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TOP OF THE “POZ” – "IO COCAINOMANE? MI SONO GODUTO LA VITA MA NON MI SONO MAI DROGATO" – POZZECCO SI RACCONTA IN UN LIBRO – I FLIRT CON CACCIATORI E DE GRENET, LE SBRONZE OMERICHE (“MA SEI GIORNI SU SETTE ERO IN PALESTRA A FARMI IL CULO”), LE 22 VITTORIE CONSECUTIVE SULLA PANCHINA DI SASSARI (“HO AVUTO CULO”) E QUELLA VOLTA CHE CON LA CACCIATORI TIRARONO NOCCIOLINE AD ALBERTO SORDI – “SONO STATO UN CRETINO? IO SONO ANCHE IL CRETINO CHE ERO. NON E’ CHE SEI SEMPRE LO STESSO…” – VIDEO

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MARCO IMARISIO per il Corriere della Sera

 

«Se giochi con i Lego a cinque anni, va bene. Se lo fai a cinquanta, hai qualche problema, oppure sei un pirla. Come dicono quelli che hanno studiato, tertium non datur ...».

 

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Per il suo quarantottesimo compleanno, si è regalato due espulsioni in tre partite, l'ennesimo cazziatone da parte del presidente della squadra che allena, e «Clamoroso», una autobiografia così sincera nel mettersi in piazza con tanto di sbruffonerie e fragilità annesse che la sua fidanzata Tanya non gli ha parlato per giorni a causa del racconto, talvolta esplicito, delle passate avventure.

 

Gianmarco Pozzecco non sarà mai per tutti. Non ci sarà mai unanimità di giudizio sul suo conto. Sulla sua storia, persino sulle sue doti, a cominciare dall'equilibrio mentale. Con il giocatore che è stato il volto dell'ultima età dell'oro del nostro basket, l'unico a uscire dalla ristretta cerchia di noi malati dello sport più bello del mondo, diventando personaggio televisivo, volto noto, protagonista di vita mondana e di relazioni con fidanzate più o meno famose, ci saranno sempre due partiti.

 

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Ancora oggi, quando il diretto interessato ha più volte dato segni intermittenti di maturità, permane la divisione tra chi continua a considerarlo un mezzo matto esaltato, sempre sul filo della crisi di nervi, una specie di Balotelli che ce l'ha fatta, e chi invece lo ritiene una persona di talento forse solo troppo sincera, al limite dell'autolesionismo.

 

«Ah, intervisti Pozzecco? È ancora così matto oppure è cambiato?»

 

Pozzecco, vuole rispondere lei?

«Ci provo. Tutte e due le cose. Ho fatto un sacco di cose stupide, spesso mi sono fatto male da solo. Un certo tipo di vita non mi appartiene più, ma è un passato che non rinnego.

 

Sono stato un cretino? Io sono anche quel cretino che ero. Non è che sei sempre lo stesso, ognuno di noi contiene cose belle e brutte, errori. E prima di giudicare, forse bisognerebbe sempre conoscere, e sforzarsi di capire gli altri, i loro sbagli, i loro eccessi, la vita che hanno avuto».

 

Da dove viene questa sua perpetua necessità di dimostrare qualcosa al mondo?

«Mi guardi. Lei è molto più alto di me. Arrivo appena a un metro e ottanta. Sono sempre stato il più piccolo delle scuole che frequentavo con scarso profitto, forse perché ero scemo. Ero un tappo che voleva solo giocare allo sport dei giganti, più scemo di così...».

 

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Era solo una questione di altezza?

«Una sera di tanti anni fa. Casa mia a Trieste. Siamo seduti a tavola in terrazza, per pranzo. Ho 13 anni, e devo scegliere se giocare a pallacanestro in C1 nella squadra allenata dal mio papà, come mio fratello maggiore e più alto, oppure giocare a calcio in terza categoria con il Chiarbola. Io avevo già deciso. Basket, tutta la vita, anzi voglio che il basket diventi la mia vita. C'è solo da aspettare che papà torni a casa, e glielo dirò, facendolo felice. Almeno così immaginavo».

 

Non fu così che andò?

«Avevo le farfalle nello stomaco, non vedevo l'ora. Lui si sedette e non disse nulla. Io aspettavo il momento in cui mi avrebbe rivolto la parola, lo pregustavo, ma niente, non mi filava. Arrivati al caffè, quasi con nonchalance, si gira verso di me e mi dice: "Allora siamo d'accordo, vai a giocare a calcio, no?". Fu come ricevere un pugno da Mike Tyson. Ko tecnico».

 

Lei cosa rispose?

«Che obbedivo. Che avrei giocato a calcio. Poi mi alzai da tavola e tornai nella mia stanza, a piangere. E poi feci di testa mia, per la prima di una serie infinite di volte».

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Non credo di poter sopravvivere a un'altra storia padre-figlio, c'è già stato Agassi con il suo «Open»...

«Per carità, quel libro non sono neppure riuscito a finirlo, l'ho mollato a pagina 200...».

E perché?

«Agassi ripete a ogni pagina quanto gli faccia schifo il tennis. Abbiamo capito, va bene, peccato per te. Io invece ho amato e amo il basket con ogni mia molecola. Mi ha insegnato a vivere. A gestire la pressione, a stare in gruppo, a tollerare l'errore del compagno. Il basket ha definito quello che sono».

 

Non le dà fastidio che qualcuno ancora la consideri un pirla?

