ODO GELLI FAR FESTA/19 - MISTERI ITALIANI, IL RAPIMENTO MORO ("NESSUNO CI CHIESE DI OCCUPARCI DEL CASO. NEPPURE GLI USA") - CHI SI NASCONDE DIETRO LE BR? ("HANNO AVUTO SOPRATTUTTO MOLTA FORTUNA").
Tratto da "Licio Gelli - Parola di Venerabile", di Sandro Neri, Aliberti Editore
MISTERI ITALIANI
«Caso Moro: il ministro non sapeva? . sapeva persino dove era tenuto prigioniero. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto, e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?»
Articolo di Mino Pecorelli in F. Pecorelli, R. Sommella, I veleni di "Op", Kaos Edizioni, 1995
Il 16 marzo 1978, a Roma, le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana. Moro sta recandosi in Parlamento, dove la Camera dei deputati ha in agenda il voto di fiducia al nuovo governo, il primo appoggiato anche dal Pci in trent'anni di storia repubblicana. L'agguato avviene in via Fani: mentre due auto bloccano quella dello statista e della sua scorta, un commando brigatista, in attesa in divisa da pilota sul ciglio della strada, entra in azione uccidendo tutti e cinque i componenti della scorta. Moro viene prelevato dalla sua auto e sequestrato. È un'azione terroristica senza precedenti, anche nell'Italia degli anni di piombo. Cosa ricorda di quei momenti?
L'allarme e la tensione seguiti alla notizia del rapimento. La appresi con una telefonata ricevuta all'Hotel Excelsior. Poco più tardi, l'intera città sembrava impazzita. Impossibile circolare sulle strade, un rincorrersi di voci; c'era chi diceva che Moro fosse stato già ucciso. In realtà era solo l'inizio di un lunghissimo calvario.
Lei conosceva Moro personalmente. Quando lo aveva incontrato per la prima volta?
Nel 1974. Moro era ministro per gli Affari esteri quando andai a presentargli le credenziali di consigliere economico presso l'Ambasciata argentina in Italia. Parlando, Moro mi chiese: «Come fa lei, italiano, a essere un diplomatico argentino?» Io gli avevo ricordato la legge del generale Perón con la quale ero stato inserito nei quadri della diplomazia argentina. Moro conosceva il mio passato. Credo che avesse frequentato a Bari il centro dei corsi di preparazione politica durante il fascismo. «Mi pare che entrambi ci siamo interessati di politica con le spalline blu» gli dissi. E lui confermò, precisando di non aver aderito, però, alla Repubblica sociale.
Poi mi chiese anche un giudizio sull'Argentina: «C'è una dittatura. Lei dovrebbe lavorare per l'Italia, che è una democrazia». Risposi che avevo la doppia nazionalità, che avrei sempre lavorato anche per l'Italia e che non ero certo un dittatore. «Ma, vede» insisteva lui «lei non conosce la democrazia». D'altronde, come dissi anche a lui, non avevo avuto il tempo di studiare sui libri che parlavano di democrazia. «La democrazia» aveva subito continuato «è come una pentola di fagioli, che devono bollire piano piano perché possano cuocere bene». Allora replicai con una battuta: «Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senz'acqua. Altrimenti si bruceranno». Moro aveva scosso la testa: «Lei non è ancora pronto per la democrazia». «Forse perché mi piace l'ordine. Dove c'è gerarchia c'è anche meritocrazia». Ho avuto modo di riparlare con Moro una volta sola, molto brevemente, incontrandolo davanti a una farmacia all'angolo tra piazza Barberini e via Quattro fontane. Mi riconobbe e mi diede la mano, per salutarmi.
Moro, per la sua politica di avvicinamento al Pci, già dal 1976 è inviso agli americani. Lo stesso leader democristiano aveva avuto modo di lamentarsi del trattamento che il segretario di Stato Henry Kissinger gli aveva riservato nel corso della sua ultima visita negli Stati Uniti.
