AI MONDIALI IL PASSAPORTO È UN’OPINIONE - DALL’APOLIDE RIO MAVUBA “NATO IN MARE” AL ‘TRADITORE’ DIEGO COSTA CHE HA PREFERITO LA SPAGNA AL BRASILE DI SCOLARI - L’INCREDIBILE STORIA DELL’IRANIANO BEITASHOUR
Domenico Secondi per "Libero Quotidiano"
«Sono e mi sento brasiliano, ma vincerò con la maglia della Spagna». Con queste parole Diego Costa ha rovinato l’avvicinamento al Mondiale a tanti suoi connazionali. O meglio, ex tali perché il futuro attaccante del Chelsea ha scelto il passaporto iberico snobbando Scolari e i verdeoro. Come avevano fatto in passato altri brasiliani in fuga, da Eduardo (Croazia) a Nani e Pepe (Portogallo).
É il calcio moderno, quello dei passaporti ballerini. Quattro anni fa fece scalpore il numero dei naturalizzati - 65 - e tutto il mondo scoprì le belle storie, ad esempio, degli ex bambini emigrati da tutto il mondo che in Germania avevano trovato una casa e un grande futuro da calciatori (dai polacchi Klose e Podolski, al turco Ozil fino al tunisino Khedira e alla novità 2014 Mustafi, albanese della Samp).
In Brasile gli “oriundi” di sangue o di scelta - quindi “naturalizzati” - saranno addirittura 83: l’11% dei 736 convocati, praticamente un calciatore ogni dieci non giocherà per la formazione del suo Paese di nascita. E molti lo faranno non per gratitudine o per tradizione, ma solo per calcolo. Come Steven Beitashour, figlio di un ingegnere elettrico della Apple: un ex calciatore iraniano arrivato in America negli anni Sessanta. Nato e cresciuto negli Usa, aveva avuto la sua occasione con Klinsmann senza però scendere in campo. Offeso, ha accettato al volo nel 2012 l’offerta di Queiroz con la Nazionale di Teheran, fregandosene delle tensioni tra gli Stati Uniti e il Paese degli ayatollah.
Americano in fuga è anche Gotoku Sakai: cresciuto a New York da mamma tedesca, ha scelto la maglia del papà giapponese. Sarà un oriundo in piena regola come gli italiani Paletta e Thiago Motta. Gli americani rimediano con quattro “quasi” tedeschi: Brooks, Chandler, Jones e Johnson sono nati nelle basi Usa in Germania ma non hanno mai avuto dubbi sulla loro bandiera. Emigranti di ritorno due terzi della Nazionale algerina: sono 16 su 23 i “francesi” in squadra, piccoli Zidane al contrario.
Nella Francia c’è in effetti una storia di quelle romantiche di grande accoglienza: quella di Rio Mavuba, figlio di quel Mafuila che nel ’74 esordì ai Mondiali con lo Zaire. Partorito in mare aperto dalla mamma in fuga dalla guerra in Angola, il ragazzo è cresciuto da apolide senza documenti e senza genitori, morti entrambi prima del suo 14° compleanno. Con le carte in regola per sfondare, però, ha colpito prima Garcia al Lille (e Rudi lo rivorrebbe alla Roma) e poi il ct Deschamps. E Didier non ha rinunciato al senatore Evra, senegalese di nascita.
Delicatissima quanto sofferta anche la storia di Sahilovic, Ibricix e Bicakcic: esordienti con la Bosnia, sono nati tecnicamente non in Bosnia ed Erzegovina ma nella Repubblica Serba. Si tratta dell’entità teatro di massacri e pulizia etnica negli anni Novanta. A forte maggioranza serba, l’area fa parte dello Stato bosniaco. E i tre - che non rientrano dunque nel conto ufficiale degli oriundi - difendono i colori della loro etnia e del loro Paese pur essendo quasi stranieri a casa loro.
Fratelli divisi i Boateng (Kevin-Prince è tornato a giocare col Ghana dopo uno stop), ma anche i de Guzman: il canadese Julian guarderà da casa il talentuoso “olandese” Jonathan. Da tenere d’occhio sabato sera lo spettro inglese per gli azzurri: Reheem Sterling, nato e allevato dalla nonna in Giamaica fino a 5 anni, quando emigrò con la madre a Londra.
Classe ’94, la corsa di Bolt e tanta voglia di ripetere i colpi sfoderati col Liverpool in stagione. Sembra un mappamondo la Svizzera: Costa d’Avorio (Djourou), Cile (Rodriguez), Spagna (Senderos), Macedonia (Dzemaili e Mehmedi), Kosovo (Shaqiri, Behrami e Xhaka), Turchia (Inler), Capo Verde (Fernandes) e Bosnia (Gavranovic). Solo sei d’altra parte le Nazionali “autarchiche”: Corea del Sud, Colombia, Ecuador, Honduras e Russia e, ovviamente, Brasile. Chissà se Diego Costa tra un mese si sarà pentito di aver scelto la maglia sbagliata.