RE GIORGIO CADUTO DAL CANESTRO - "ARMANI FUORI DALL'EUROPA", "ARMANI PERDE LA FACCIA", "ARMANI SOFFRE", "ARMANI INCOLORE". MALEDETTO BASKET MENEGHINO CHE MACCHIA L'INVINCIBILITA' DELL'ARMATA DEL SARTO CESAREO (MODA, ALBERGHI, ARREDAMENTO).

Fabio Dal Boni per "Il Foglio"


Dannata mucca, gli ha rovesciato il latte addosso. Altro che "velvet man", uomini in velluto, quelli che nella sua ultima sfilata presentava come capaci di prendere la vita per il verso giusto: atteggiamento disinvolto, ma rilassato e morbido, in versione liscia oppure tweed. Contro l'anatema del basket, giovedì sera a Milano, Giorgio Armani, avrebbe voluto vedere ben altri uomini in campo. Del resto qualcuno aveva avvertito il suo coach Sasha Djordjevic: "Tu sei come mucca di Erzegovina: prima fare tanto buon latte e poi dà calcio a secchio", con la citazione presa a prestito dal concittadino Aza Nikolic, il mago che tra il '60 e il '70 dava lezioni dalla panchina di Varese.

Così, contro l'Olympiakos, l'exploit di Barcellona è stato spazzato via. Il giorno dopo è stato un nuovo tracollo sui giornali: "Armani fuori dall'Europa", era il minimo che ci si poteva aspettare. Ma in passato aveva già subito titoli del tipo "Armani perde la faccia", "Armani soffre", "Armani incolore". Decisamente troppo per lui, che della perfezione è diventato un'icona mondiale. "Quando penso allo stile penso sia il vero e unico lusso che ciascuno può concedersi anche senza tanto denaro", racconta di sé dalla home page del suo sito (splendido anche quello).

Eppure non ha alcuna intenzione di mollare, giura chi in più occasioni gli è stato vicino sui gradoni del Forum e l'ha visto sobbalzare quasi ad accompagnare quelle torri biancorosse a marchio AJ (Armani Jeans) nei rimpalli sotto canestro. Mugugna magari, ma non molla. Ha salvato, insieme ad Adriano Galliani e a un gruppo di facoltosi milanesi, quella squadra storica, l'Olimpia, dal fallimento sicuro, figuriamoci se dà fuoco al contratto triennale di sponsorizzazione da 4 milioni di euro, giunto solo a metà corsa. L'ha detto chiaro e tondo a Casalecchio, per la prima del nuovo allenatore, Aleksandar detto Sasha, l'ex playmaker che a Milano aveva lasciato il cuore e la traccia di campione dal 1992 al 1994. "Questa è una società - ha detto Armani salutando l'arrivo del quasi quarantenne di Belgrado - che ha bisogno di vincere. Va male quest'anno? Ci proveremo per il terzo. Nel mio mestiere sono abituato a conseguire i risultati con fatica e se al primo anno va male, so che il secondo andrà meglio e al terzo avrò la moda. Così, per la squadra, ho già dimenticato la finale dell'anno scorso. Me ne frego. Bisogna dimenticare quello che si è fatto che sia bello o brutto, e misurarsi col presente".

Miracoli, certo, non se li aspettava, ma dire che ci sperava è poco. Anche perché il serbo si era presentato con la solita grinta, tutt'altro che un velvet man in sala stampa. Domanda: "Non rischia di bruciarsi, nell'inferno Armani?". Risposta: No, perché ho qualcosa sotto il tavolo. mi scusino le signore per l'allusione un po' maschilista. ma la mia parola d'ordine è ambizione: se interpretata in modo corretto ti dà tutto". E i risultati si sono visti, eccome. Il campionato da fallito che era, adesso appare solo un tantino compromesso. Giocatori ritrovati, spogliatoio ritonificato. Quattro partite, tre vittorie. Fino a giovedì sera. "Loro sono già qualificati, quindi in teoria è una gara facile. Ma pensarlo è l'errore peggiore che possiamo fare", dichiarava Djordjevic alla vigilia di Coppa. Partita persa, Armani fuori dall'Eurolega. Lui, l'icona, quasi quasi se lo sentiva: "Sasha sembra l'uomo giusto, ma deve lavorare molto e la squadra deve sentire la presenza. Ci vuole tempo per stabilire il feeling".