Non piaceva che lavorasse all'idea di compromesso storico. Gli americani erano convinti, perché questo avevano saputo dai loro informatori, che Moro non condividesse più la politica della Democrazia cristiana, che stesse diventando un dissidente all'interno del suo stesso partito, avvicinandosi pericolosamente al Pci. Me lo riferivano personaggi che spesso, più che indicare episodi specifici, usavano particolari espressioni del viso per lasciar intuire tutta la loro disapprovazione per le scelte di Moro. Qualcuno lo definiva cattocomunista.
La prospettiva del compromesso storico immagino preoccupasse anche la P2.
Eravamo convinti che non ci sarebbe mai arrivato. Per più motivi, il primo dei quali era la contrarietà degli americani. E noi, si sa, siamo una loro colonia. Quanto alla P2, era un'armata invisibile, fatta di anticomunisti. Tutti personaggi che ricoprivano posti chiave.
Moro viene rapito la mattina in cui deve essere varato il quarto governo Andreotti, il primo esecutivo sostenuto dal Pci. Pensa che il sequestro fosse finalizzato a bloccare il compromesso storico?
Non so se fosse solo quello. Forse l'avrebbe bloccato. Moro non aveva dietro di sé una struttura organizzata al di là di quelle poche persone di cui poteva fidarsi. Probabilmente, morto lui sarebbero caduti anche i suoi programmi.
Chi c'era dietro il sequestro, secondo lei?
Le Brigate rosse. E loro soltanto.
Nel 1974 i brigatisti avevano rapito il giudice Mario Sossi. L'azione aveva segnato un cambio di marcia da parte dell'organizzazione terroristica. Favorito - si è avanzata questa ipotesi - da un immobilismo dei servizi di sicurezza sollecitato proprio dalla P2, interessata a sfruttare il terrorismo rosso in funzione destabilizzante.
Le Br avevano una grossa forza, ma anche tante protezioni e soprattutto fortuna.
Protezioni da parte di chi?
Di chi in particolare non saprei. Certo colpisce la loro grande capacità di azione e il fatto che riuscissero a operare in un regime di totale segretezza nonostante tutti gli apparati di polizia e di intelligence fossero concentrati su di loro.
Crede anche lei all'ipotesi di un terrorismo eterodiretto?
Eterodiretto no. In quel momento, considerate l'efficienza e l'organizzazione militare delle Brigate rosse, tentare di manovrarle sarebbe stata un'operazione troppo pericolosa. Insisto: le Br hanno avuto soprattutto molta fortuna.
La storia del delitto Moro è intrecciata con quella della P2. Si è a lungo ipotizzato un ruolo della loggia nei 55 giorni del sequestro, concluso con l'uccisione dell'ostaggio. Questo soprattutto per la presenza di uomini della P2 ai vertici dei servizi di sicurezza che conducevano le indagini e dei cosiddetti comitati "per la gestione della crisi" creati al Viminale dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga.
In quel periodo, tutte le persone o quasi avessero alti incarichi nello Stato erano iscritte alla loggia. Non era la P2 a inquinare il Viminale: il comitato tecnico-operativo presieduto da Cossiga era fatto di professionisti qualificatissimi e per questo si era ritrovato composto in buona parte di persone che erano nella loggia. Senza neppure - ne sono certo - sapere l'uno dell'altro, fatta salva qualche piccola eccezione. Spesso risultavano anche in contrasto tra loro. Succedeva anche nella P2, che raggruppava esponenti di partiti diversi: dai democristiani ai socialisti. Avevamo persino un comunista. Uno solo, però: un po' sui generis.
Se buona parte degli uomini che componevano il comitato erano iscritti alla loggia come non sospettare un inquinamento piduista delle indagini sul sequestro?
Nessuno era tenuto a farmi rapporto. Certo mentirei se sostenessi che non chiedevo quali fossero le novità sul caso. Ma nessuno sapeva nulla di rilevante. Posso garantire che anche le persone più in alto brancolavano nel buio.
