IL TEATRONE DELLA POLITICA/26 - METAMORFOSI: PIVETTI, STORACE E D'ALEMA. TREMAVA SILVIO: «TUTTI I NOSTRI SONDAGGI CONFERMANO CHE PIACE ANCHE AI MIEI ELETTORI, PERFINO ALLE CASALINGHE DI RETE 4».
Da "Il Teatrone della Politica", di Filippo Ceccarelli - Longanesi & C. (2003)
Tre metamorfosi e mezzo
Come si cambia, vertiginosamente: fuori e dentro. Quanto si cambia: a destra, a sinistra, al centro. Aspetto fisico, condizione sociale, stile di vita, marchio di fabbrica, idee. Fino al punto in cui i politici diventano irriconoscibili, pur restando fedeli al personaggio che, giorno dopo giorno, hanno rappresentato sotto lo sguardo del pubblico.
Se la trasformazione è l'essenza stessa dello spettacolo, la metamorfosi di tre personaggi di questo tempo costringe a misurare la linea sempre più sottile che nella vita pubblica separa la realtà dalle apparenze.
La vita di Irene Pivetti, per dire, sarebbe un bellissimo film. La storia di una giovane donna che si trasfigura dal vertice delle istituzioni al reality show, dimostrando che si tratta pur sempre di palcoscenico. Con un dato preliminare: è figlia d'arte. Teatro. Padre regista, madre attrice, sorella pure attrice.
Lei è quella ragazzina dai capelli ricci che nelle foto dell'album di famiglia sta per andare in campeggio, con lo zaino sulle spalle. Ma poi è anche quella ragazza dai lunghi capelli sciolti che sembra sfidare il mondo. Un'ombra di sorriso sulle labbra. Scrive romanzi e poesie, porta la croce di Vandea sul petto, le piace scandalizzare i benpensanti, le piace Bossi. A trentun anni Bossi la fa presidente della Camera, terza autorità dello Stato.
Ed ecco allora che la ragazza riccioluta scompare e al suo posto arriva una donna che si sforza di sembrare molto più matura, severa e glaciale di quello che è. I capelli si acconciano in una morbida permanente senza vita; il sorriso si spegne in una specie di broncetto. Le stanno tutti addosso. Lei dice: «Vogliono fare di me una Carolina di Monaco. Non ci riusciranno».
È il tempo dei mesti foulard e dei tailleurini assennati, delle preghiere in ginocchio, dei rosari furtivi, delle messe in latino, del decoro istituzionale a tutti i costi. Un giorno il mensile "Class" si azzarda a pubblicare l'innocente fotomontaggio di un'Irene appena un po' più sbarazzina: comunicato ufficiale e querela. Un altro giorno sloggia dal suo ufficio una tela di Luca Giordano che raffigura una Venere, ovviamente nuda.
Un altro giorno ancora, dovendo presentare con il cardinal Tonini un libro sulla Chiesa e la donna, fa coprire con un gran drappo rosso il tavolo dei presentatori perché non si vedano le gambe del presidente della Camera. È la cocca di Scalfaro. Frequenta la Curia. Ma poi qualcosa comincia a scricchiolare. Anche con Bossi. A sorpresa, con l'auto e la scorta, si presenta a Pontida: in camicia verde, annodata alla vita, come Silvana Mangano in "Riso amaro".
Ma non funziona, finisce la legislatura, è rottura con la Lega. Scrive poesie sul "Messaggero". Decostruisce la parola, sembra un po' Molly nell'Ulisse: «Intanto Milano / e perfino un po' Roma / si chiedono cosa hanno fatto / per farsi riamare così / dal postpentapartito / col giovine allegro Piacione / che guarda dall'alto i suoi Fori imperiali / e li vede olimpionici / fitti d'a¬tleti e d'entrate di cassa / né certo lo turba la turba / prevista d'informi turisti / in ciabatte sciamare sull'Urbe. / Nell'algido madido Nord / la nebbia pudica infittisce / e Marco beidenti sorride / l'appalto del Cigno... »
Vaga per il firmamento politico, fonda un partitello da zero virgola. Dice: «Ritrovarsi presidente della Camera a trentun anni non è niente in confrontò a ritrovarsi ex presidente a trentatré».
