MA GUARDA CHE GUARDASIGILLI! VITA E OPERE DEL MIRACOLATO ROBERTO CASTELLI
LA SENTINELLA DELLA SEZIONE TEODOLINDA
Capitolo tratto dal libro "Tribù" di Gian Antonio Stella, Mondadori.
«I giudici sono bande di terroni che occupano i tribunali del Nord!» diceva Umberto Bossi. E lui, muto. «A quel giudice raddrizzeremo la schiena.» E lui, muto, pur sapendo che l'altro parlava di un pm disabile. «Se qualche giudice vuol coinvolgere la Lega in una storia di tangenti sappia che noi siamo molto abili con le mani ma anche con le pallottole. Dalle mie parti una pallottola costa trecento lire e se un magistrato vuole coinvolgerci sappia che la sua vita vale trecento lire.» E lui, muto. Come Fernando, il servo senza lingua che a Zorro stirava la bandana e teneva fermo il cavallo. Obbediente e muto.
Quando venne il suo momento, gli domandarono dunque: «Che ne sai di giustizia?». «Assolutamente niente» rispose. «Zero?» «Zero.» Detto fatto, visto che aveva promesso di mettere al governo l'uomo giusto al posto giusto, Berlusconi ha preso Roberto «Fernando» Castelli e l'ha nominato ministro della Giustizia. «E cosa devo fare?» ha chiesto. Tranquillo, gli hanno risposto: tenere in ordine le matite e, per rispettare le promesse elettorali del Cavaliere («Chiameremo i migliori giuristi per fare uno straordinario lavoro...»), rifare tutti i codici come Napoleone e Giustiniano. Va bene, ha risposto. Non un brivido, davanti all'incombenza. Ligio al principio di tutta la vita, riassunto in una intervista alla «Provincia di Lecco»: «Io sono un soldato agli ordini di Bossi e come tale mi comporto».
Un soldato fedele come certi sergentini austroungarici. Mai una parola di dissenso, un cenno di distinguo, un batter di ciglia di disapprovazione. Mai un alito di vita propria che facesse capire se lui stesso possieda una qualche personale convinzione o se anche i suoi pensieri siano automaticamente allegati a quelli del capo. Mai un rossore d'imbarazzo neppure per certi articoli della «Padania» tipo: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Ne abbiamo le palle piene. Sbatteteli fuori questi maledetti». Mai.
Sempre silente e devoto. Fino a diventare per Bossi quella che era suor Pasqualina per Pio XII. O se vogliamo, visto che è di Lecco, ha fatto il classico al Manzoni e ha i capelli pepesale come Richard Gere (al quale adora essere accostato), come il Griso per don Rodrigo. Basta che il capo pensi una cosa, e lui va. Come fece la volta che, ignaro della futura retromarcia leghista, spiegò di trovare «veramente paradossale» che un governo fondato sui «puttani» come quello di D'Alema pretendesse di «dare lezione di morale e di etica politica» a Joerg Haider: «L'Europa strumentalizza il passato di Haider per impedire agli austriaci di portare avanti le loro tradizioni e la difesa delle loro radici culturali di fronte alla globalizzazione razziale».
Rampollo della Lecco più pia e bigottina, compagno di classe e di oratorio di Bobby Formigoni, presente in prima fila al Giubileo dei politici per «testimoniare quanto importanti siano i valori che trasmette la religione cattolica» (anche se i concittadini qualche risata se la fanno raccontando che ha «sposato in seconde nozze la Sara con rito celtico e tanto di druido»), contro il mix di razze ha una vera e propria fissa. Basti ricordare il commento alle dimissioni di Gad Lerner dal «Tg1» dopo la messa in onda del servizio sulla pedofilia: «Non si tratta di un semplice errore ma della conseguenza naturale di una cultura di sinistra che porta con sé idee come l'affidamento dei bambini ai gay, il riconoscimento delle coppie di fatto, la globalizzazione. Un melting-pot disumano, insomma. Lerner non ha commesso nessun errore involontario. L'unico errore è quello di avere alla guida del "Tg1", in un Paese di tradizione cattolica come l'Italia, un uomo come Lerner, che è espressione di quei disvalori che noi della Lega tanto combattiamo».