Quegli uomini, però, l'avranno informata delle ipotesi che si facevano largo come delle strategie tentate per arrivare alla prigione brigatista o alla liberazione, attraverso una trattativa con i terroristi, dell'ostaggio. Lei era il Venerabile.
C'erano molti nostri uomini, è vero. Umberto Federico d'Amato, responsabile dell'Ufficio affari riservati del Viminale, il questore Giovanni Fanelli che lavorava per la stessa struttura. E tra gli esperti ingaggiati da Cossiga anche il prefetto Fernando Guccione e lo psichiatra Franco Ferracuti. Persone validissime. Eppure io non ho saputo mai molto di più di quanto veniva pubblicato dai giornali. Della prigione di Moro, il covo di via Montalcini, sono convinto sia stata utilizzata solo in una fase. È ingenuo pensare che l'ostaggio sia stato tenuto lì tutti e 55 i giorni. Forse gli stessi interrogatori, quelli alla base del Memoriale, si erano tenuti altrove.
Come fa a dirlo?
Questione di logica. I brigatisti dovevano essere molto prudenti. Gravitare troppo tempo su una stessa casa poteva attirare attenzione o sospetti. C'era il rischio che la prigione venisse individuata. È plausibile che avessero provveduto a trasferire l'ostaggio, magari più di una volta. Non era un'impresa impossibile. Bastava narcotizzarlo e nasconderlo in un'auto. Una serie di macchine civetta - anche solo cinque, a distanza di cento metri l'una dall'altra - poteva garantire sicurezza alla manovra. Un solo segnale, in vista di un eventuale posto di blocco, e l'auto con Moro avrebbe preso un'altra direzione.
La P2, lo sappiamo, operava in funzione filoatlantista. Come non ipotizzare che abbia avuto un ruolo anche in questa vicenda? Moro, con la sua politica, stava alterando gli equilibri politici dell'intero scacchiere Mediterraneo.
Nessuno ci chiese di occuparci del caso. Neppure dagli Stati Uniti, dove pure avevo contatti importanti.
C'è poi il giallo dei verbali delle riunioni dei comitati al Viminale, completamente scomparsi. Opportunamente occultati, forse.
Scomparsi? Io credo che non siano mai neppure esistiti.
Ci sono testimonianze che dicono il contrario. Al processo Moro quater è stato fatto il nome del funzionario incaricato di redigere i verbali, il viceprefetto Pelizzi. Anche se tra i dipendenti del ministero dell'Interno non figura nessuno con quel nome. Il funzionario non è mai esistito e così pure i verbali. Perché un organismo statale, di pubblica sicurezza, avrebbe dovuto astenersi dal redigere verbali dei suoi lavori?
Questo non lo so, non era di mia competenza. I componenti del comitato, immagino, erano tutte persone di cui il ministro aveva la massima fiducia e forse le riunioni erano così ristrette che anche un semplice rapporto poteva risultare superfluo.
Cossiga racconta che in quel periodo lei tentò di contattarlo attraverso Ilio Giasolli, un banchiere cattolico che era tra gli iscritti alla loggia ma che l'avrebbe incontrata solo nel 1979, a Palazzo Chigi. In realtà lei mi ha raccontato di una colazione con Cossiga in occasione di una visita dell'ammiraglio Massera in Italia. Quando l'aveva conosciuto?
Credo nel 1977. Dopo gli piaceva offrirmi il cappuccino coi biscotti, al mattino. Facevamo la prima colazione insieme, nel suo ufficio al ministero della Marina. Ricordo che in quel periodo, per almeno due mesi, il suo ufficio era stato trasferito lì perché nella sua sede erano in corso dei lavori di ristrutturazione.
Anche Andreotti la invitava nel suo ufficio?
Anche Andreotti, certo. Mi dava appuntamento alle 8, nel suo studio al terzo piano vicino a Montecitorio. Erano colloqui molto liberi, informali. Anche lui a volte chiedeva qualcosa, magari un piccolo interessamento. In quegli anni tutti chiedevano. Ma era sempre per il bene del Paese.
