra la zona dove portavo le pecore al pascolo, Baddhevrùstana, e il mio paese, Siligo, non era neppure asfaltata.

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Sì, ho visto bonifiche ben fatte: interventi dell'uomo per aiutare la terra, canalizzazioni e opere di drenaggio che la rispettavano. E allora i boschi erano salvaguardati, protetti. Oggi invece gli alberi non fanno più da freno, non consentono più di evitare gli smottamenti, non contribuiscono alla salvaguardia dei suoli. E tutto questo perché non si comprende quanto continuiamo a forzare la natura.

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Come si fa a pensare che l'acqua debba risalire la montagna e non andare a valle sino al mare? Per quale ragione non si tiene conto dell'esigenza di assecondare la natura quando si fanno opere per l'agricoltura, per l'architettura, per le urbanizzazioni? Perché la gente deve fare come le scimmie e arrampicarsi sugli alberi per salvarsi dall'acqua? Come si fa a vivere in cantine e poi ritenere che non si allagheranno?

Io resto convinto che l'uomo debba dormire nella propria casa, non nel letto dei fiumi o in luoghi soggetti alle forze del mare. E se oggi faccio questi discorsi è solo per evitare che tragedie del genere si ripetano, che si ritorni al solito punto: perché, non mi stanco di riaffermarlo, il cielo non ha colpe. Le responsabilità di queste tragedie che abbiamo sotto gli occhi e che si ripresentano in maniera così ricorrente sono degli uomini. E più precisamente dei politici, che non adottano giusti provvedimenti assecondando la natura, e degli imprenditori, che non si preoccupano del canto della terra perché pensano soltanto a facili arricchimenti. Ma così alla fine tutti noi siamo costretti al lutto, al dolore, al pianto.

 

 

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