Nel 1997 annuncia: «Ecco il mio nuovo look». Capelli corti. Ha anche conosciuto un ragazzo, molto più giovane di lei. Si chiama Alberto Brambilla, sembra un nome finto, ma è vero: lo presenta ai media. E poi se lo sposa. Cartoncino di partecipazioni color avorio. Piccolo giallo sull'abito da sposa (Gattinoni). Folla pazzesca di giornalisti e cameraman che si spintonano fuori dalla parrocchia romana dell'Opus Dei.
Viaggio di nozze ai Tropici. Filtra una foto di lei che balla in abito thailandese. I settimanali popolari cominciano a titolare: «La donna che visse due volte». Siamo in realtà alla quarta vita. Infatti è incinta. Rivelazioni sul concepimento: «Molto probabilmente in Thailandia, un posto delizioso tagliato fuori dal mondo».
Operazione dolce attesa, lui e lei inseparabili. Rapidamente trapassano nell'aldilà dei salotti televisivi. Vanno da Limiti, dalla Parodi, da Frizzi, da Biscardi, da Vespa, da Costanzo. Tanto è intensa «la perdurante ostensione televisiva», come la definisce Michele Serra, che i rotocalchi cominciano a scherzarci su, costruiscono addirittura finti fotoromanzi. In uno si vedono loro due sulle poltroncine dei talk show. Lei prende la mano al suo «sposo bambino» e gli dice: «Ehi, passerotto, la tua Irene ha avuto un'ideuzza carina carina per la prossima ospitata. Hai presente i mangiatori di spade?» E lui: «Nooooo, ti prego, fragolina, la spada no. Non potremmo tornare alla politica?»
Ma la politica è ormai per lei un'entità remota, fantasmatica, oscillante fra la Lista Dini e l'UDEUR. Nel settembre del 1998 nasce Ludovica Maria. Stanza 735, settimo piano del settore C, reparto di neonatologia del San Raffaele. Lancia l'allarme il neo papà Brambilla: «Siamo sotto assedio. Mia moglie e mia figlia sono costrette a vivere con le tapparelle abbassate».
Durante la gravidanza la pressione è stata molto forte: «Le hanno offerto duecento milioni per il film del parto e cifre da capogiro per fotografarla incinta come Demi Moore nuda col pancione. Io ho protestato e mi hanno risposto che poteva coprirsi il ventre con un braccio e i seni con l'altro».
Ludovica giocherà nell'ufficio della mamma a Montecitorio. Nel giugno del 1999, uscendo da un "Porta a porta", rivela di aspettare un'altra creatura. Dopo il parto dichiara: «Il mio nuovo look è frutto di una svolta interiore». Ancora una volta ha cominciato dai capelli. Spiega che era nella vasca da bagno, ha preso la macchinetta, «e vai con la tosatura fai da te».
Ride, è allegra, felice. Brambilla le ha fatto «da regista» nell'ultima trasformazione. Ma la segue un gruppo di professionisti: parrucchiere, truccatore, stylist addetto al look. La provano, come conduttrice di una trasmissione tipo posta del cuore. Alla prima puntata trova un ragazzo sieropositivo, si commuove, é perfetta.
Le affidano un reality show su La7, "Fa la cosa giusta". Si ritrova a maneggiare casi umani, gente che deve fare scelte difficili davanti a centinaia di migliaia di telespettatori. Adesso è sexy e aggressiva, ha i capelli corti scolpiti con il gel, anelli fiorati, tantissimi bijou, abiti rossi o verdi smeraldo, tacchi a spillo, twinset maculato. La chiamano ai corsi di comunicazione perché spieghi ai giovani la sua metamorfosi. Dice: «Ci sarà tutto il tempo domani per capire, per cambiare, o per continuare così».
Ma a volte «continuare così» è la strada più corta per il fallimento politico. Questo deve aver pensato un giorno, anzi una notte Francesco Storace. Vuole la leggenda che fosse la notte del suo quarantesimo compleanno, 25 gennaio 1999. Storace è già un affermato esponente di Alleanza nazionale, fantasioso portavoce di Fini, poi promosso al ruolo di «Epurator», e cioè di ammazzasette alla RAI. Ma senza un destino che sia interamente suo.