Un personaggio che lei conosce bene, Pietro Musumeci, dirigente dei servizi segreti, risulta dai processi che avesse un infiltrato nelle Br e che i servizi avessero saputo in anticipo che si stava preparando un agguato al presidente della Dc. Parlò mai con Musumeci di questo particolare? E perché i servizi non intervennero per impedire il sequestro?
Con Musumeci, lo confermo, ero in ottimi rapporti. Ma di quest'infiltrato non mi parlò mai. Certo nel suo lavoro era un professionista molto capace, che ha svolto le sue funzioni con fermezza.
Ciò che la Commissione stragi lamenta è l'impossibilità di risalire all'area di contiguità su cui le Br potevano contare. Ambienti borghesi che le corteggiavano e le proteggevano. Lei che dice, era così?
Mi sembrano fantasie. Le Brigate rosse erano un'organizzazione segreta, imprendibile, basata sulla clandestinità dei suoi componenti. La gente, le famiglie borghesi, avevano paura delle loro azioni.
Si è fatto l'esempio di Marco Donat Cattin, terrorista di Prima Linea, killer del magistrato Alessandrini e figlio del leader democristiano Carlo, artefice del "preambolo". Un tentativo del padre di sottrarlo alla cattura metterà in imbarazzo lo stesso Cossiga. Ho trovato anche un suo appunto a riguardo.
Il caso Donat Cattin dimostra che a volte è in case borghesi che potevano nascere dei terroristi rossi. Ed erano drammi. Attraverso il suo segretario, Carlo Donat Cattin mi pregò, nel periodo in cui era ministro del Commercio e dell'Industria, di presentargli l'editore Angelo Rizzoli: voleva che la stampa non parlasse di suo figlio sempre come di un presunto componente delle Br perché questo aveva effetti devastanti anche sul partito. Ricordo un colloquio di circa tre ore, al termine del quale mi chiese anche se, in caso di arresto di suo figlio, avessi potuto intervenire presso un giudice di Torino che era iscritto alla P2. Anche volendo, non ci sarebbe stato il tempo: due giorni dopo Marco Donat Cattin era già stato arrestato.
19 - Continua
Dagospia 15 Dicembre 2006
MISTERI ITALIANI
«Caso Moro: il ministro non sapeva? . sapeva persino dove era tenuto prigioniero. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto, e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?»
Articolo di Mino Pecorelli in F. Pecorelli, R. Sommella, I veleni di "Op", Kaos Edizioni, 1995
Il 16 marzo 1978, a Roma, le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana. Moro sta recandosi in Parlamento, dove la Camera dei deputati ha in agenda il voto di fiducia al nuovo governo, il primo appoggiato anche dal Pci in trent'anni di storia repubblicana. L'agguato avviene in via Fani: mentre due auto bloccano quella dello statista e della sua scorta, un commando brigatista, in attesa in divisa da pilota sul ciglio della strada, entra in azione uccidendo tutti e cinque i componenti della scorta. Moro viene prelevato dalla sua auto e sequestrato. È un'azione terroristica senza precedenti, anche nell'Italia degli anni di piombo. Cosa ricorda di quei momenti?
L'allarme e la tensione seguiti alla notizia del rapimento. La appresi con una telefonata ricevuta all'Hotel Excelsior. Poco più tardi, l'intera città sembrava impazzita. Impossibile circolare sulle strade, un rincorrersi di voci; c'era chi diceva che Moro fosse stato già ucciso. In realtà era solo l'inizio di un lunghissimo calvario.
Lei conosceva Moro personalmente. Quando lo aveva incontrato per la prima volta?
Nel 1974. Moro era ministro per gli Affari esteri quando andai a presentargli le credenziali di consigliere economico presso l'Ambasciata argentina in Italia. Parlando, Moro mi chiese: «Come fa lei, italiano, a essere un diplomatico argentino?» Io gli avevo ricordato la legge del generale Perón con la quale ero stato inserito nei quadri della diplomazia argentina. Moro conosceva il mio passato. Credo che avesse frequentato a Bari il centro dei corsi di preparazione politica durante il fascismo. «Mi pare che entrambi ci siamo interessati di politica con le spalline blu» gli dissi. E lui confermò, precisando di non aver aderito, però, alla Repubblica sociale.
