DRAGHI INIETTA FIDUCIA CON LE CHIACCHIERE, BERNANKE CON SOLDI FINTI - LE BORSE SE LI BEVONO, MA LA CRESCITA VERA È UN MIRAGGIO

Alessandro Penati per "la Repubblica"

La politica economica è diventata una questione di comunicazione. La Fed ha creato un'aspettativa continua di quantitative easing, con l'obiettivo di iniettare fiducia; la Borsa, più sensibile agli umori, sale, creando un effetto ricchezza; la gente, sentendosi più ricca dovrebbe consumare di più e le imprese tornare a investire. Ma se Wall Street ha messo a segno una forte crescita, credito, consumo e investimenti languono.

La Fed ha fatto però proseliti. Per mettere fine al "ventennio perduto", Abe ha annunciato una rivoluzione della politica economica giapponese, mandando il Nikkei alle stelle; anche se per ora si è vista solo una svalutazione dello Yen vecchio stile; e la Borsa ha ricominciato a oscillare.

Anche Draghi ha sposato l'approccio mediatico. Prima con l'annuncio degli acquisti sul mercato di titoli di Stato per difendere l'euro "a qualunque costo" (anche se non ha mai specificato quando e come interverrebbe): una sfida al mercato a "vedere" le carte; il mercato ha passato; Draghi ha vinto la mano e lo spread è sceso. Adesso rilancia con "la ripresa è dietro l'angolo", lasciando a Saccomanni l'onore dell'anticipazione.

Lo scopo è convincere che se la crescita è alle porte, la crisi è finita, il debito pubblico diventa sostenibile, il rischio paese e lo spread spariscono, e la riduzione dei tassi rilancia credito, consumi e investimenti.

Se la ripresa è dietro l'angolo, l'angolo però non si vede. Il credito è un indicatore sensibile al ciclo economico. Ma il credito non si sta espandendo, e addirittura continua a contrarsi (-2% alle imprese dell'Eurozona a giugno, -4% in Italia). È la stessa politica della Bce ad aggravare il problema: la Fed ha acquistato attività finanziarie sul mercato, prevalentemente dalle famiglie, iniettando moneta direttamente nel settore privato; la Bce lo ha fatto in quantità analoga alla Fed (tolto oro e valute, 19% del Pil, rispetto al 21% della Fed), ma dalle banche.

E' uno scambio di attività col sistema bancario, che lo tiene artificialmente a galla. In Italia, prima di parlare di ripresa, bisognerebbe capire come le banche rimborseranno 250 miliardi alla Bce a fine 2014 e quando cominceranno a collocare sul mercato i 400 miliardi di titoli di Stato in portafoglio.

È vero che molti indicatori ciclici e di fiducia sono migliorati. Ma gran parte di questi non hanno valore previsivo: forniscono la rappresentazione di uno stato, confrontato con quello immediatamente precedente. Le imprese hanno tagliato gli investimenti e le famiglie i consumi per adeguarsi alle peggiori prospettive. Il fatto che abbiano rallentato o smesso di tagliare è un miglioramento, ma non implica che domani staremo meglio. Infatti gli utili attesi delle imprese europee vengono continuamente rivisti al ribasso. E mentre Draghi annuncia la ripresa, la stessa Bce ha appena ridotto le stime per l'Eurozona sia per quest'anno, che il prossimo (a un misero 0,9%).

Compiacersi perché abbiamo rallentato la caduta, o l'abbiamo fermata, ma rimaniamo a terra, pur sopravvissuti allo schianto, significa aver perso di vista il problema: l'Europa ha subìto contemporaneamente il peggior episodio di doppia recessione e il più lungo periodo di contrazione visti nel dopoguerra. Non se ne esce con la politica degli annunci. Come negli altri casi, mi sembra rivolta a condizionare i mercati; ma che crea soltanto l'illusione di poter risolvere i problemi economici sottostanti.

Se anche arrivasse la crescita in Italia, non si trasformerebbe in benessere diffuso ancora per anni. La crisi del debito italiano (di Stato e banche) è una crisi del debito collocato all'estero negli anni dell'euro: gli stranieri non ne vogliono di nuovo, né vogliono rifinanziare il vecchio. Così l'Italia deve accumulare avanzi delle partire correnti per esportare il risparmio necessario a riassorbirlo. E poiché non può svalutare, deve tirare la cinghia, ovvero vendere all'estero il più possibile di quanto produce.

L'Italia ha raggiunto il pareggio della partite correnti non grazie alle esportazioni, piatte nel primo trimestre, ma a una caduta media del 7% delle importazioni in sei trimestri consecutivi. Il Pil potrà anche crescere grazie alle esportazioni, ma dato l'avanzo con l'estero che bisognerà accumulare e mantenere è illusorio pensare si traduca in una decisa inversione dei consumi e degli investimenti in un futuro ragionevolmente prossimo.

 

 

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