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1. IL RE DELLA DROGA JOAQUÍN EL CHAPO GUZMÁN, ALIAS “IL NUOVO AL CAPONE”, BOSS DEL CARTELLO DI SINALOA, È EVASO DI NUOVO. E HA BEFFATO L’INTELLIGENCE E LE FORZE DI MASSIMA SICUREZZA MESSICANE CHE DOVEVANO TENERLO D’OCCHIO 24 ORE SU 24 2. ''EL CHAPO'' È RIUSCITO A FUGGIRE CALANDOSI IN UN BUCO PROFONDO DIECI METRI, CON TANTO DI SCALA, CHE DAL PIANO DOCCIA LO HA PORTATO DRITTO DRITTO IN UN TUNNEL

1. IL MESSICO SI LASCIA SCAPPARE IL RE DEI NARCOS

Paolo Manzo per “la Stampa”

 

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Il re della droga Joaquín el Chapo Guzmán, alias «il nuovo Al Capone», boss del cartello di Sinaloa, è evaso di nuovo. E ha beffato l’intelligence e le forze di massima sicurezza messicane che dovevano tenerlo d’occhio 24 ore su 24. Sabato sera, poco prima delle 21, ha detto che andava a farsi una doccia, poi è sparito. Nessuna delle diciotto guardie carcerarie che dovevano «guardarlo a vista» si è accorto che in realtà se n’era andato in tutta tranquillità dal carcere di massima sicurezza di Altiplano, in cui era rinchiuso da oltre un anno. 

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«El Chapo» è riuscito a fuggire calandosi in un buco profondo dieci metri, con tanto di scala, che dal piano doccia lo ha portato dritto dritto in un tunnel ipertecnologico lungo un chilometro e mezzo con illuminazione interna, ventilatori per consentire all’aria di circolare, scale e persino bombole d’ossigeno, ritrovate solo nella notte tra sabato e domenica dalle forze di sicurezza messicane.

 

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L’uscita del tunnel in una casa poco lontana dalla prigione - a meno di 100 chilometri da Città del Messico - ha garantito a «El Chapo» la fuga senza problemi e, nonostante in queste ore in Messico sia stata lanciata una caccia all’uomo senza precedenti, con tanto di aeroporti chiusi, di lui si sono perse le tracce. Fermati invece per «chiarimenti» i 18 secondini che ora dovranno spiegare come abbiano fatto a non accorgersi di nulla.

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Galleria tecnologica
Questa fuga degna dell’illusionista americano Houdini non è però una novità. Guzmán era già scappato da un altro supercarcere nel 2001 corrompendo alcune guardie carcerarie e nascondendosi tra le lenzuola sporche nel retro del pulmino della lavanderia della prigione. Sabato notte il narcos che a metà degli Anni 90 fondò con «El Mayo» Zambada il cartello di Sinaloa ha concesso il bis.

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Nel suo feudo - quello di Sinaloa appunto, dove lo scorso anno, quando venne arrestato, scesero in piazza in migliaia per chiederne il rilascio - Guzmán è considerato un eroe, proprio come Pablo Escobar lo era a Medellín, importante città della Colombia, il paese di cui si era detto disposto a coprire l’intero debito pubblico. È probabile che oggi «El Chapo» abbia la stessa disponibilità economica che aveva Escobar negli Anni 80 per cui la sua evasione non ha stupito i messicani. Anche perché nell’ultimo periodo da detenuto - dal 22 febbraio 2014 all’altroieri - gli affari del cartello di Sinaloa sono stati floridi grazie alla guida del suo socio Ismael «El Mayo» Zambada. 

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Affinità con Cosa Nostra
Il gruppo di narcos messicani che fa riferimento al «El Chapo» e a «El Mayo» ha molte affinità con Cosa Nostra. Innanzitutto la presenza di una cupola a conduzione plurifamiliare, con un leader che quando «cade» ha già pronto il suo sostituto. Poi per i microcartelli divisi in zone geografiche che svolgono una funzione analoga ai mandamenti mafiosi, eseguendo gli ordini che arrivano dal Padrino. 