«Cosa posso farci? Essere discriminato, in ogni senso, è stata la costante della mia vita. Lo so, c'è gente convinta che io sia stato semplicemente un donnaiolo discotecaro, arrivato a certi livelli solo grazie a un po' di talento e tanta fortuna».

 

Un farfallone, come disse Boscia Tanjevic quando la tagliò dalla Nazionale che nel 1999 poi vinse l'oro agli Europei?

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«Ecco, grazie per averlo ricordato... D'accordo, ci sono state tante domeniche che ho fatto l'alba con un drink in mano. Ho preso sbronze omeriche e da ubriaco ero capace di fumare due pacchetti di Marlboro in poche ore. Ma gli altri giorni della settimana? Ero in palestra, a farmi il c... e non c'è nessuno che possa dire che non abbia sempre dato l'anima in campo».

 

Il giocatore e coach Pozzecco si sente vittima del personaggio che ha costruito?

«No, per nulla. Il basket mi ha concesso una vita incredibile, e me la sono goduta. Ne ho fatte di tutti i colori, in campo e fuori. E nel libro non ne nascondo mezza. Sa perché?»

 

Per far capire quanto era fuori di testa?

«Anche quello, ok. Ma ho scritto il libro anche per un'altra ragione più importante: vorrei far capire che il giudizio sulle persone non può mai essere definitivo. Che cambiamo tutti, ogni giorno. Non è sempre bianco o nero, non che sei cretino per sempre o cretino mai. Siamo tante cose tutte insieme, ognuno di noi».

 

La ferisce essere ricordato da qualcuno più per i flirt con Samantha De Grenet o Maurizia Cacciatori che per le vittorie?

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«L'unica cosa che mi fa male è quando sento qualcuno dire che ero un cocainomane. Io non mi sono mai drogato nella mia vita. Mai. Ero pazzo? La gente veniva al palazzetto apposta per vedere me, sapeva che mi sarei inventato qualcosa».

 

Il rapporto difficile con gli allenatori nasce quel giorno a tavola con suo padre?

«No, per carità. Nella mia prima stagione in A2, l'allenatore di allora mi gridò davanti al resto della squadra: "Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una..."».

 

È ancora vivo?

«Credo di sì. Lo attaccai al muro, e imparò a rispettarmi. Ma il mondo dello sport è ancora pieno di gente così, che umilia l'adolescente sentendosi chissà chi, tirandogli i capelli, insultandolo, con la scusa che è per tirare fuori il meglio da lui. Non è così che si insegna a un giocatore. Non sei un buon coach, sei solo un uomo vile e frustrato».

 

Quale è stato il suo miglior allenatore?

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«Charlie Recalcati, per distacco. Una persona eccezionale.

Un uomo che cercava di capire chi aveva davanti, che non ti guardava mai dall'alto».

 

Non ha avuto problemi anche con lui?

«Qualcuno, superato. All'inizio pensavo addirittura che avesse vinto il suo primo scudetto, a Varese, solo per merito mio, di noi giocatori. Poi lui ne ha vinti a decine, e io sono rimasto a uno. Quindi mi sbagliavo, come sempre. Si impara».

 

Perché a un certo punto, sul finire dalla carriera da giocatore, lei rinuncia alla televisione, alle serate al Billionaire, alla mondanità?

«Ancora prima di incontrare Tanya, la donna che mi ha cambiato, ho realizzato che non ero felice per via della fama e della celebrità che mi dava il basket. Ero felice perche giocavo a basket. Quando si avvicina la linea d'ombra, il cambio di stagione, con la fine di quella vita, lo spogliatoio, l'adrenalina, il cameratismo, le lacrime di gioia o di rabbia, ecco, è allora che vedi chiaro e capisci quello che conta davvero».

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Rimpianti?

«Un po'. Anzi, molto. Essere un personaggio non ha reso la mia vita speciale. Giocare a basket, inseguire la mia passione, è l'unica cosa che mi manca. È un vuoto che può essere colmato solo da un figlio. Lo vorrei tanto».

 

E se poi le dice che non gli piace il basket?

«Faccio come Erode. No, seriamente. L'unica cosa che ho imparato è che per vivere bene bisogna avere un desiderio, una passione forte. Non metterò un pallone a spicchi in mano a mio figlio, e non ho necessità che segua le mie orme. Mi dispiacerebbe solo vederlo senza un sogno da inseguire, senza qualcosa che lo illumini, che sia leggere o suonare una chitarra. O giocare a basket...».

 

Come ha fatto un «farfallone» casinista a sfiorare da coach uno scudetto a Sassari vincendo 22 gare consecutive, che credo sia un record?

POZZECCO USA ITALIA

«Ho avuto culo. Davvero. Una cosa che mi fa impazzire in Italia, è l'importanza che si dà all'allenatore, e non parlo solo di basket. Ce ne sono di due tipi: quelli che pensano di avere la ricetta per far vincere i giocatori, e quelli che invece pensano che siano sempre i giocatori a farti vincere. E se appartieni alla seconda categoria, ti prendi anche un po' meno sul serio, che non fa mai male».

 

Ma quindi Pozzecco è davvero diventato un vecchio saggio?

«Beh, sono stato Peter Pan per molto tempo, ma fortunatamente oggi non gioco più con il Lego. Anche se l'altra sera mentre guardavo la televisione sono finito su una specie di Masterchef del Lego». Ha cambiato canale? «Sono rimasto sveglio fino all'alba a guardarlo».

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