MALEDETTO '68 - OPPORTUNISTI, NARCISISTI, PATERNALISTI E SUPPONENTI, I SESSANTOTTINI SONO UNA VERA E PROPRIA CASTA, PERENNEMENTE RIPIEGATA IN UN'INDULGENTE RIEVOCAZIONE DEL PROPRIO PASSATO E COSTITUZIONALMENTE INCAPACE DI AUTOCRITICA E LUCIDITÀ.
Luca Ricolfi per "La Stampa"
Alessandro Bertante, Edmondo Berselli, Cristina Comencini ci offrono tre letture del '68 diversissime fra loro, ma decisamente ragionevoli. Il libro di Bertante ("Contro il '68. La generazione infinita", Agenzia X) è un risentito j'accuse contro la generazione del '68, rimproverata di aver tradito i propri ideali rivoluzionari e di aver tarpato le ali alla generazione successiva, di cui Bertante stesso fa parte.
Opportunisti, narcisisti, nostalgici, paternalisti e supponenti, i sessantottini formerebbero una vera e propria casta, perennemente ripiegata in un'indulgente rievocazione del proprio passato e costituzionalmente incapace di autocritica e lucidità.
Diametralmente opposta la visione di Edmondo Berselli, per cui gli anni '60 - gli spensierati Sixties - sono durati troppo poco, soffocati da quella cappa triste che fu il '68, con tutto il suo seguito di politicizzazione, impegno, odio, lotta armata, terrorismo ("Adulti con riserva. Com'era allegra l'Italia prima del '68", Mondadori).
Insomma per Bertante la generazione del '68 (ma sarebbe forse più esatto dire: quella influente minoranza che «fece» il '68) è colpevole perché si è imborghesita, è andata al potere, controlla i media, e ha finito per inibire tutte le spinte antagoniste delle generazioni successive.
Per Berselli, tutto al contrario, è il '68 a essere colpevole, ma del peccato opposto: quello di aver interrotto, con la politica e l'impegno, una stagione che poteva a lungo e senza traumi essere di emancipazione, benessere e libertà (una tesi, quest'ultima, non incompatibile con la storia delle economie occidentali dopo gli anni '70: Italia, Germania e Francia, ossia i tre paesi con i conflitti più politicizzati e persistenti, sono anche quelli che sono cresciuti di meno).
Fra Berselli (1951) e Bertante (1969) corrono quasi vent'anni, il tempo di una generazione. In mezzo, non solo anagraficamente, il romanzo di Cristina Comencini "L'illusione del bene" (Feltrinelli), una riflessione drammatica e profonda sulle vere domande che la generazione del '68 si ostina a non porsi: perché tanti di noi hanno simpatizzato per il comunismo? Perché l'hanno fatto così a lungo? Perché non hanno voluto vedere l'orrore di quei regimi? Perché non hanno mosso un dito quando i custodi del «bene» uccidevano milioni di persone? Perché nelle nostre menti non scatta alcuna vera solidarietà, non si impone alcun «dovere della memoria», per le tante vittime innocenti dei regimi che nella nostra gioventù abbiamo esaltato?
E soprattutto la domanda delle domande: perché, anche dopo la caduta del muro di Berlino, quei lunghi anni di cecità e di astensione non sono sentiti con vergogna? Il romanzo, essendo un romanzo, non dà né vuole dare una risposta esaustiva a queste domande, che diventano invece il motore della vicenda del protagonista, il quasi sessantenne Mario, un uomo che ha vissuto la stagione dell'impegno ma non si è sbrigativamente autoassolto quando gli errori e le cecità di quegli anni sono divenute evidenti a tutti.
Ci sono, però, altri due libri recenti, uno di Paul Berman sulla generazione del '68, l'altro di Mirella Serri sugli intellettuali che passarono dal fascismo all'antifascismo, che letti insieme forse ci forniscono qualche elemento in più per capire la curiosa traiettoria della generazione che «ha fatto il '68».
Scrive Paul Berman, in un libro tradotto in italiano l'anno scorso ma scritto in realtà a metà degli anni '90 ("Sessantotto. La generazione delle due utopie"): «La generazione del 1968 ha finito per passare attraverso due diverse esperienze utopiche. La prima è stata l'esperienza di sinistra della gioventù, la seconda quella liberale della maturità negli anni successivi al 1989».