Appassionato di montagna, si picca di avere raggiunto con il forzista Jas Gawronsky e due colleghi della sinistra («ma è arrivato su tre ore dopo di me, l'ho incrociato scendendo» precisa ridendo il diessino Fausto Giovannelli) anche la vetta del Monte Bianco. La scalata di cui va più orgoglioso, però, è di un metro e mezzo. Quello necessario ad arrivare al collo della statua di Alberto da Giussano, sul romano Pincio, per allacciargli un fazzoletto verde padano.
Un'impresa difficile almeno quanto le arrampicate sugli specchi cui è stato costretto dopo la nomina a Guardasigilli per far dimenticare certe uscite bombarole. Come questa, scritta di suo pugno sulla «Padania» sedici mesi prima di giurare da ministro: «Noi non sentiamo assolutamente l'unità d'Italia come un bene primario. Anzi, spesso l'abbiamo vista come un male. Personalmente mi andrebbe meglio una Padania indipendente, quindi una secessione dal Sud».
Alla sezione Teodolinda di Dolzago, provincia di Lecco, virilmente lo amano. Perché, come spiega il suo sito internet, si è fatto una casa delle vacanze nella Valle San Martino «con la vista che si apre su Pontida». Perché del luogo sacro ai leghisti dice di aver «l'onore di essere il senatore». Perché un giorno sfidò Nicola Mancino, che lo espelleva dall'aula per intemperanze: «Mi venga a prendere lei!». Perché nel gennaio del 2000, come ha ricordato Mario Calabresi sulla «Stampa», «riuscì nell'impresa di far chiudere Palazzo Madama per due giorni "causa neve". Non aveva nevicato a Roma, dove splendeva il sole, ma in Padania». Perché nel '95 bruciò in un braciere eretto in piazza Garibaldi, a Lecco, così come aveva ordinato il capo, il suo concordato fiscale. E insomma: perché è sempre stato il più allineato, obbediente, ortodosso di tutti.
Pronto a bollare come «fascista» la legge usata dalla magistratura per indagare Umberto Bossi, reo d'aver detto «ho ordinato un camion a rimorchio di carta igienica tricolore» e insieme pronto a invocarla contro una professoressa di Oggiono, provincia di Lecco, che aveva fatto correggere ai suoi alunni la parola «Padania» trovata nel testo di geografia con «pianura padana». Presentò, sul tema, anche un'interrogazione parlamentare all'allora ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer per sapere «se non intenda adottare azioni che garantiscano una serena educazione degli studenti senza intimidazioni politiche» visto che si era trattato di «boicottaggio della coscienza padana».
Laureato in ingegneria al Politecnico di Milano, dove oggi è docente di «elementi di controllo del rumore negli edifici», specialista di acustica, impegnato per anni con il figlio Gabriele nello studio dell'«abbattimento elettronico del rumore», titolare di una società per il rilascio di certificazioni e omologazioni Cee, ha per la sua materia una passione tale che bacchettava aspramente Mancino perché suonava la campanella troppo vicino al microfono. Odiando l'eccesso di decibel, fa tutte le sue sparate col silenziatore.
Se dice che Amato gli «ricorda Hitler quando ordinò di bruciare Parigi di fronte all'avanzata dei liberatori, durante la seconda guerra mondiale», lo sussurra. Se denuncia il «Codice penale in vigore antilibertario e antidemocratico che nega in larga parte ai cittadini la facoltà di esercitare appieno la propria libertà», lo borbotta. Se inveisce contro «l'Unione Sovietica europea dei tecnocrati senza volto, della droga libera, della famiglia omosessuale», abbassa la voce.
Dotato di un orecchio sensibilissimo, è in grado di cogliere il fracasso di una foglia d'acero che si posa al suolo. Una sola volta non ha sentito niente. La notte che fece visita alla caserma di Bolzaneto, nelle ore più dure dei giorni maledetti di Genova e del G8, senza avvertire una botta di manganello, un pianto disperato, un urlo di dolore... Chiese anzi di testimoniare: «Posso dire di non aver visto e sentito niente». Povero «Fernando», mai una volta che lo tengano al corrente...