Qualche tempo prima ha partecipato a "Porta a porta" e poi ha commesso l'imprudenza di rivedersi. Morale: «Facevo schifo». Lo dice al solito con brutale franchezza. Questo «schifo» ha a che fare con il suo corpo. La trasformazione che decide rigirandosi nel suo letto, quella notte, si traduce nell'abbattimento del suo stesso spazio volumetrico. Più semplicemente: si mette a dieta. Il resto seguirà.
Fino a quel momento è stato il prototipo del missino generoso, ruspante, mangiatore, impulsivo e talvolta menacciuto, come hanno imparato a loro spese i suoi stessi compagni di partito. È ciociaro di Cassino, famiglia borghese, ma ha cominciato facendo l'autista al sénatore Marchio con cui ha poi litigato, emigrando come giornalista al "Secolo d'Italia".
«Grosso, pesante, sudatissimo», lo descrive Francesco Merlo sul "Corriere della Sera" nell'aprile del 1994. Dicono nel partito: «Storace è l'idea che si è fatta corpo», e non suona solo come allusione al quintale (minimo) di peso. È così da sempre, lo riconosce lui stesso: «Quando sono nato, ero un bell'abbacchietto di cinque chili».
Comunque scalpita. Lo chiamano «Gregorio, il fusto del Pretorio», come il protagonista di un antico Carosello che proclamava ai telespettatori le proprie ambizioni: «Fa' la guardia nun me piace, / c'ho du' metri de torace!» In carne e coraggioso, ma ingenuo. Nell'ambiente postmissino, d'altra parte, la "cura dell'immagine è ferma all'età della pietra.
Così Storace si sottomette a un servizio fotografico che dovrebbe renderlo simpatico. A rivederlo sul "Venerdì di Repubblica", si resta impressionati. Sfoggia una Lacoste rosso fuoco che spara sulla pagina anche più del doppio mento, sorride invano a braccia incrociate, ma con l'occhione poco rassicurante. Non si capisce chi è, che cosa vuole e soprattutto perché ha accettato di farsi fotografare in quel modo.
Eccolo tragicamente di profilo, in bicicletta e al pianoforte. Si gira pagina, e il politico che ha deciso di diventare governatore del Lazio immerge con voluttà un cucchiaino in una coppa di gelato. Un disastro. I consulenti per la comunicazione si mettono le mani nei capelli. Tutto da rifare.
Però lui sa come. Salta i pasti, riduce i carboidrati, il vero grande consulente è sua moglie, che è una donna intelligente che gli vuole bene, lo incoraggia, lo sostiene, lo rende meno grossolano senza snaturarlo. Storace comincia a dimagrire. Alla fine, perde quasi un quarto del suo peso. Un bel giorno si presenta con un paio di occhialini rotondi: sembra il musicista Franz Peter Schubert.
Oppure compare avvolto in una specie di mantella di loden, tributo alla moda tirolese. Quando entra in campagna elettorale gli si indovina sulle gote una barbetta «tecno», molto alla moda. Ad Arcore i collaboratori di Berlusconi gli mostrano con rassegnazione un sondaggio da cui viene fuori che sta sotto di diciotto punti. Ribatte lui: «E chi so', il mostro di Nerola?»
Gli chiedono pure che appoggio vorrebbe da Berlusconi. Risponde: «Basta che dica il contrario di quello che pensa». Fa fare lo stesso un manifesto in cui sorride con aria serena, quasi badiale. Lo slogan è: STORACE IL PRESIDENTE CHE PIACE. Quando gira per il Lazio è ormai un'altra persona. Giancarlo Perna, che del primo Storace aveva scritto un vivido ritratto, resta quasi ammirato: «Quando giunge in carne e ossa noto il beneficio che gli hanno portato gli anni. L'odierno Storace è un distinto notabile. Un'ampia stempiatura gli conferisce una pensosa autorità ».
Non si tratta soltanto di una metamorfosi fisica. In regime di apparenze corpo e anima procedono insieme. «Il cazzotto sottolinea l'idea», sosteneva Storace nella sua prima vita. Bene, adesso ha imparato il baciamano. Era ossessionato dai «froci». Ecco, ora dialoga con i movimenti gay. Ha una grande corte. Incassa i complimenti dell'Osservatore Romano. E un po' ha anche ricominciato a mangiare, e magari anche a ingrassare.