Armani, un gigante tra i giganti, che deve al basket il debutto su Wikipedia, l'immensa (e anche discussa) enciclopedia "free" su Internet. Cercare su Google le parole "Giorgio", "Armani" e, poi, "basket" per verificare ed ecco cosa racconta la biografia che emerge dopo il clic. "Nato a Piacenza l'11 luglio 1934, è uno dei più celebri stilisti del mondo. Lavora alla Rinascente (dagli acquisti per l'abbigliamento maschile all'allestimento delle vetrine) fino al 1965, quando lo chiama Nino Cerruti per ridisegnare il marchio Hitman. La sua prima collezione risale al 1975, anno in cui fonda l'azienda omonima e da quel momento è un successo ininterrotto. Ha un look disimpegnato, ma essenziale e raffinato, che le (sì, c'è scritto "le", ndr) regala quel fascino androgino e sottilmente ambiguo di dive alla Greta Garbo, Joan Crawford o Marlene Dietrich, sua vera musa ispiratrice".

Wikipedia dedica ad Armani un'intera schermata fitta di citazioni, premi, collezioni e conclude osservando che è "uno degli uomini più ricchi d'Italia e dopo Ralph Lauren è lo stilista più famoso del mondo e recentemente ha acquistato la squadra di basket di Milano, nota come Armani Jeans". E' vero che attraverso il "link", cioè saltando al sito ufficiale di re Giorgio, non si pesca nulla sul basket, quasi Armani volesse tenerlo nascosto ai suoi collaboratori e al ciberpianeta come un giocattolo personale ma a dar retta all'enciclopedia ideata da quel pazzoide di Jimmy Wales, un altro Giorgio, tale Corbelli, il vero proprietario, avrebbe di che lamentarsi. E, infatti, mugugna pure lui. Non che qui si voglia mettere zizzania tra sponsor e azionista, però questo è quanto si raccoglie tra i fanatici dell'Olimpia, oggi Armani Jeans.

La squadra, nata nel '36 per idea di Adolfo Bogoncelli, è resa famosa vent'anni dopo dal marchio Simmenthal. Epici i duelli da scudetto tra le scarpette rosse milanesi della carne in scatola e la valanga gialla varesina degli elettrodomestici Ignis. Ancora 17 anni e arriveranno il marchio Innocenti, poi quello Cinzano, Billy, Simac, fino a diventare Stefanel e poi Adecco. Nell'ottobre 2000 il controllo dell'Olimpia passa a Sergio Tacchini che dopo due anni (neri) cede tutto a Corbelli, imprenditore romagnolo con un passato nel basket tra Brescia, Forlì e Roma. Lo stemma è Pippo, per "gentile" concessione di un'azienda di Castronno, nel varesotto.

La stagione 2003/2004 porta almeno al cambio sulle maglie, via Pippo dentro Breil, in cassa comunque la situazione non migliora, il fallimento (finanziario oltreché sportivo) è vicino. Corbelli - smaltiti i tempi bui dell'inchiesta Telemarket sulla vendita di opere d'arte false, per la quale venne arrestato a Bari nella primavera 2002, secondo quello che definisce un complotto ai suoi danni per l'aver osato acquistare il Napoli Calcio, liquidando Corrado Ferlaino - non si perde d'animo, si sbatte come un furetto e convince i padroni del calcio meneghino, i Galliani e i Moratti, a entrare nel capitale. E, soprattutto, Armani a vestire in Jeans quei ragazzi alti ma scombinati e ridare un futuro alla vecchia Olimpia dal passato inutilmente carico di gloria.