Poi mi chiese anche un giudizio sull'Argentina: «C'è una dittatura. Lei dovrebbe lavorare per l'Italia, che è una democrazia». Risposi che avevo la doppia nazionalità, che avrei sempre lavorato anche per l'Italia e che non ero certo un dittatore. «Ma, vede» insisteva lui «lei non conosce la democrazia». D'altronde, come dissi anche a lui, non avevo avuto il tempo di studiare sui libri che parlavano di democrazia. «La democrazia» aveva subito continuato «è come una pentola di fagioli, che devono bollire piano piano perché possano cuocere bene». Allora replicai con una battuta: «Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senz'acqua. Altrimenti si bruceranno». Moro aveva scosso la testa: «Lei non è ancora pronto per la democrazia». «Forse perché mi piace l'ordine. Dove c'è gerarchia c'è anche meritocrazia». Ho avuto modo di riparlare con Moro una volta sola, molto brevemente, incontrandolo davanti a una farmacia all'angolo tra piazza Barberini e via Quattro fontane. Mi riconobbe e mi diede la mano, per salutarmi.
Moro, per la sua politica di avvicinamento al Pci, già dal 1976 è inviso agli americani. Lo stesso leader democristiano aveva avuto modo di lamentarsi del trattamento che il segretario di Stato Henry Kissinger gli aveva riservato nel corso della sua ultima visita negli Stati Uniti.
Non piaceva che lavorasse all'idea di compromesso storico. Gli americani erano convinti, perché questo avevano saputo dai loro informatori, che Moro non condividesse più la politica della Democrazia cristiana, che stesse diventando un dissidente all'interno del suo stesso partito, avvicinandosi pericolosamente al Pci. Me lo riferivano personaggi che spesso, più che indicare episodi specifici, usavano particolari espressioni del viso per lasciar intuire tutta la loro disapprovazione per le scelte di Moro. Qualcuno lo definiva cattocomunista.
La prospettiva del compromesso storico immagino preoccupasse anche la P2.
Eravamo convinti che non ci sarebbe mai arrivato. Per più motivi, il primo dei quali era la contrarietà degli americani. E noi, si sa, siamo una loro colonia. Quanto alla P2, era un'armata invisibile, fatta di anticomunisti. Tutti personaggi che ricoprivano posti chiave.
Moro viene rapito la mattina in cui deve essere varato il quarto governo Andreotti, il primo esecutivo sostenuto dal Pci. Pensa che il sequestro fosse finalizzato a bloccare il compromesso storico?
Non so se fosse solo quello. Forse l'avrebbe bloccato. Moro non aveva dietro di sé una struttura organizzata al di là di quelle poche persone di cui poteva fidarsi. Probabilmente, morto lui sarebbero caduti anche i suoi programmi.
Chi c'era dietro il sequestro, secondo lei?
Le Brigate rosse. E loro soltanto.
Nel 1974 i brigatisti avevano rapito il giudice Mario Sossi. L'azione aveva segnato un cambio di marcia da parte dell'organizzazione terroristica. Favorito - si è avanzata questa ipotesi - da un immobilismo dei servizi di sicurezza sollecitato proprio dalla P2, interessata a sfruttare il terrorismo rosso in funzione destabilizzante.
Le Br avevano una grossa forza, ma anche tante protezioni e soprattutto fortuna.
Protezioni da parte di chi?
Di chi in particolare non saprei. Certo colpisce la loro grande capacità di azione e il fatto che riuscissero a operare in un regime di totale segretezza nonostante tutti gli apparati di polizia e di intelligence fossero concentrati su di loro.
Crede anche lei all'ipotesi di un terrorismo eterodiretto?