Ma ci sono altre strane coincidenze tra i boss di Sinaloa e Cosa Nostra. Nel caso di Guzmán il soprannome «El Chapo», «Il Corto», che tradotto in siciliano fa «U Curtu», lo stesso alias di Totò Riina. Per Zambada, invece, la capacità di fare accordi limitando al minimo lo spargimento di sangue lo rende simile a Provenzano. 

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Mentre negli interrogatori a cui è stato sottoposto dopo la seconda cattura «El Chapo» ha sempre negato le accuse - «sono un campesino e mi sono guadagnato la vita coltivando fagioli e granturco», è stata la sua linea difensiva -, nell’ultimo anno e mezzo «El Mayo» ha gestito al suo posto il cartello di Sinaloa. Per la Dea sono loro due i narcos più potenti tra Messico e Stati Uniti e secondo il Dipartimento di Stato Usa sono sempre loro a gestire il traffico di droga in Arizona e California, oltre che a Chicago e New York, la stessa città dove per la prima volta un pentito, Joe Valachi, fece il nome di Cosa Nostra.

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2. COSì NASCE LO STATO FEDERALE DEI CLAN

Federico Varese per “la Stampa”

 

Joaquín Guzmán detto «El Chapo», il narcotrafficante più famoso del mondo, astuto e ricchissimo, senza licenza elementare, soprannominato «Il Tozzo» per la sua figura non proprio atletica, è scappato da una prigione di massima sicurezza. 

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L e modalità della fuga e il calibro del prigioniero rappresentano una sconfitta di proporzioni vastissime per il governo messicano. «El Chapo» è il simbolo dell’anti-Stato che estende i suoi tentacoli ben oltre il traffico di droga. Oggi Guzmán ha dimostrato di essere più forte della democrazia, dell’esercito e della polizia. 

Guzmán era sottoposto a straordinarie misure di sicurezza nella prigione federale di Altiplano, nel centro-sud del Messico, eppure i suoi uomini sono riusciti a costruire un tunnel di un chilometro e mezzo che, partendo dalle docce, raggiungeva una casa nel quartiere a ridosso del carcere.

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Polemiche sul presidente

Le ripercussioni politiche per il presidente Peña Nieto sono per ora incalcolabili. Il carcere si trova nello Stato dove ha costruito la base del suo potere. La fuga di «El Chapo» ha dunque un significato simbolico. Durante la campagna elettorale, Peña Nieto aveva ridicolizzato Vicente Fox per essersi fatto scappare «El Chapo» nel 2001. Se la polizia non sarà in grado di arrestare Guzmán in tempi brevi, toccherà al Presidente essere ridicolizzato sulla stampa e in parlamento. Oltre agli aspetti simbolici, altri sviluppi recenti mostrano che l’attuale leader non è riuscito ad invertire la discesa del Paese nell’illegalità.

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Le indagini sul massacro dei 42 studenti nel settembre scorso hanno rivelato decine di fosse comuni con centinaia di corpi putrefatti. Mentre il governo si vanta che gli omicidi sono calati del 12.5% nel 2013 rispetto al 2012 (per un totale di circa 23.000 morti), è tragicamente evidente che le cifre sono inaffidabili.

 

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Le due riforme degli apparati di sicurezza, presentate come la soluzione al problema della violenza diffusa, si sono arenate, mentre il governo non ha lanciato un programma per ridurre la corruzione endemica. Inoltre l’amministrazione messicana continua a sottoscrivere i principi della War on Drug inaugurata da Richard Nixon, mentre altri Paesi latino-americani hanno imboccato la strada della legalizzazione di alcune droghe. Sorge il sospetto che i lauti finanziamenti americani siamo il fattore cruciale dietro questa scelta politica. 