Il basket non è il calcio: nel cesto, chi conta non è il presidente, e poco importa se è anche l'azionista, chi pesa e viene portato in trionfo se vince e saluta a fine stagione se perde (lasciando i cocci in mano al proprietario) è il "main sponsor", quello che paga il contributo più elevato e mette il timbro sulle maglie. Armani è tipo da oscurare e insieme illuminare chiunque, e non per la sua inseparabile "mise" di maglietta e pantaloni blu notte con scarpe ginniche e capelli quasi fluorescenti.

Normale (e inutile) che Corbelli arricci il naso se al Forum intonano ar-ma-ni-ar-ma-ni e non cor-bel-li-cor-bel-li. Lui, re Giorgio, quando è sbarcato al Forum ha messo le mani avanti: "E' meglio investire soldi nel basket e non nel calcio, si evita così di farsi nemici e poi la pallacanestro è uno sport che offre meno possibilità di fare cattiverie in campo". Non solo. Armani ha confessato di aver pensato per un attimo di diventare azionista dell'Olimpia: "Costava meno comprarla che sponsorizzarla. Però avrei avuto la squadra sul gobbo e mi sarebbe stato difficile occuparmene direttamente".

Ai bordi del campo si trasforma, con il pieno diritto che ti dà l'essere sponsor: "E' stato un gesto d'affetto - ha dichiarato staccando l'assegno da un milione di euro per la prima stagione - verso la città e verso la mia famiglia: mio fratello Sergio giocava a basket nella Simmenthal e anche mia sorella Rosanna. L'unico che non giocava ero io. In questo modo contribuisco a questo sport". Per un soffio la prima stagione non è stata coronata dallo scudetto, lui si è trovato perfino a compiere gesti fino a quel momento impensabili: prendere carta e penna e scrivere editoriali sulla Gazzetta dello Sport per incitare i suoi ragazzi. "L'Armani Jeans ci sta rendendo felici, vola nell'Olimpo della classifica e gioca con sentimenti, rischiando sempre".

Altra musica rispetto a quella suonata giovedì sera con l'Olympiakos. "Ma ne valeva la pena", ripete ogni volta. Quanto a fare l'abitudine a rimediare randellate, e sopportarle in silenzio, ce ne corre. Lo stilista piacentino insegue con maniacale impegno la perfezione, per sé e gli altri. "Vestire alcune delle persone più belle e interessanti o di maggior talento al mondo per me è molto affascinante". A Hollywood è di casa: Richard Gere, esploso nel 1980 con American Gigolò, nel film vestiva Armani da capo a piedi. Così Kevin Costner, Sean Connery e Andy Garcia per The Untouchables di Brian de Palma nel 1987 e ancora Costner in Bodyguard. E a Cinecittà: Leonardo Pieraccioni e Claudia Gerini hanno girato Fuochi d'Artificio con i vestiti di Emporio Armani, la linea più accessibile della casa di moda milanese.

Che nel profilo ufficiale mette in bella evidenza non solo la sostanza ma anche la presenza: "Nel 1982 Giorgio Armani diventa il secondo stilista di moda (il primo è stato Christian Dior) ad apparire sulla copertina della rivista Time". E "nel 2000 il museo Solomon R. Guggenheim di New York dedica una mostra sui 25 anni di attività" della maison. Un'occhiata all'ultimo bilancio conferma l'attenzione all'immagine. Nel 2004 le spese per pubblicità, propaganda, produzione fotografiche e sfilate sono rimaste ai livelli dell'anno precedente: 62 milioni, ovvero - per i nostalgici del vecchio conio - 120 miliardi di lire. Il gruppo è talmente florido da fare invidia a molti suoi colleghi imprenditori della moda, con un fatturato di 1,3 miliardi di euro e un utile netto di 126 milioni.