Il terzo caso riguarda Massimo D'Alema, e rispetto ai precedenti è una metamorfosi molto poco fisica, la sua, ma piuttosto culturale e di stile. Un'alterazione profonda di forme che rivela l'esaurimento cui vanno incontro, nella civiltà degli spettacoli, appartenenze politiche e abitudini di vita che anni fa sembravano saldissime.
D'Alema è un classico figlio del partito. Comunista il padre, comunista la madre, giovanissimo pioniere lui, scelto fra tanti altri boy-scout comunisti per recare un mazzo di fiori al capo dei comunisti, Togliatti, durante una liturgia congressuale comunista. Un prodotto di scuola, allevato sui sacri testi. L'infanzia e l'adolescenza in giro per l'Italia appresso al padre che cambia federazione come si cambia ditta o filiale.
Proviene da un mondo che conosce la disciplina, ma non rinuncia né a lu¬cidità, né a brillantezza. In altre parole: è predestinato a fare carriera nel partito. E però - o forse proprio per questo - a chi non fa parte di quel mondo appare inesorabilmente pallido, prudente, vestito come vestono i funzionari del glorioso apparato comunista alla metà degli anni Settanta: colori spenti, scarpe nere un po' da prete, un sottofondo di grigiore. Ha un'abitazione modesta, un retropensiero ferrigno e la più severa repulsione per tutto quanto potrebbe risultare minimamente «di moda», o peggio - vedi il nuovo corso di Craxi - «pacchiano».
Già segretario della FGCI, per tutti gli anni Ottanta e per buona parte dei Novanta D'Alema non solo è così, ma ne è anche orgoglioso. Sa che anche in questa disadorna severità di vita riposa la forza e anche il fascino sacrale del comunismo italiano e di uomini come Enrico Berlinguer. Quando nel luglio del 1994 viene eletto segretario del PDS, la politica è ormai ampiamente condizionata dalle suggestioni degli spot e del marketing.
Eppure nessuno mai potrebbe immaginare che D'Alema possa farsene interprete. È un errore di valutazione clamoroso, perché da subito, su impulso dello staff (soprattutto Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino), comincia quello che di lì a qualche mese i giornali - e forse lo stesso staff dalemiano - chiameranno restyling. Il personaggio viene dapprima affidato a un sarto napoletano e rivestito da capo a fondo.
L'obiettivo è di strappargli di dosso, insieme con le camicie beige a righine e le cravattone fantasia, anche quell'aspetto da piccolo burocrate che nel nuovo scenario della visibilità lo rende irrimediabilmente anacronistico e antitelevisivo. Ma anche qui non si tratta solo di vestiti. Ci sono pure da ammorbidire certe punte del carattere, l'indubbia freddezza, un sovrappiù di arroganza, quell'arietta tra il sarcastico e l'annoiato che evidentemente egli attribuisce al rango del dirigente politico.
Velardi e Rondolino gli aprono le porte dei grandi comunicatori della Tv. È da questi incontri che, contro ogni tradizione di collegialità, scaturisce l'idea di un manifesto elettorale in cui compare solo il volto del leader Massimo, senza più l'emblema del partito. Ad Anna Maria Testa, l'esperta pubblicitaria cui si sono rivolti alle Botteghe Oscure, si deve la più lucida e incoraggiante spiegazione di quanto è sul punto di compiersi: «Il trucco sta essenzialmente nell'essere se stessi; nell'addomesticare i propri tratti caratteriali senza sofisticarli».
È un «trucco» che gli attori conoscono meglio di chiunque altro. Ma la sorpresa si coglie nell'entusiasmo professionale con cui D'Alema cerca di diventare altro da sé, o da quel che è stato finora. Anche le esigenze politiche, certo, spingono verso la trasfigurazione. Sempre più debole, il partito è ormai un ingombro che il leader tende a scavalcare; la personalizzazione impone un protagonismo senza ritorno. Durante la campagna elettorale romana nel 1997, a una signora che gli fa i complimenti perché di persona sembra più giovane, risponde: « La ringrazio, ma sfortunatamente si vive in televisione».
Più che sfortuna, veramente, questa esistenza nel piccolo schermo gli appare una dura necessità: «Occorre vincere la propria naturale resistenza a farsi divorare. Io mi vergogno nel rivedermi, mi dà fastidio», confessa D'Alema. Ma intanto: «Sono i prezzi da pagare alla società dell'immagine. Devi mostrarti vicino alla gente, e quando alla partita di beneficenza hai fatto gol alla squadra dei cantanti, davanti a sei-sette milioni di telespettatori, è stato un evento assai maggiore che la partecipazione a un talk show».