Dagospia.com 5 Dicembre 2001
Capitolo tratto dal libro "Tribù" di Gian Antonio Stella, Mondadori.
«I giudici sono bande di terroni che occupano i tribunali del Nord!» diceva Umberto Bossi. E lui, muto. «A quel giudice raddrizzeremo la schiena.» E lui, muto, pur sapendo che l'altro parlava di un pm disabile. «Se qualche giudice vuol coinvolgere la Lega in una storia di tangenti sappia che noi siamo molto abili con le mani ma anche con le pallottole. Dalle mie parti una pallottola costa trecento lire e se un magistrato vuole coinvolgerci sappia che la sua vita vale trecento lire.» E lui, muto. Come Fernando, il servo senza lingua che a Zorro stirava la bandana e teneva fermo il cavallo. Obbediente e muto.
Quando venne il suo momento, gli domandarono dunque: «Che ne sai di giustizia?». «Assolutamente niente» rispose. «Zero?» «Zero.» Detto fatto, visto che aveva promesso di mettere al governo l'uomo giusto al posto giusto, Berlusconi ha preso Roberto «Fernando» Castelli e l'ha nominato ministro della Giustizia. «E cosa devo fare?» ha chiesto. Tranquillo, gli hanno risposto: tenere in ordine le matite e, per rispettare le promesse elettorali del Cavaliere («Chiameremo i migliori giuristi per fare uno straordinario lavoro...»), rifare tutti i codici come Napoleone e Giustiniano. Va bene, ha risposto. Non un brivido, davanti all'incombenza. Ligio al principio di tutta la vita, riassunto in una intervista alla «Provincia di Lecco»: «Io sono un soldato agli ordini di Bossi e come tale mi comporto».
Un soldato fedele come certi sergentini austroungarici. Mai una parola di dissenso, un cenno di distinguo, un batter di ciglia di disapprovazione. Mai un alito di vita propria che facesse capire se lui stesso possieda una qualche personale convinzione o se anche i suoi pensieri siano automaticamente allegati a quelli del capo. Mai un rossore d'imbarazzo neppure per certi articoli della «Padania» tipo: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Ne abbiamo le palle piene. Sbatteteli fuori questi maledetti». Mai.
Sempre silente e devoto. Fino a diventare per Bossi quella che era suor Pasqualina per Pio XII. O se vogliamo, visto che è di Lecco, ha fatto il classico al Manzoni e ha i capelli pepesale come Richard Gere (al quale adora essere accostato), come il Griso per don Rodrigo. Basta che il capo pensi una cosa, e lui va. Come fece la volta che, ignaro della futura retromarcia leghista, spiegò di trovare «veramente paradossale» che un governo fondato sui «puttani» come quello di D'Alema pretendesse di «dare lezione di morale e di etica politica» a Joerg Haider: «L'Europa strumentalizza il passato di Haider per impedire agli austriaci di portare avanti le loro tradizioni e la difesa delle loro radici culturali di fronte alla globalizzazione razziale».
Rampollo della Lecco più pia e bigottina, compagno di classe e di oratorio di Bobby Formigoni, presente in prima fila al Giubileo dei politici per «testimoniare quanto importanti siano i valori che trasmette la religione cattolica» (anche se i concittadini qualche risata se la fanno raccontando che ha «sposato in seconde nozze la Sara con rito celtico e tanto di druido»), contro il mix di razze ha una vera e propria fissa. Basti ricordare il commento alle dimissioni di Gad Lerner dal «Tg1» dopo la messa in onda del servizio sulla pedofilia: «Non si tratta di un semplice errore ma della conseguenza naturale di una cultura di sinistra che porta con sé idee come l'affidamento dei bambini ai gay, il riconoscimento delle coppie di fatto, la globalizzazione. Un melting-pot disumano, insomma. Lerner non ha commesso nessun errore involontario. L'unico errore è quello di avere alla guida del "Tg1", in un Paese di tradizione cattolica come l'Italia, un uomo come Lerner, che è espressione di quei disvalori che noi della Lega tanto combattiamo».
