IN CORSIA DI SORPASSO CON AYRTON – ASSO DEL VOLANTE E RISCATTO DEL BRASILE: IL MITO SENNA NON MUORE MAI – ‘AVEVA UNA SPIRITUALITÀ FUORI DAL COMUNE MA ANCHE UN SENSO DELLA COMPETIZIONE SPAVENTOSO’

1. SENNA, GENIALE CON METODO EROE PER SORTE
Paolo Ziliani per "il Fatto Quotidiano"

Angelo. Ma anche diavolo. Sensibile. Ma all'occorrenza spietato. Un dio in terra smanioso però di vivere totalmente, profondamente, la sua condizione di uomo nelle sue grandezze e nelle sue miserie. Lui lo sapeva: sapeva di essere speciale e anche - semplicemente - normale. Il migliore quando guidava, uno dei tanti quando viveva. Il primo e l'ultimo: proprio come i due ragazzi, Senna e Ratzenberger, che si ritrovarono distesi l'uno accanto all'altro, in perfetta eguaglianza, nel silenzio, in quel tristissimo giorno d'inizio maggio 1994 all'obitorio dell'Ospedale Maggiore di Bologna.

Vent'anni fa. Erano i giorni del Gran Premio di Imola; sabato 30 aprile se n'era andato l'ultimo fra gli ultimi, domenica 1 maggio lo aveva raggiunto il primo fra i primi. In una sorta di parabola evangelica che Ayrton Senna - che non aveva paura di parlare di Dio - non avrebbe fatto fatica a comprendere.

Non c'era mai stato e forse non ci sarà più uno come Ayrton Senna: il brasiliano silenzioso dal sorriso triste, il campione di tutti i tempi e di tutti gli sport, il pilota per cui non sarebbe stato esagerato dire "e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare" visto che come guidava lui non ha più guidato nessuno. Davvero: ci sarebbe voluto Dante per dire, bene, chi era Senna.

"L'uomo della pioggia", per chi ricorda i prodigi che solo lui sapeva sfoderare quando le piste diventavano acquitrini e i piloti comuni mortali. Come nel 1984, al debutto in F1, quando a 24 anni, nel G.P. di Monaco, al volante di una scatola di sardine chiamata Toleman Senna s'inventò la danza della pioggia; e mentre Tambay e Mansell, Piquet e Warwick andavano a sbattere, lui, guizzando tra la Williams di Laffite e quella di Rosberg, sorpassando la Ferrari di Arnoux e la Mc Laren di Lauda, s'arrampicò dal 13° al 2° posto, poi mise nel mirino Prost, che al 20° giro aveva un minuto e mezzo di vantaggio su di lui.

Novello Houdini, Senna prese a mangiargli 6 secondi a giro. Al 31° passaggio il distacco era ridotto a 7 secondi e mezzo. Alla fine del 32° giro, mentre stava ormai per avventarsi sul francese, umiliandolo, il direttore di gara, l'ex ferrarista Jacky Ickx, si lanciò sul traguardo sventolando la bandiera rossa e quella a scacchi. Gara finita. E vittoria a Prost perché il regolamento recitava: vince chi è in testa un giro prima dello stop. Intanto il mondo stropicciava gli occhi incredulo: da quale lontana e sconosciuta galassia arriva mai questo Ayrton Senna?

Nei dieci anni trascorsi in F1, più l'11° (il 1994) chiusosi subito con la sua morte, Senna disputò 161 Gran Premi vincendone 41. Per 65 volte centrò la pole position, che Ayrton coglieva con irrisoria facilità qualunque fosse la macchina che guidava, Lotus, Mc Laren, Williams. La sua sensibilità di guida, genio allo stato puro, gli permetteva di sbucare dai box negli ultimi 5 minuti e di migliorare, regolarmente, il tempo più veloce fatto segnare fino a quel momento. Per 87 volte Ayrton partì in prima fila, 80 volte (una su due) salì sul podio, 96 volte si piazzò andando a punti.

