SBATTI IL (FALSO) MOSTRO IN PRIMA PAGINA - L'ORFANO DELLA STRAGE DI CASELLE FINITO NEL TRITACARNE MEDIATICO COME PRINCIPALE INDIZIATO: "AVEVO TUTTI CONTRO"

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera"

Non è vero che tutto passa. I sospetti, le insinuazioni sul suo stile di vita, le due notti trascorse in caserma, gli restano addosso come un vestito nuovo.
«Mi raccomando, comportati bene» gli dice un vicino di casa. Maurizio Allione è appena entrato nella via che termina con la villetta dei suoi genitori. Come il giorno precedente vuole portare i cani in giro. Vede le telecamere che lo aspettano.

Vede una signora che gli fa una foto sul telefonino. L'ambiente dove è cresciuto lo guarda di nascosto, come se non sapesse ancora che posto assegnargli in questa tragedia. Continua a giudicarlo, come abbiamo fatto tutti in questi giorni. Lui si rivolge a Milena, la sua fidanzata, e non c'è bisogno di pronunciare parole. Quello non è il loro posto, non lo è più, se mai lo è stato. Tornano indietro.

«Le televisioni e i giornali mi hanno fatto fare una brutta figura» sostiene Maurizio. «Per loro ero addirittura più colpevole di quanto non lo fossi per i magistrati». Ancora per poco, ma non ci sono rifugi sicuri dopo quel che hanno vissuto. I loro nomi svaniranno presto, aggiunti alla lista non certo breve dei mostri di un giorno. Ma oggi è come se il giudizio fosse ancora sospeso, e il ruolo di vittima, che in una sera di inizio gennaio ha perso la madre, il padre e la nonna, tutta la sua famiglia, non gli fosse ancora riconosciuto.

Comportati bene, invece delle condoglianze, che sarebbero l'unica cosa da fare.
Così Maurizio torna indietro e si dirige verso l'unica zona franca che conosce, l'ufficio dell'avvocato che lo ha sostenuto in questi giorni, Stefano Castrale, uno dei più importanti penalisti torinesi. E' stato lui a chiamarlo, ore 7.45 del mattino. «Lo hanno arrestato» gli ha detto. Maurizio ha pianto, e poi finalmente ha capito quel che era successo, ne ha compreso il senso che gli era sfuggito nel frullatore dove era finito. «All'improvviso mi sono reso conto di quel che mi è capitato, e di essere solo al mondo. Sono rimasto senza i genitori. Sono un orfano».

L'ultima notte, quella decisiva, è stata come una porta girevole. Maurizio veniva interrogato nella caserma di Caselle, dalle tre del pomeriggio. «All'inizio in modo duro, tanto che ho chiamato l'avvocato, avevo paura di non farcela. Poi hanno cominciato a essere più amichevoli». Fuori c'era l'impazzimento mediatico, e nessuno, neppure lui che stava dentro, poteva sapere che la sua posizione stava cambiando, da unico sospettato e colpevole presunto a testimone involontario.

Quando è entrato, non doveva più uscirne, se non in manette. Gli investigatori ne erano convinti. La tazzina del caffè e il cucchiaino che i suoi cani gli avevano fatto ritrovare in un fosso vicino alla casa dei suoi genitori erano stati considerati alla stregua di un atto di autoaccusa, proprio come lo zio Michele di Avetrana.

«Anch'io ho avuto questa impressione. Ma poi mi hanno trattato bene, si sono convinti che non c'entravo, che quel ritrovamento era tutto vero». Sulla tazzina di caffè gira il senso di questa storia. Non è una prova contro Maurizio, che continua a ripetere come un disco rotto la sua versione, troppo dettagliata per essere scalfita, troppi particolari che una persona non può tenere insieme senza che siano veri. Diventa così un indizio, il segno di un rapporto di conoscenza tra le vittime e l'assassino.

I due fidanzati escono alle 22.30 dalla caserma di Caselle, convinti che ben presto verranno richiamati. A quella stessa ora Giorgio Palmieri entra in quella di Torino. «Se è quello che tanto tempo fa era venuto a portare via della roba con il camion, allora credo di averlo incontrato. Ma non saprei riconoscerlo, in effetti non sapevo chi era». La sua vita ha finito per essere considerato un elemento di prova.

Anche le canzoni della sua band sono state setacciate in pubblico alla ricerca di un segno. Ieri mattina, in conferenza stampa, è stato detto che i suoi rapporti con la famiglia non erano «intensi». Maurizio ci pensa sopra per qualche secondo prima di parlare. «Non capisco cosa si intende per intensità. Li vedevo una volta alla settimana, li andavo trovare durante le feste. Andavamo d'accordo, mi aiutavano. Tutto qui».