Secondo questa (generosa) visione non vi sarebbe alcuna vera rottura fra gli ideali libertari di gioventù, che quarant'anni fa inducevano ad opporsi al capitalismo e alla guerra in Vietnam, e le idee liberali della maturità, che oggi inducono a lodare il mercato e persino - ironia della storia - a fornire un sostegno etico alle «guerre umanitarie» dell'ex nemico americano.
Nell'un caso e nell'altro, si tratterebbe dell'eterna lotta contro l'autoritarismo e il fascismo, ieri quello storico o le sue sopravvivenze, oggi quello impersonato dalle dittature e dal radicalismo islamico. La generazione del Sessantotto, insomma, cambierebbe i suoi bersagli ma non la sua vocazione utopica. Ieri odiava l'imperialismo e si infervorava per il socialismo, oggi si indigna per la violazione dei diritti umani e sogna di esportare la libertà. Scrive Berman, parlando della propria generazione, che «noi siamo stati rivoluzionari due volte».
Già, dice proprio così, proprio come Mirella Serri nel suo bellissimo libro sugli intellettuali che vissero due volte, la prima cantando le lodi del regime fascista, la seconda divenendone i più severi critici, il tutto - e qui sta il punto - senza mai fare davvero i conti con il proprio passato ("I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948", Corbaccio).
Ma allora, forse, il passaggio dall'impegno del 1968 a quello del 1989, dall'anticapitalismo al fondamentalismo dei diritti umani, è anche - almeno in Italia - una stanca replica, trent'anni dopo, della conversione di massa degli intellettuali italiani dal fascismo all'antifascismo, avvenuta fra il 1938 e il 1948.
E se questo nuovo passaggio si è consumato - e ancora si sta consumando - con tanta spensierata leggerezza, non è solo perché il trasformismo è da sempre un tratto distintivo del carattere nazionale, ma perché tutti, in Italia come altrove, stentiamo a far nostra la lezione di Isaiah Berlin, mirabilmente resa nel romanzo di Cristina Comencini: è dalla pretesa di mettere in atto un'utopia, di imporre alle persone concrete di vivere secondo un'idea astratta, che si originano le maggiori tragedie della storia.
In questo senso, "L'illusione del bene" è anche una chiave per leggere la generazione del '68 e la sua singolare parabola. Quell'illusione ci ha impedito di vedere per tempo il male che in nome del bene veniva inesorabilmente compiuto, quell'illusione ci ha fatti sentire troppe volte «i migliori», quell'illusione ci espone oggi al rischio di non scorgere il male che potremmo ancora fare. Quell'illusione, soprattutto, esonera noi e solo noi dal dovere della memoria.
Dagospia 07 Novembre 2007
Alessandro Bertante, Edmondo Berselli, Cristina Comencini ci offrono tre letture del '68 diversissime fra loro, ma decisamente ragionevoli. Il libro di Bertante ("Contro il '68. La generazione infinita", Agenzia X) è un risentito j'accuse contro la generazione del '68, rimproverata di aver tradito i propri ideali rivoluzionari e di aver tarpato le ali alla generazione successiva, di cui Bertante stesso fa parte.
Opportunisti, narcisisti, nostalgici, paternalisti e supponenti, i sessantottini formerebbero una vera e propria casta, perennemente ripiegata in un'indulgente rievocazione del proprio passato e costituzionalmente incapace di autocritica e lucidità.
Diametralmente opposta la visione di Edmondo Berselli, per cui gli anni '60 - gli spensierati Sixties - sono durati troppo poco, soffocati da quella cappa triste che fu il '68, con tutto il suo seguito di politicizzazione, impegno, odio, lotta armata, terrorismo ("Adulti con riserva. Com'era allegra l'Italia prima del '68", Mondadori).
Insomma per Bertante la generazione del '68 (ma sarebbe forse più esatto dire: quella influente minoranza che «fece» il '68) è colpevole perché si è imborghesita, è andata al potere, controlla i media, e ha finito per inibire tutte le spinte antagoniste delle generazioni successive.
Per Berselli, tutto al contrario, è il '68 a essere colpevole, ma del peccato opposto: quello di aver interrotto, con la politica e l'impegno, una stagione che poteva a lungo e senza traumi essere di emancipazione, benessere e libertà (una tesi, quest'ultima, non incompatibile con la storia delle economie occidentali dopo gli anni '70: Italia, Germania e Francia, ossia i tre paesi con i conflitti più politicizzati e persistenti, sono anche quelli che sono cresciuti di meno).