Nessuno come lui è mai riuscito a portare al limite la propria monoposto. Una volta nell'abitacolo, come toccato dalla grazia riusciva a operare sorpassi impossibili, a inventare traiettorie irripetibili e a ritardare frenate all'inverosimile in un modo unico che ancor'oggi non ha imitatori. Alain Prost: il grande nemico, l'uomo che Senna fece di tutto per sbalzare dal trono dando vita a una rivalità senza esclusione di colpi. "Lucio Dalla - racconta Leo Turrini, amico di Senna e autore del bel libro "In viaggio con Ayrton" (Feltrinelli, 15 euro) - ha dedicato una canzone a Senna nella quale gli fa dire "ho capito che un vincitore vale quanto un vinto".

Ma non è vero. A Lucio lo dissi, Senna questa cosa non la pensava, aveva un istinto di competizione brutale che passava sopra a tutto. A Lisbona, due settimane prima del G.P. del Giappone del 90, mi disse: Prost è diventato campione del mondo buttandomi fuori pista; quindi, se mi servirà per diventare campione del mondo, lo butterò fuori anch'io. E così fece. Lui aveva una sensibilità e una spiritualità fuori dal comune, ma anche un senso della competizione spaventoso. Era umano anche nel praticare la slealtà".

"Perdonare è una parola difficile da digerire - aveva detto Senna in un'intervista-tv ad Antonella Delprino -; oggi questa capacità in me è ridotta, sono molto lontano dalla maniera di vivere che vorrei praticare". E però, ci sarà anche Prost, alla fine, ad accompagnare Senna al cimitero di Morumbi reggendo la bara assieme agli amici di sempre, Berger, i Fittipaldi, Jackie Stewart. "La verità è che furono rivali, arrivarono ad odiarsi ma si stimarono sempre - spiega Turrini -. E all'ultimo, prima di morire, Ayrton aveva veramente ammesso Prost nella cerchia dei suoi amici. Fermati Ayrton, c'è un amico ai box che ti aspetta, gli dissero un giorno, a inizio 94, mentre stava girando in prova. Lui capì che si trattava di Prost, che si era appena ritirato dalle corse, e semplicemente disse: "Ciao Alain: mi manchi!".

IL DIO DEL VOLANTE

Ayrton Senna, "l'uomo della pioggia", "l'uomo dei sorpassi", "il ragazzo che parlava con gli occhi", volava all'inseguimento di un sogno: battere, lui brasiliano, il record dell'argentino Fangio, che di mondiali ne aveva vinti 5. Fangio aveva conquistato il quinto titolo a 46 anni, Senna a 31 anni era già a quota 3. Aveva tutto il tempo, se non ci si fosse messa la morte. E certo i duelli col giovane Schumacher, che prometteva di diventare per Senna ciò che Senna era stato per Prost, sarebbero divenuti indimenticabili. Invece Senna morì alla curva del Tamburello del circuito di Imola, il primo maggio del ‘94, perché il piantone dello sterzo cedette e la sua Williams finì a 300 all'ora contro un muretto.

Nell'urto il braccetto della sospensione si staccò, entrò nella visiera del casco e gli trafisse il cervello. La bara di Ayrton, avvolta nella bandiera verde-oro del Brasile, quel martedì 3 maggio viaggiò dapprima sull'aereo del presidente della Repubblica Scalfaro da Bologna a Parigi, poi sul volo "Varig RG723" Parigi-San Paolo. Il comandante Gomes Pinto fece togliere 4 sedili in business class comunicando ai passeggeri che si rifiutava, come da regolamento, di sistemare Senna nella stiva.

"Io ero lì - ricorda Turrini -, seduto accanto a lui e per tutto il viaggio i passeggeri non smisero di venire in processione a pregare, piangere e ancora piangere sulla bara di Senna". Cinque milioni di brasiliani fecero ala al loro eroe che dall'aeroporto Guarulhos, sul camion dei vigili del fuoco scortato dai soldati della "Polìcia da Aeronautica", raggiungeva prima il palazzo del Governo dello Stato di San Paolo, poi il cimitero di Morumbi. Cinque milioni di persone cui Senna aveva fatto un regalo lungo dieci anni: l'orgoglio di sentirsi brasiliani. E il regalo non è ancora finito.


2. IO CHE HO BATTUTO IL MIO AMICO SENNA
Testo di Terry Fullerton raccolto da Ferruccio Sansa per "il Fatto Quotidiano"

Se ci penso? Certo, e voi non lo fareste? Lui è diventato campione del mondo, un mito per miliardi di persone. E io, come trentacinque anni fa, sono sempre pilota di kart. Insegno ai ragazzini. Ci penso spesso, se lo negassi sarei falso, ma ho fatto le mie scelte, un uomo deve sempre farle. Ho fatto la vita che volevo. E poi c'era di mezzo una promessa e non si può mancare alla parola.