Ci sarebbe molto altro di aggiungere e da capire in realtà, l'enormità del suo lutto, il trattamento che gli è stato riservato da inquirenti e media. «So che c'è stata anche quest'altra sofferenza nella disgrazia che mi è capitata, ma non riesco ancora a realizzare bene la situazione. Avvocato, mi spieghi cosa devo fare, che io non lo so». Andranno via. Per qualche giorno, lontani da tutto. Maurizio e Milena lasciano lo studio nel centro di Torino coprendosi i volti, come se fossero loro a doversi nascondere. Qualcosa rimane, sempre.

2. I SOLITI SOSPETTI COLTIVATI IN FRETTA DAI GIORNALISTI
Andrea Scanzi per ‘Il Fatto Quotidiano'

I soliti sospetti. Quelli facili da avere, quelli ovvi da coltivare. Quelli che non ci prendono quasi mai, perché a pensar male spesso ci si azzecca ma a pensar poco si sbaglia sempre. Il delitto di Caselle Torinese sembrava avere un assassino pressoché certo, Maurizio Allione. Figlio e nipote delle vittime. Buona parte dei media, nei giorni successivi al triplice delitto del 3 gennaio, ha lasciato intendere che il colpevole non poteva essere che lui. "Svolta nelle indagini, interrogato il figlio di 5 ore"; "C'è un buco di 70 minuti nel suo alibi"; "È lui il naturale sospettato".

"Naturale" per chi, e soprattutto perché? Nella villetta di Caselle Torinese sono stati trucidati con un tagliacarte i coniugi Claudio Allione (66 anni) e Maria Angela Greggio
(65) e la madre della donna, Emilia Dall'Orto (93). Maurizio non era in casa, avrebbe dovuto pagare un killer o essere un genio del depistaggio. Eppure sembrava "ovvio" che avesse ammazzato genitori e nonna: figlio e nipote degenere, magari disturbato.

La notte scorsa si è scoperta la verità: a compiere i delitti è stato Giorgio Palmieri, pregiudicato 56enne convivente della ex domestica degli Allione, Dorotea De Pippo. La donna era stata allontanata dalla casa pochi mesi prima, perché accusata dalla coppia di avere rubato una collanina d'oro.

Palmieri è stato scoperto grazie alle intercettazioni telefoniche e alle ferite nell'avambraccio destro. I motivi, secondo gli inquirenti , sarebbero "futili e abietti". Forse un prestito di 500 euro, che Palmieri non poteva restituire agli Allione. Il litigio, la colluttazione, il triplice omicidio. Prima di andarsene, Palmieri avrebbe trafugato 100 euro.
I corpi sono stati trovati la mattina successiva da un amico di Maurizio, che aveva subito notato l'assenza di una caffettiera e una tazzina (poi rinvenuta in un canale poco distante insieme a un guanto di lattice), portate via dall'assassino per togliere le sue tracce.
Di nuovo, buona parte di stampa e tivù hanno sbattuto in prima pagina un mostro che tale non era. Nel frattempo, però, è cambiata la tipologia dell'errore (e dell'orrore).

Sbattere il mostro in prima pagina aveva quasi sempre una connotazione ideologica, basta pensare a Valpreda. Il solito sospetto è una prassi più legata alla cronaca nera o anche "solo" alla disgrazia generica. Forse incentivata da inquirenti talora non così infallibili, l'informazione preferisce al dubbio la risposta più facile e tendenziosa. Insegue il titolo a effetto, quello che titilla la pancia e garantisce condivisione massima: la prima ipotesi è sempre la migliore, ancor più se ha un che di morboso.

È successo tante volte, spesso nel profondo Nord, quello di Erba e quello della Brianza laboriosa e talora "velenosa" come cantava Battisti, tratteggiata non senza polemiche anche da Paolo Virzì. Che senso ha forzare le deduzioni e arrivare a conclusioni più affrettate che rapide? A cosa serve, a cosa porta? È accaduto anche per l'incidente di Michael Schumacher. La notizia era appena arrivata, eppure si dava già per scontato che l'ex pilota stesse scendendo a tutta velocità in un fuori pista.

Articoli su articoli, dibattiti su dibattiti al bar come in tivù, perché il pubblico somiglia fatalmente a chi dice di informarlo. Tutti incentrati sul "desiderio di adrenalina" del "campione che non accetta di invecchiare" e dunque sfida la sorte, e quindi un po' se l'è cercata.

La realtà, che bastava aspettare e che è spesso cinicamente banale, era ben diversa: Schumacher scendeva a 20 chilometri orari, era uscito di pista per soccorrere la figlia di un amico ed è caduto per colpa di rocce coperte dalla neve e non visibili. Così, di colpo, anche Schumacher è slittato dal ruolo di "colpevole" a martire eroico. È un'informazione spesso schizofrenica, che non sa e non vuole aspettare. Che al ragionamento preferisce la fretta, e per questo è condannata a smentire se stessa con la stessa velocità che Schumacher avrebbe avuto prima di cadere. E che però non aveva.

 

 

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