Fra Berselli (1951) e Bertante (1969) corrono quasi vent'anni, il tempo di una generazione. In mezzo, non solo anagraficamente, il romanzo di Cristina Comencini "L'illusione del bene" (Feltrinelli), una riflessione drammatica e profonda sulle vere domande che la generazione del '68 si ostina a non porsi: perché tanti di noi hanno simpatizzato per il comunismo? Perché l'hanno fatto così a lungo? Perché non hanno voluto vedere l'orrore di quei regimi? Perché non hanno mosso un dito quando i custodi del «bene» uccidevano milioni di persone? Perché nelle nostre menti non scatta alcuna vera solidarietà, non si impone alcun «dovere della memoria», per le tante vittime innocenti dei regimi che nella nostra gioventù abbiamo esaltato?
E soprattutto la domanda delle domande: perché, anche dopo la caduta del muro di Berlino, quei lunghi anni di cecità e di astensione non sono sentiti con vergogna? Il romanzo, essendo un romanzo, non dà né vuole dare una risposta esaustiva a queste domande, che diventano invece il motore della vicenda del protagonista, il quasi sessantenne Mario, un uomo che ha vissuto la stagione dell'impegno ma non si è sbrigativamente autoassolto quando gli errori e le cecità di quegli anni sono divenute evidenti a tutti.
Ci sono, però, altri due libri recenti, uno di Paul Berman sulla generazione del '68, l'altro di Mirella Serri sugli intellettuali che passarono dal fascismo all'antifascismo, che letti insieme forse ci forniscono qualche elemento in più per capire la curiosa traiettoria della generazione che «ha fatto il '68».
Scrive Paul Berman, in un libro tradotto in italiano l'anno scorso ma scritto in realtà a metà degli anni '90 ("Sessantotto. La generazione delle due utopie"): «La generazione del 1968 ha finito per passare attraverso due diverse esperienze utopiche. La prima è stata l'esperienza di sinistra della gioventù, la seconda quella liberale della maturità negli anni successivi al 1989».
Secondo questa (generosa) visione non vi sarebbe alcuna vera rottura fra gli ideali libertari di gioventù, che quarant'anni fa inducevano ad opporsi al capitalismo e alla guerra in Vietnam, e le idee liberali della maturità, che oggi inducono a lodare il mercato e persino - ironia della storia - a fornire un sostegno etico alle «guerre umanitarie» dell'ex nemico americano.
Nell'un caso e nell'altro, si tratterebbe dell'eterna lotta contro l'autoritarismo e il fascismo, ieri quello storico o le sue sopravvivenze, oggi quello impersonato dalle dittature e dal radicalismo islamico. La generazione del Sessantotto, insomma, cambierebbe i suoi bersagli ma non la sua vocazione utopica. Ieri odiava l'imperialismo e si infervorava per il socialismo, oggi si indigna per la violazione dei diritti umani e sogna di esportare la libertà. Scrive Berman, parlando della propria generazione, che «noi siamo stati rivoluzionari due volte».
Già, dice proprio così, proprio come Mirella Serri nel suo bellissimo libro sugli intellettuali che vissero due volte, la prima cantando le lodi del regime fascista, la seconda divenendone i più severi critici, il tutto - e qui sta il punto - senza mai fare davvero i conti con il proprio passato ("I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948", Corbaccio).
Ma allora, forse, il passaggio dall'impegno del 1968 a quello del 1989, dall'anticapitalismo al fondamentalismo dei diritti umani, è anche - almeno in Italia - una stanca replica, trent'anni dopo, della conversione di massa degli intellettuali italiani dal fascismo all'antifascismo, avvenuta fra il 1938 e il 1948.
E se questo nuovo passaggio si è consumato - e ancora si sta consumando - con tanta spensierata leggerezza, non è solo perché il trasformismo è da sempre un tratto distintivo del carattere nazionale, ma perché tutti, in Italia come altrove, stentiamo a far nostra la lezione di Isaiah Berlin, mirabilmente resa nel romanzo di Cristina Comencini: è dalla pretesa di mettere in atto un'utopia, di imporre alle persone concrete di vivere secondo un'idea astratta, che si originano le maggiori tragedie della storia.
In questo senso, "L'illusione del bene" è anche una chiave per leggere la generazione del '68 e la sua singolare parabola. Quell'illusione ci ha impedito di vedere per tempo il male che in nome del bene veniva inesorabilmente compiuto, quell'illusione ci ha fatti sentire troppe volte «i migliori», quell'illusione ci espone oggi al rischio di non scorgere il male che potremmo ancora fare. Quell'illusione, soprattutto, esonera noi e solo noi dal dovere della memoria.
Dagospia 07 Novembre 2007