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Gli affari dei cartelli

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Nel frattempo, il narcotraffico ha cambiato natura, estendendo i suoi interessi ben oltre il trasporto della cocaina e delle metanfetamine verso gli Stati Uniti. I cartelli sono diventati forme di governo, radicati nella maggior parte del Paese, dove estorcono le attività economiche legali e controllano la politica. Era uno sviluppo ampiamente prevedibile: se un gruppo criminale ha la forza di gestire rotte miliardarie, sarà anche in grado di controllare altri aspetti della vita delle comunità dove opera. La stessa capitale non è immune. Una indagine pubblicata di recente sul quotidiano «La Reforma» ha documentato come anche nei quartieri alla moda di Mexico City i negozianti sono costretti a pagare il pizzo. Il proprietario di un bar che si è rifiutato è stato freddato in pieno giorno. 
 

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Controllo del territorio

Nell’inferno creato dalle mafie messicane vi sono sinergie raccapriccianti. I cartelli controllano le zone del confine con gli Stati Uniti. Due gruppi, gli Zetas e il Cartello del Golfo, intercettano chi cerca di attraversare nei loro territori. In alcuni casi, si limitano a imporre una tassa di passaggio. In altri casi, rapiscono i migranti più giovani, i quali vengono sfruttati nei modi più vergognosi. Secondo uno studio della Coalition Against Trafficking, il Messico è il primo produttore di pedopornografia nella regione. Le vittime di questa industria sono soprattutto giovanissimi stranieri, rapiti nelle zone di confine mentre cercano di entrare negli Usa. Il governo dei narcos produce mostri.

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La pressione militare e gli arresti di alcuni boss hanno avuto effetti limitati. Molti cartelli un tempo centralizzati e estesi su un territorio molto vasto, si sono polverizzati in gruppi più piccoli i quali sono in grado di resistere meglio agli attacchi delle autorità. Il futuro organizzativo dei narcos consiste nel creare alleanze tra gruppi diversi che si accordano sulla divisione del territorio e accettano di non farsi più la guerra. Non è un caso che il cartello guidato dall’astuto «El Chapo» sia una federazione di gruppi autonomi. Il timore è che tali strutture sostituiscano presto lo Stato federale messicano.

 

3. DON WINSLOW:  “DOLLARI  E  VIOLENZA  CON  LA CORRUZIONE  IL BOSS  CONTROLLA  I  PALAZZI DEL POTERE”

Anna Lombardi per “la Repubblica”

 

«Me lo aspettavo. “El Chapo” ha così tanto potere, soldi e capacità d’intimidazione che era inverosimile credere che rimanesse a lungo in un carcere messicano ». Se lo dice Don Winslow bisogna credergli. Nessuno conosce “Chapo” Guzman meglio del grande romanziere americano, l’ex giornalista ed ex investigatore che nel suo Il potere del cane ha raccontato meglio di ogni altro la storia della guerra al narcotraffico.

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Il suo Adán Barreara, protagonista del romanzo, è modellato proprio su Joaquín Guzmán Loera, il re dei narcos messicani “El Chapo” fuggito ieri rocambolescamente dal carcere. Su di lui ha incentrato anche il suo ultimo libro, The Cartel , il cartello. Pubblicato a maggio negli Stati Uniti, uscirà in Italia il 20 Novembre edito da Einaudi. «Non credo che la sua fuga mi porterà a dedicargli un nuovo libro : che fuggisse, in fondo, era scontato...».

 

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Cosa glielo fa dire?

«Dubito che sia andata come ce la raccontano. Sì, la cronaca parla di un tunnel e sono sicuro che il tunnel esiste. Ma non penso che sia passato da lì. Qualcuno gli ha semplicemente aperto la porta».

 

Non le sembra un po’ troppo la trama di un suo romanzo?

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«Niente affatto. Il cartello di Sinaloa è la più potente organizzazione di trafficanti di droga del Messico: non è irreale immaginare che nella sua fuga siano coinvolte guardie carcerarie, poliziotti e anche politici a vari livelli. Penso che il tunnel sia solo una copertura per nascondere tutto questo».