Eterodiretto no. In quel momento, considerate l'efficienza e l'organizzazione militare delle Brigate rosse, tentare di manovrarle sarebbe stata un'operazione troppo pericolosa. Insisto: le Br hanno avuto soprattutto molta fortuna.
La storia del delitto Moro è intrecciata con quella della P2. Si è a lungo ipotizzato un ruolo della loggia nei 55 giorni del sequestro, concluso con l'uccisione dell'ostaggio. Questo soprattutto per la presenza di uomini della P2 ai vertici dei servizi di sicurezza che conducevano le indagini e dei cosiddetti comitati "per la gestione della crisi" creati al Viminale dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga.
In quel periodo, tutte le persone o quasi avessero alti incarichi nello Stato erano iscritte alla loggia. Non era la P2 a inquinare il Viminale: il comitato tecnico-operativo presieduto da Cossiga era fatto di professionisti qualificatissimi e per questo si era ritrovato composto in buona parte di persone che erano nella loggia. Senza neppure - ne sono certo - sapere l'uno dell'altro, fatta salva qualche piccola eccezione. Spesso risultavano anche in contrasto tra loro. Succedeva anche nella P2, che raggruppava esponenti di partiti diversi: dai democristiani ai socialisti. Avevamo persino un comunista. Uno solo, però: un po' sui generis.
Se buona parte degli uomini che componevano il comitato erano iscritti alla loggia come non sospettare un inquinamento piduista delle indagini sul sequestro?
Nessuno era tenuto a farmi rapporto. Certo mentirei se sostenessi che non chiedevo quali fossero le novità sul caso. Ma nessuno sapeva nulla di rilevante. Posso garantire che anche le persone più in alto brancolavano nel buio.
Quegli uomini, però, l'avranno informata delle ipotesi che si facevano largo come delle strategie tentate per arrivare alla prigione brigatista o alla liberazione, attraverso una trattativa con i terroristi, dell'ostaggio. Lei era il Venerabile.
C'erano molti nostri uomini, è vero. Umberto Federico d'Amato, responsabile dell'Ufficio affari riservati del Viminale, il questore Giovanni Fanelli che lavorava per la stessa struttura. E tra gli esperti ingaggiati da Cossiga anche il prefetto Fernando Guccione e lo psichiatra Franco Ferracuti. Persone validissime. Eppure io non ho saputo mai molto di più di quanto veniva pubblicato dai giornali. Della prigione di Moro, il covo di via Montalcini, sono convinto sia stata utilizzata solo in una fase. È ingenuo pensare che l'ostaggio sia stato tenuto lì tutti e 55 i giorni. Forse gli stessi interrogatori, quelli alla base del Memoriale, si erano tenuti altrove.
Come fa a dirlo?
Questione di logica. I brigatisti dovevano essere molto prudenti. Gravitare troppo tempo su una stessa casa poteva attirare attenzione o sospetti. C'era il rischio che la prigione venisse individuata. È plausibile che avessero provveduto a trasferire l'ostaggio, magari più di una volta. Non era un'impresa impossibile. Bastava narcotizzarlo e nasconderlo in un'auto. Una serie di macchine civetta - anche solo cinque, a distanza di cento metri l'una dall'altra - poteva garantire sicurezza alla manovra. Un solo segnale, in vista di un eventuale posto di blocco, e l'auto con Moro avrebbe preso un'altra direzione.
La P2, lo sappiamo, operava in funzione filoatlantista. Come non ipotizzare che abbia avuto un ruolo anche in questa vicenda? Moro, con la sua politica, stava alterando gli equilibri politici dell'intero scacchiere Mediterraneo.
Nessuno ci chiese di occuparci del caso. Neppure dagli Stati Uniti, dove pure avevo contatti importanti.
C'è poi il giallo dei verbali delle riunioni dei comitati al Viminale, completamente scomparsi. Opportunamente occultati, forse.
Scomparsi? Io credo che non siano mai neppure esistiti.
