CDP, CASSA DEPOSITI DI PECHINO – LA PARTECIPAZIONE, CON IL 35%, DEL COLOSSO CINESE “STATE GRID OF CHINA” IN CDP RETI (CHE CONTROLLA SNAM, TERNA E ITALGAS) FINISCE NEL MIRINO DELL’EUROPA - IL GOVERNO TEDESCO HA GIÀ BOCCIATO L’INGRESSO DI SNAM IN GERMANIA, PROPRIO PER LA PRESENZA DEI CINESI NEL CAPITALE - E CON IL VARO DEL NUOVO GOLDEN POWER EUROPEO, GLI INVESTIMENTI DI PECHINO NELL'UE SARANNO LIMITATI O OSTACOLATI: D'ALTRONDE SAREBBE ORA DI FARLA FINITA CON PECHINO CHE RUBA IL KNOW HOW DELLE NOSTRO AZIENDE E POI LO SFRUTTA PER DOMINARE IL MERCATO, COME ACCADUTO NELL'AUTOMOTIVE, E INCULARCI DI SPONDA – CHE FARA' IL GOVERNO MELONI? LA SOLUZIONE SOFT E' ASPETTARE LA SCADENZA DEL PATTO TRIENNALE CON LA CINA, NEL 2026, E ACCOMPAGNARE "STATE GRID" ALL'USCITA. MA IL RISCHIO È UNA RITORSIONE DI XI JINPING…
Estratto dell’articolo di Alessandro Barbera per “La Stampa”
[...] Non sono passati nemmeno dieci anni da quando - correva il 2017 - Xi Jinping si presentava al vertice di Davos come alfiere della globalizzazione. Erano i tempi in cui l'economia tedesca cresceva grazie all'interscambio con Pechino. Ora l'aria è cambiata, e l'Unione prepara un pacchetto di norme senza precedenti.
[…] «Noi europei siamo un po' naif. Non è possibile che si aprano stabilimenti in Europa per assemblare auto cinesi con componenti cinesi e personale cinese», diceva a questo giornale un mese fa il commissario all'Industria francese Stephane Sejorné.
E così l'Europa ha deciso di reagire: a Bruxelles stanno preparando un pacchetto di norme […] per rafforzare i controlli sulle acquisizioni già introdotti nel 2019, una sorta di grande Golden power europea: gli investimenti stranieri saranno autorizzati se creeranno lavoro e dimostreranno di poter rafforzare le catene del valore europee.
Dunque cosa accadrà quando il pacchetto si tramuterà in azione concreta negli ordinamenti nazionali? Cosa ne sarà ad esempio della presenza in Italia di State Greed of China, azionista al 35 per cento di Cdp reti, la holding di controllo di Terna, Snam e Italgas?
CDP-Reti State grid: Bassanini firma Renzi gioisce
«Il mondo è cambiato, e la Cina non è più quella di allora», sospira Franco Bassanini, due volte ministro, sottosegretario nel governo D'Alema e già presidente di Cassa depositi e prestiti. Nemmeno la Germania è la stessa: è stato il governo Merz a bocciare l'ingresso di Snam nella rete tedesca proprio per la presenza dei cinesi nel suo capitale.
C'era Bassanini alla guida della cassaforte delle partecipazioni pubbliche quando nel 2012 il governo Monti gli chiese di acquisire alcune delle quote di tre aziende allora in mano al Tesoro: Sace, Simest e Fintecna.
Erano i tempi in cui bisognava dimostrare ai mercati che l'Italia poteva dotarsi di uno Stato più leggero, e benché si trattasse di un artificio contabile i vertici di Cassa presero impegni per dieci miliardi.
Il risultato fu però paradossale: la vigilanza della Banca d'Italia contestò a Cdp il mancato rispetto dei requisiti minimi patrimoniali. «Facemmo diverse operazioni per aggiustare i conti, ma mancavano ancora due miliardi», racconta oggi l'ex presidente. E così si decise di cercare un socio internazionale.
«Si fecero avanti in tanti, fra cui gli australiani di Macquarie, l'offerta migliore ci arrivò da Pechino». Poco più di due miliardi per un investimento che oggi ne vale più di cinque.
La parte più interessante della storia è nelle ragioni che spinsero Pechino a comprare: «I vertici di State Grid ci dissero di sapere che l'autorità di regolazione italiana era eccellente, ma di averlo fatto anche su spinta delle autorità politiche con un obiettivo di lungo periodo, quello di coltivare buoni rapporti con le principali cancellerie europee in vista della riforma del sistema monetario internazionale».
Erano gli ultimi mesi di Hu Jintao, già allora Pechino sapeva che lo strapotere del dollaro sarebbe finito.
I vertici del Partito comunista non hanno però previsto Donald Trump e la sveglia imposta all'Unione. La stretta sugli investimenti cinesi nasce dal timore di permettere a Pechino di fare suo il miglior know how delle aziende europee, molto indietro nelle tecnologie di domani.
Lo ricordava Mario Draghi a settembre: lo scorso anno gli Stati Uniti hanno prodotto quaranta grandi modelli di base per l'intelligenza artificiale, la Cina quindici, l'Unione europea solo tre. E dunque quello della presenza cinese nelle aziende strategiche è diventata ormai una ossessione.
A Palazzo Chigi e al Tesoro stanno valutando il da farsi, anche se liberarsi di un azionista scomodo ma corretto - lo sono da undici anni - non è semplice. Non si può esercitare una generica Golden power, soprattutto se il destinatario è un'azienda con un solo consigliere di amministrazione in ciascuna delle tre società, seppure con un sostanziale diritto di veto sulle operazioni straordinarie, vista l'entità della quota a disposizione.
Spiega una fonte governativa che chiede di non essere citata: «L'unica soluzione passa dalla scadenza fra meno di un anno del patto triennale fra i due governi». Non è ancora chiaro se questo significherà un divorzio, o la firma di un nuovo patto a condizioni diverse. Di certo siamo a un capolinea della storia: l'anno scorso gli investimenti cinesi in Italia sono crollati a 32 milioni di euro, un quinto di quanto accadeva nel 2022.