In vista dell'incarico che lo porterà a presiedere la Commissione Bicamerale, il mutamento si accelera. Nel segno dello spettacolo: si confronta con la sua imitatrice Sabina Guzzanti, va a trovare i calciatori della Roma, guida una Ferrari a Maranello, inizia a vantare gusti gastronomici raffinatissimi, anzi è lui stesso un simpatico cuoco, come s'intravede nel celeberrimo video-risotto di "Porta a porta". Arriva a scherzare sui propri baffi: li taglio, non me li taglio.
Più o meno in contemporanea arrivano una nuova casa con terrazzo, un nuovo cane labrador iper-fotografato, una nuova barca super-attrezzata, un nuovo insegnante privato d'inglese, un nuovo libro pubblicato con la Mondadori berlusconiana, un nuovo fotografo ritrattista personale, nuovi viaggi anche in aero-taxi, nuovi amici ed estimatori come Emilio Fede, un nuovo sito Internet con venti immagini di rara perfezione egocentrica dove lo si vede mentre apre le braccia a una folla di scolaretti, o avanza alla testa di un corteo di camion, auto, biciclette, pedoni.
«La gente deve sapere che c'è un Massimo D'Alema prima della gloria politica, e uno dopo», scrive Giuliano Ferrara. «Le foto del primo sono una continua sottolineatura del suo tratto antipatico, della sua arroganza naturale. Le foto del secondo sono espressione in compendio delle virtù di un capo, una carezza alla sua interiorità e profondità, un tentativo di restituire umanità e forza al soggetto ritratto.»
La metamorfosi è sanzionata in via definitiva da Berlusconi. Tra le ragioni che nel 1994 l'avevano convinto a scendere in campo, il Cavaliere aveva ricordato un'apparizione televisiva del D'Alema originario: quel suo «ghigno vendicativo», quei «baffi sottili che gli tremavano per una specie di sconcia allegria». Ebbene tre anni dopo lo stesso Berlusconi dice: «È incredibile, D'Alema non è più antipatico. Tutti i nostri sondaggi confermano che piace anche ai miei elettori, perfino alle casalinghe di Rete 4 ».
Se ogni politico, come è stato detto, è una miniera inesauribile di format, converrà riconoscere che alcuni lo sono di più.
Infine il frammento di una metamorfosi accennata, o se si vuole incompiuta. Il 20 novembre del 2002, il Tg5 sovrappone le immagini della visita di Carlo Azeglio e Franca Ciampi a Mantova a quelle di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello in "Casa vinello".
Spiega il "Corriere della Sera" del giorno dopo: «Come Casa Vianello, con tante risate e gag, un botta e risposta continuo, tra la first lady e il marito presidente della "Repubblica". Il siparietto avviene nella sede della Gazzetta di Mantova, dopo il saluto del direttore Bruno Manfellotto e dell'editore Carlo Caracciolo alla delegazione del Quirinale.
Carlo Azeglio Ciampi sta per prendere la parola, quando donna Franca improvvisamente lo blocca mandando all'aria il cerimoniale. "Ma Carlo, che bisogno c'è di parlare? Ha già detto così bene il direttore." Imbarazzo e ilarità. Il capo dello Stato decide di buttarla sullo scherzo e fa il gesto di andarsene con un sonoro: "Arrivederci".
Ma è chiaro che gioca anche lui. Torna sui suoi passi, afferra il microfono e commenta: "Sarebbe saggio attenersi ai consigli della moglie, ma io i consigli della mia li seguo di rado". Controreplica tignosa di Franca Ciampi: "Che peccato. È proprio un toscano".
E finalmente il presidente può cominciare il suo discorsetto, esordisce: "E ora, se il silenzio della moglie lo consente, direi due parole". E forse per la prima volta il capo dello Stato fa una confessione pubblica, che spiega come sia cambiato il suo stile rispetto ai tempi delle grisaglie di Bankitalia e del ministero del Tesoro. "Vedete, per decenni ho parlato poco, credevo che questa fosse la mia natura. Evidentemente sbagliavo, forse non mi conoscevo bene"».
26 - continua.
Dagospia 25 Marzo 2005