Ci sono testimonianze che dicono il contrario. Al processo Moro quater è stato fatto il nome del funzionario incaricato di redigere i verbali, il viceprefetto Pelizzi. Anche se tra i dipendenti del ministero dell'Interno non figura nessuno con quel nome. Il funzionario non è mai esistito e così pure i verbali. Perché un organismo statale, di pubblica sicurezza, avrebbe dovuto astenersi dal redigere verbali dei suoi lavori?
Questo non lo so, non era di mia competenza. I componenti del comitato, immagino, erano tutte persone di cui il ministro aveva la massima fiducia e forse le riunioni erano così ristrette che anche un semplice rapporto poteva risultare superfluo.
Cossiga racconta che in quel periodo lei tentò di contattarlo attraverso Ilio Giasolli, un banchiere cattolico che era tra gli iscritti alla loggia ma che l'avrebbe incontrata solo nel 1979, a Palazzo Chigi. In realtà lei mi ha raccontato di una colazione con Cossiga in occasione di una visita dell'ammiraglio Massera in Italia. Quando l'aveva conosciuto?
Credo nel 1977. Dopo gli piaceva offrirmi il cappuccino coi biscotti, al mattino. Facevamo la prima colazione insieme, nel suo ufficio al ministero della Marina. Ricordo che in quel periodo, per almeno due mesi, il suo ufficio era stato trasferito lì perché nella sua sede erano in corso dei lavori di ristrutturazione.
Anche Andreotti la invitava nel suo ufficio?
Anche Andreotti, certo. Mi dava appuntamento alle 8, nel suo studio al terzo piano vicino a Montecitorio. Erano colloqui molto liberi, informali. Anche lui a volte chiedeva qualcosa, magari un piccolo interessamento. In quegli anni tutti chiedevano. Ma era sempre per il bene del Paese.
Un personaggio che lei conosce bene, Pietro Musumeci, dirigente dei servizi segreti, risulta dai processi che avesse un infiltrato nelle Br e che i servizi avessero saputo in anticipo che si stava preparando un agguato al presidente della Dc. Parlò mai con Musumeci di questo particolare? E perché i servizi non intervennero per impedire il sequestro?
Con Musumeci, lo confermo, ero in ottimi rapporti. Ma di quest'infiltrato non mi parlò mai. Certo nel suo lavoro era un professionista molto capace, che ha svolto le sue funzioni con fermezza.
Ciò che la Commissione stragi lamenta è l'impossibilità di risalire all'area di contiguità su cui le Br potevano contare. Ambienti borghesi che le corteggiavano e le proteggevano. Lei che dice, era così?
Mi sembrano fantasie. Le Brigate rosse erano un'organizzazione segreta, imprendibile, basata sulla clandestinità dei suoi componenti. La gente, le famiglie borghesi, avevano paura delle loro azioni.
Si è fatto l'esempio di Marco Donat Cattin, terrorista di Prima Linea, killer del magistrato Alessandrini e figlio del leader democristiano Carlo, artefice del "preambolo". Un tentativo del padre di sottrarlo alla cattura metterà in imbarazzo lo stesso Cossiga. Ho trovato anche un suo appunto a riguardo.
Il caso Donat Cattin dimostra che a volte è in case borghesi che potevano nascere dei terroristi rossi. Ed erano drammi. Attraverso il suo segretario, Carlo Donat Cattin mi pregò, nel periodo in cui era ministro del Commercio e dell'Industria, di presentargli l'editore Angelo Rizzoli: voleva che la stampa non parlasse di suo figlio sempre come di un presunto componente delle Br perché questo aveva effetti devastanti anche sul partito. Ricordo un colloquio di circa tre ore, al termine del quale mi chiese anche se, in caso di arresto di suo figlio, avessi potuto intervenire presso un giudice di Torino che era iscritto alla P2. Anche volendo, non ci sarebbe stato il tempo: due giorni dopo Marco Donat Cattin era già stato arrestato.
19 - Continua
Dagospia 15 Dicembre 2006