Appassionato di montagna, si picca di avere raggiunto con il forzista Jas Gawronsky e due colleghi della sinistra («ma è arrivato su tre ore dopo di me, l'ho incrociato scendendo» precisa ridendo il diessino Fausto Giovannelli) anche la vetta del Monte Bianco. La scalata di cui va più orgoglioso, però, è di un metro e mezzo. Quello necessario ad arrivare al collo della statua di Alberto da Giussano, sul romano Pincio, per allacciargli un fazzoletto verde padano.
Un'impresa difficile almeno quanto le arrampicate sugli specchi cui è stato costretto dopo la nomina a Guardasigilli per far dimenticare certe uscite bombarole. Come questa, scritta di suo pugno sulla «Padania» sedici mesi prima di giurare da ministro: «Noi non sentiamo assolutamente l'unità d'Italia come un bene primario. Anzi, spesso l'abbiamo vista come un male. Personalmente mi andrebbe meglio una Padania indipendente, quindi una secessione dal Sud».
Alla sezione Teodolinda di Dolzago, provincia di Lecco, virilmente lo amano. Perché, come spiega il suo sito internet, si è fatto una casa delle vacanze nella Valle San Martino «con la vista che si apre su Pontida». Perché del luogo sacro ai leghisti dice di aver «l'onore di essere il senatore». Perché un giorno sfidò Nicola Mancino, che lo espelleva dall'aula per intemperanze: «Mi venga a prendere lei!». Perché nel gennaio del 2000, come ha ricordato Mario Calabresi sulla «Stampa», «riuscì nell'impresa di far chiudere Palazzo Madama per due giorni "causa neve". Non aveva nevicato a Roma, dove splendeva il sole, ma in Padania». Perché nel '95 bruciò in un braciere eretto in piazza Garibaldi, a Lecco, così come aveva ordinato il capo, il suo concordato fiscale. E insomma: perché è sempre stato il più allineato, obbediente, ortodosso di tutti.
Pronto a bollare come «fascista» la legge usata dalla magistratura per indagare Umberto Bossi, reo d'aver detto «ho ordinato un camion a rimorchio di carta igienica tricolore» e insieme pronto a invocarla contro una professoressa di Oggiono, provincia di Lecco, che aveva fatto correggere ai suoi alunni la parola «Padania» trovata nel testo di geografia con «pianura padana». Presentò, sul tema, anche un'interrogazione parlamentare all'allora ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer per sapere «se non intenda adottare azioni che garantiscano una serena educazione degli studenti senza intimidazioni politiche» visto che si era trattato di «boicottaggio della coscienza padana».
Laureato in ingegneria al Politecnico di Milano, dove oggi è docente di «elementi di controllo del rumore negli edifici», specialista di acustica, impegnato per anni con il figlio Gabriele nello studio dell'«abbattimento elettronico del rumore», titolare di una società per il rilascio di certificazioni e omologazioni Cee, ha per la sua materia una passione tale che bacchettava aspramente Mancino perché suonava la campanella troppo vicino al microfono. Odiando l'eccesso di decibel, fa tutte le sue sparate col silenziatore.
Se dice che Amato gli «ricorda Hitler quando ordinò di bruciare Parigi di fronte all'avanzata dei liberatori, durante la seconda guerra mondiale», lo sussurra. Se denuncia il «Codice penale in vigore antilibertario e antidemocratico che nega in larga parte ai cittadini la facoltà di esercitare appieno la propria libertà», lo borbotta. Se inveisce contro «l'Unione Sovietica europea dei tecnocrati senza volto, della droga libera, della famiglia omosessuale», abbassa la voce.
Dotato di un orecchio sensibilissimo, è in grado di cogliere il fracasso di una foglia d'acero che si posa al suolo. Una sola volta non ha sentito niente. La notte che fece visita alla caserma di Bolzaneto, nelle ore più dure dei giorni maledetti di Genova e del G8, senza avvertire una botta di manganello, un pianto disperato, un urlo di dolore... Chiese anzi di testimoniare: «Posso dire di non aver visto e sentito niente». Povero «Fernando», mai una volta che lo tengano al corrente...
Dagospia.com 5 Dicembre 2001