UNO SCHIAFFO AL DIO DOLLARO - IL QUASI-DEFAULT HA COLPITO LA CREDIBILITÀ DEL BIGLIETTONE - QUANDO I PAESEI EMERGENTI SCOPRIRANNO IL VERO VALORE DEL VERDONE ARRIVERA’ LA FINE DELL’IMPERO

Francesco Guerrera per "La Stampa"

Il caos del governo Usa ha spuntato il Black & Decker. Dopo più di due settimane di chiusura forzata di Washington, la Stanley Black & Decker, che produce i famosi trapani, ma anche sistemi di sicurezza per ministeri e uffici, ha sorpreso i mercati con la rivelazione che gli utili nei prossimi tre mesi saranno in calo.

I problemi della B&D, sono un piccolo esempio dei danni fatti da sedici giorni di «shutdown», la paralisi federale. Mentre il Congresso e l'Amministrazione si facevano sberleffi e rifiutavano di negoziare un aumento del budget governativo, l'economia reale soffriva.

Come i patiti del bricolage - con i loro Black & Decker appuntiti - sanno benissimo, bisogna fare attenzione a dove si buca un muro per evitare fili della corrente e tubi. Il presidente Obama e i suoi interlocutori congressuali, in particolare i duri della destra che dominano il partito repubblicano, hanno fatto un buco enorme nella credibilità politica e finanziaria dell'unica superpotenza mondiale.

Non hanno provocato l'elettrochoc dell'inadempienza del debito, ma hanno sicuramente perforato il tubo che ha alimentato la supremazia planetaria dell'America negli ultimi decenni: la certezza che lo Zio Sam paga i suoi debiti sempre e comunque.

Le regole dei mercati non sono scritte ma sono chiare: si può scommettere su tutto ma non sull'integrità del dollaro e dei buoni del Tesoro made-in-Usa. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'economia, i mercati e il commercio globale sono radicati nella convinzione che le obbligazioni e le banconote americane non si possano mettere in discussione.

Il teatrino sciatto e deprimente della politica Usa delle ultime settimane ha avuto l'esito opposto. Per la seconda volta in tre anni, l'economia più grande del pianeta è stata sull'orlo del «default», l'inadempienza.

Il fatto che democratici, repubblicani e la Casa Bianca abbiano trovato un accordo a pochi minuti dalla rovina non ha fatto altro che evidenziare l'enormità del pericolo corso. E' vero che i mercati avevano sempre sperato nell'accordo dell'ultima ora e sono stati abbastanza tranquilli durante i sedici giorni di follia washingtoniana. Ma è anche vero che banche, investitori, società e gente comune si sono dovute preparare al peggio, spendendo soldi ed energie per far fronte all'eventualità di un macello sociale ed economico causato dal default.

«I politici pensano che sia un gioco in cui qualcuno vince e qualcuno perde», mi ha detto un capo di Wall Street dopo essere andato ad incontrare Obama un paio di settimane fa. «Non sembrano capire che se c'è il default, qui perdiamo tutti. E di brutto pure».

In realtà, l'America ha già perso. Due settimane di shutdown di fronte alle sopracciglia alzate del resto del mondo non si dimenticano facilmente. Il parco di Yellowstone ha riaperto e la Statua delle Libertà non è più off-limits ai turisti, ma i danni creati dal malfunzionamento di Washington non sono facilmente riparabili.

I pericoli sono a breve e a lungo termine. A breve, c'è il rischio di un' altra riduzione nel rating degli Stati Uniti. Nel 2011, dopo un altro autogol sul budget, fu la Standard & Poor's a decidere che il debito degli Stati Uniti non meritava più il rango più alto della triplice A. La settimana scorsa, è stata la Fitch a dire che se la situazione non migliora, arriverà la punizione. Un «downgrade» della Fitch sarebbe pesante perché molti fondi pensioni non possono comprare debito che non è considerato tripla A da due delle tre agenzie principali di rating.

Ma il rischio più grave è più distante. Dal dopoguerra, il dollaro è la moneta più importante del mondo, la «riserva» di valore per investitori e governi. E' uno status fondamentale che permette all'America di dominare la finanza mondiale e di vendere sempre più debito a creditori internazionali affamati di dollari quali la Cina e il Giappone.

La vecchia definizione di Valéry Giscard d'Estaing, coniata negli Anni Sessanta quando era ministro delle Finanze, è ancora valida: il ruolo del dollaro conferisce agli Stati Uniti «un privilegio esorbitante» nei confronti del resto del mondo. Esorbitante ma non eterno. Nel corso della storia molte altre divise sono passate da moneta-guida al gruppo dei gregari, accelerando il tramonto delle proprie nazioni: basta pensare alla dracma della Grecia antica, il denarius romano, il dinar arabo, il fiorino di Firenze e la sterlina di quando la Gran Bretagna era grande.

Per ora, la questione non si pone. Due-terzi delle riserve di valuta mondiali sono in dollari e più o meno metà del commercio internazionale utilizza la moneta americana. I possibili rivali non stanno tanto bene: l'euro è manomesso, la sterlina passè, lo yuan non convertibile. Ma la fiducia dei mercati non si può mai dare per scontata e non è impossibile pensare che altre danze macabre del Congresso sulla soglia del precipizio fiscale possano far spaventare gli investitori.

Non è un caso che alcuni pretendenti al trono del dollaro si stiano già muovendo. L'agenzia di stampa cinese Xinhua non ha nascosto le ambizioni di Pechino. «E' forse venuto il momento che il pianeta, confuso da Washington, incominci a costruire un mondo de-americanizzato», ha scritto la settimana scorsa a commento dei bisticci nella capitale Usa. Un ammonimento importante visto che il governo cinese ha miliardi e miliardi di beni del tesoro americano.

C'è chi, negli Usa, pensa che non sarebbe male se il dollaro perdesse il suo ruolo di ancora dell'economia mondiale. E' un ragionamento analogo a quello che sostiene che gli Stati Uniti non possano più permettersi di essere il poliziotto del mondo.
Ma è un ragionamento molto pericoloso, sia per l'America che per l'economia globale. Un mondo senza ancore è un mondo alla deriva o in balia delle correnti.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York: francesco.guerrera@wsj.com. Su Twitter:@guerreraf72.

 

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