 

El Chapo è ancora il capo della sua organizzazione?

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«In teoria sì. Alla guida oggi c’è il suo braccio destro Mayo Zambada. Il cartello di Sinaloa è quello che ha vinto la guerra dei narcos e instaurato quella che chiamo la Pax Narcoticus perché oggi controlla le principali vie del narcotraffico. Ma El Chapo è stato un anno lontano e bisognerà vedere se il legame con Zambada è ancora solido. Lo scopriremo presto, già nei prossimi mesi».

 

È un uomo crudele?

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«Qualcosa di più complesso. Per capire i narcotrafficanti ho cercato di guardare il mondo con i loro occhi e scoperto che loro non si considerano affatto crudeli. La chiamo sindrome di Macbeth: che all’inizio della tragedia non è cattivo ma le streghe gli mettono strane idee in testa, comincia ad uccidere il re, poi gli amici, poi donne e bambini. Passo dopo passo tutto diventa possibile. Con la differenza che i boss del narcotraffico all’inizio fanno con le loro mani, poi mandano i loro eserciti. Come tutti i capitani d’industria fanno fare agli altri il lavoro sporco».

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Dove può essersi nascosto?

«Immagino che per un po’ si nasconderà sulle montagne della regione di Sinaloa o di Durango dove può contare su molta protezione. E da lì condurre i suoi affari come al solito. Perché la sua fuga, come il suo arresto d’altronde, non cambiano proprio nulla nel mondo dei trafficanti. Anzi da quando è stato arrestato produzione e distribuzione di eroina sono perfino aumentate. Non fa alcuna differenza. Fa tutto parte dello stesso spettacolo...»

 

Che spettacolo, scusi?

«Non ho prove naturalmente: ma la mia impressione è che sia l’arresto l’anno scorso che la fuga ora fossero addirittura premeditati. Organizzati sin dall’inizio per alleggerire la pressione su Mayo Zambada dopo l’arresto in America di suo figlio Ismael. Una storia intricata anche quella: perché il ragazzo ha sostenuto di essere un informatore della Dea cosa che gli americani hanno sempre negato. Ma oggi fa parte di un programma di protezione testimoni. Vede, anche la storia della fuga potrebbe essere solo uno show».

 

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Che sia uno show o meno avrà delle conseguenze: ci sarà una nuova guerra dei narcos? E che impatto avrà sulle relazioni fra Messico e Stati Uniti?

«Non so se ci sarà una nuova guerra. Dipenderà dalle relazioni fra “El Chapo” e Zambada. Di sicuro gli americani sono molto scontenti: avevano chiesto diverse volte la sua estradizione. Volevano chiuderlo in un carcere di massima sicurezza da dove i cartelli non potessero tirarlo fuori: per gli Usa sarebbe stata senza dubbio una vittoria sia pure simbolica. Questo mette il governo messicano in grave imbarazzo e forse qualche schermaglia politica ci sarà. Ma, davvero, alla fine tutto questo in termini di lotta alla droga non conta nulla: El Chapo o un altro, qualcuno muoverà sempre le fila del narcotraffico. Ci sono troppi soldi in gioco».

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Ci dev’essere un modo per sconfiggerli...

«La soluzione non è in Messico ma in America e anche in Europa. Siamo noi che compriamo i prodotti dei narcos e finchè ci sarà domanda ci sarà offerta. I governi dovrebbero avere il coraggio di fare scelte coraggiose e liberalizzare ogni droga. Perché finché ci saranno droghe illegali ci saranno trafficanti. La liberalizzazione della marijuana in certi stati americani ha già fatto crollare le importazioni messicane del 40 %. Col risultato che oggi l’eroina messicana è più economica degli psicofarmaci ed è tornata nelle strade. Bisogna legalizzare tutte le droghe per levarle per sempre dalle mani dei criminali».

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