Un impero che si regge su 4.800 dipendenti e 13 stabilimenti di produzione, e realizza abiti, accessori, occhiali, gioielli, orologi, cosmetici, profumi, mobili e complementi di arredo. E, visto che - come dice re Giorgio - che c'è sempre chi riesce a concedersi il lusso, perché non offrirglielo a dosi massicce e concentrate? Così, è spuntato un nuovo filone: alberghi e resort. Quelli che nel Monopoli trovi (imprecando se non sono tuoi) al Parco della Vittoria. Armani, naturalmente, tiene il banco.

Nel giugno dell'anno scorso ha siglato un'alleanza con Mohamed Ali Alabbar (nessuno azzardi paragoni con Alì Babà, di questi tempi è pericoloso anche solo scherzare), direttore generale del dipartimento di sviluppo economico del governo di Dubai, governatore del Forum economico mondiale e fondatore nel 1997 della Emaar Properties, una società che appartiene per il 30 per cento all'emiro regnante ed è quotata in Borsa a Dubai con un valore di mercato di 20 miliardi di dollari. I due, il sig. Giorgio e mr. Mohamed, daranno vita alla catena "Armani Hotels & Resorts", sette alberghi di lusso e tre supercomplessi di villeggiatura entro i prossimi dieci anni. Prima realizzazione prevista per l'investimento di un miliardo di dollari (i lavori sono già partiti), l'Armani Hotel - 175 camere e suite, ristoranti e "spa", tutte rigorosamente vestite e arredate con i prodotti dello stilista - situato nella torre Burj Dubai, che una volta ultimata (all'inizio del 2008) sarà l'edificio residenziale e commerciale più alto del mondo.

Sempre nel 2008 è prevista l'apertura di un secondo Armani Hotel, a Milano nella sede della maison in via Manzoni. Poi sarà la volta di Londra, New York, mentre il primo resort aprirà in Cina. L'Armani albergatore ha, tra l'altro, mandato all'aria i piani delle banche d'affari che da tempo gli danno la caccia per convincerlo alla quotazione in Borsa con la storia che ha 71 anni e prima o poi dovrà decidersi a progettare il futuro non più giorgiocentrico del suo gruppo. "Niente da fare - tuona lui intervista dopo intervista, l'ultima tre settimane fa al Sole 24 Ore - Vendere io? Ho ancora tanto da fare: ho appena avviato i progetti sugli hotel e non mi immagino tra due anni in una delle mie belle case a vedere la tv. Mi fanno notare che dovrei vendere ora perché magari tra qualche anno l'azienda avrà un valore minore. Chi se ne frega! Mi appassiona quello che faccio e ho appena cominciato tante cose importanti. C'è tempo. Negli Emirati ho la partnership con Emaar. E' una cosa terrificante: l'hotel sarà un edificio altissimo, i grattacieli accanto sembreranno minuscoli".

Per uno che a fine gennaio è andato al Forum di Davos, in Svizzera, a lanciare insieme a Bono, il leader rock degli U2, il commercio di prodotti griffati con il logo etico "Red" per raccogliere fondi per combattere l'aids, la malaria e la tubercolosi in Africa. Per uno che accetta di percorrere via Montenapoleone, la strada milanese del lusso, con la fiaccola olimpica, quando poco fuori dal centro il tedoforo di turno rischiava il linciaggio no-global. Per uno che alle donne, sue principali fonti di guadagno, ha mandato a dire poco prima di Natale: "Una mini su una quarantenne non va bene. Non puoi competere con tua figlia. Poi detesto i rifacimenti: labbra gonfie o facce tirate. Meglio una ruga.". Per uno come re Giorgio cosa volete che sia qualche batosta sotto canestro, qualche titolo antipatico, una critica acidella sulle scarpette rosse di quei giganti? Del resto, ad andare con lo sceicco si impara a largheggiare: Djordjevic prima o poi porterà l'Olimpia-Armani Jeans a dominare tutti dall'alto della Burj Dubai, fino a far sembrare minuscoli moscerini gli avversari. Ma, per favore, Sasha stia attento a non versarmi più il latte sul velluto. Mai più.


Dagospia 13 Febbraio 2006