SABAUDIA, INDIA – SCHIAVITU’ CONTEMPORANEA: 30MILA INDIANI SIKH PIEGATI A RACCOGLIERE ZUCCHINE E POMODORI PER 15 ORE AL GIORNO NELL’AGRO PONTINO, COSTRETTI A IMBOTTIRSI DI METANFETAMINA PER LAVORARE

Goffredo Buccini per "Il Corriere della Sera"

Le pupille sono due spille nere sotto il turbante arancione. La lingua è quell'esperanto da naufraghi della vita buono a qualsiasi latitudine. Le storie si rassomigliano tutte: «Amigo , quindici ore al giorno raccolgo zucchine e cocomeri, anche domenica, piegato in due: occhi bruciano, schiena urla. Sette, otto anni così. Io omo di carne, no ferro. Allora prendo piccola sostanza, quando pausa da lavoro: una, due volte. E schiena bene, occhi bene».

La davano ai kamikaze giapponesi, la danno ai cavalli da corsa. Qui la prendono i nuovi schiavi. La «piccola sostanza» è la metanfetamina, spintarella magica che fa scordare la fatica ma alla lunga mangia l'anima; l'alternano col bhukki , il bulbo di papavero in polvere, bevuto col chai : sospende il dolore, avvolge il cervello. Nelle terre che furono palude e adesso sono la retrovia contadina di spiagge e ville per romani ancora benestanti e russi spendaccioni, è questa la droga dei sikh, gli ultimi degli ultimi.

Trent'anni fa sono immigrati dal Punjab i primi indiani miti e sorridenti, si sono tirati appresso parenti e amici, e pian piano ci hanno rimpiazzato nei compiti più ingrati, quelli da paria del mondo dei consumi che a noi facevano schifo. Inginocchiati tra le zolle, col sole che cuoce la nuca. Tre euro l'ora, spesso in nero, quando la paga c'è. Diritti zero. Molti chiamano «padrone» il datore di lavoro e prima di parlargli fanno due passi indietro chinando il capo.

Sono trentamila nell'Agro Pontino, ottomila solo a Sabaudia. Sudano, pregano, amano e muoiono sotto il nostro naso, e di loro, fino a pochi anni fa, non è mai importato un accidente a nessuno. Alle sette della sera, quando anche il padrone più infame li lascia liberi, li vediamo pedalare lungo la Litoranea, sfiorati pericolosamente dalle macchine, tra San Felice e Borgo Grappa, in mezzo al Parco del Circeo, fino all'ex residence Bella Farnia e a stambugi che dividono coi connazionali, dove stravolti guardano Sikh Channel , sfogliano riviste sikh, sognano ritorni in patria e dive bollywoodiane ad attenderli. Fino a pochi anni fa, un mondo a parte.

«Per sopravvivere ai ritmi massacranti e produrre di più sono costretti a doparsi. Se ne vergognano, perché la loro religione lo vieta. Ma per molti è l'unico modo per sopravvivere», racconta Marco Omizzolo, giovane sociologo di Sabaudia, responsabile scientifico della onlus In Migrazione che ha raccolto decine di racconti dei lavoratori sikh tra Sabaudia, San Felice e Terracina e ha deciso di rendere pubblico il caso.

Omizzolo, che è anche presidente provinciale di Legambiente , è il primo ad avere rotto il silenzio sui sikh: per narrarne l'epopea, in un saggio documentatissimo, nel 2009 ha lavorato due mesi nei campi con loro e vissuto sei mesi in Punjab. Cinque anni dopo, la fiducia della comunità ha prodotto queste testimonianze, per ovvie ragioni di sicurezza coperte da iniziali nel dossier. K.: «Alcuni indiani pagano per piccola sostanza, per non sentire dolore a braccia, gambe, schiena».

La tariffa è di circa dieci euro a grammo. N.: «Non è droga vera come prendono italiani, è contro dolore». Il bukkhi costa circa il doppio. H.: «Amici comprano da italiani, mettono in acqua calda e prendono come the. Si può anche mangiare ma fa più male». Le prime soffiate sono venute proprio da queste campagne, la Procura di Latina è stata informata e a fine gennaio la Finanza della brigata di Sabaudia ha sequestrato 300 grammi di metanfetamina e sei chili di bulbi di papavero bloccando due giovani sikh su un furgone di frutta e verdura (stessa roba scoperta dai carabinieri tre mesi dopo a lavoratori cinesi e vietnamiti di Reggio Emilia: il doping dei nuovi schiavi d'Italia si va diffondendo in fretta).

Dice J. Singh: «Contento che carabinieri pigliano indiani con droga». Molti sikh evitano di parlare in prima persona e si rifugiano dietro il racconto di «amici» che «prendono droga mattina e poi pomeriggio per lavorare tanto e poi però stanno troppo male».

In verità qualcosa sta cambiando attorno al nucleo storico della comunità. Alcuni sikh cominciano a diventare meno invisibili, il sacrificio della prima generazione sta dando frutti: solo a Sabaudia hanno aperto una mezza dozzina di negozi e alimentari, per la prima volta sono concorrenti degli italiani, i loro figli vanno a scuola. Qualcuno si perde, qualcuno entra nel circuito dello spaccio, porta la droga ai connazionali.

Ma l'iniziativa della onlus serve anche a contrastare l'idea rozza di «indiani tutti spacciatori» che va diffondendosi. Maurizio Lucci, sindaco rieletto un anno fa con una lista civica di destra, usa parole molto più caute: «Negli ultimi quattro, cinque mesi sta passando tra loro questa droga derivata dal papavero, ci sono stati diversi sequestri. È la prima volta che abbiamo questo problema e mi fa un po' paura, perché la loro è una comunità forte, sono obbligato ad accoglierli».

Obbligato? Non pare contento. «Ma è perché attorno a loro c'è lo sfruttamento, si crea un problema sociale. Lo so che prendono le metanfetamine, so che sono vittime. Ma noi stiamo per riaprire la stagione turistica, sta tornando la bella gente. Questa è Sabaudia, lo capisce?».

È Sabaudia anche via Ayrton Senna, periferia di centri commerciali dove a inizio estate si comprano ombrelloni e panche da giardino a buon prezzo. Qui si consuma la battaglia sul Gurudwara , il nuovo tempio. «Avevano il permesso per un laboratorio di dolci, perciò gliel'abbiamo bloccato», spiega Lucci.

Un consigliere della destra, Piero Giuliani, era andato a scattare foto per provare «l'abuso degli indiani». Lui dice d'essere stato aggredito, loro che provocava, di fatto è stato costretto a scappare. Scaramucce incomprensibili per i «sikh originali», della prima ondata: che ancora pedalano, ogni sera, sulla Litoranea. Come trent'anni fa, quasi invisibili. Solo, più stanchi.

 

 

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