Non ho rimpianti, non ho rabbia. È andata bene così. Però ci penso, non potrebbe essere altrimenti: Ayrton e io correvamo insieme, eravamo compagni di squadra, tutti e due sui kart della Dap. Lui era un ragazzetto di 17 anni, io quasi un uomo... ne avevo 25. Ogni giorno ci confrontavamo. E credetemi, eravamo davvero veloci, tenevamo sempre giù il piede sull'acceleratore. Abbiamo vinto Campionati del mondo, una marea di coppe che ho ancora sul mobile. Ora lo so cosa vorreste chiedermi - mi capita spesso, ormai, mi parlano di me, ma vogliono sapere di lui - chi era più veloce? Andavamo forte tutti e due.

Molto forte. Ma eravamo diversi: Ayrton aveva dentro qualcosa, un vero dono. E una grande ossessione. Era rapidissimo, ma soprattutto "passionate", non saprei tradurvelo, è più che appassionato... vuol dire anche passionale, sì, mentre teneva in mano il volante. Io ero più logico, ci pensavo prima di lanciarmi in un sorpasso folle. Avevo più esperienza, più tecnica.

Ma eravamo veloci uguali, a volte più io, l'ho battuto tante volte. Nel mondo dei kart eravamo i numeri uno. Non so che cosa vi aspettiate che risponda, che mi arrenda davanti a lui? Ma non sarebbe giusto nei suoi confronti. E nemmeno nei miei. Bisogna essere obiettivi, sinceri, sempre.

Anche Ayrton lo era. Per questo mi ha colpito come una fitta nello stomaco il giorno che ascoltai quelle sue parole. C'era l'intervistatore che gli faceva la solita domanda, chi è stato il tuo più grande avversario? Prost, Schumacher ? Ma Ayrton stupì, come sempre: "Quando arrivai in Europa mi ritrovai un compagno di squadra che si chiamava Fullerton. Aveva una grande esperienza, ed è stato grande guidare con lui, perché era veloce, e tosto. Ecco per me era un pilota davvero completo. E un puro guidatore. Era pura competizione. Non c'era politica, non c'erano sponsor o denaro. Soltanto competizione".

Che cosa volete che vi dica, che non mi fece piacere? Certo che fui felice, orgoglioso. Era un riconoscimento che arrivava dal campione del mondo. Ma nel profondo me lo aspettavo. Ce la giocavamo davvero. Perché quelle gare, mio dio, furono stupende. Davvero competizione allo stato puro. Quello che io ho sempre sognato. E anche Ayrton. In questo sì eravamo uguali: quando indossavamo il casco volevamo soltanto una cosa: vincere. Questo vogliono i piloti, quelli veri.

Certo, la velocità, ma sopra ogni cosa vincere. Non state ad ascoltare chi dice che è meglio una bella sconfitta che una brutta vittoria. Balle. A chi arriva secondo non ci devi nemmeno pensare. Non c'è compassione. Crudele? Sì, lo so. Ma crudele per tutti. Oggi vinco, ma tante più volte sarà un altro a sollevare la coppa e io a soffrire. C'è qualcosa di molto onesto e puro nelle gare.

Competition, competizione, Ayrton ce l'aveva nel sangue. E anch'io. È un bug, un baco che ti si è annidato dentro. Io me ne sono accorto a undici anni. Bastò provare una macchina cinque minuti per capire che volevo soltanto quello. I fell in love, mi sono innamorato. Ed ero bravo, non lo dico per superbia. Non so che cosa ti renda veloce, non chiedetemelo, è qualcosa che hai nel cervello che a duecento all'ora ti fa calcolare ogni centimetro della curva. Qualcosa negli occhi, nei muscoli. Nel dna. Ragione e istinto.

Così è cominciato tutto, le gare, i campionati del mondo. Quando sollevi in alto le coppe ti senti in paradiso. Sì, quanta felicità. E quanto dolore: avevo undici anni quando morì mio fratello. Mallory Park, correva su una moto, una Northon. Alec era tutto per me, ma non mi fermai. Continuai a correre, correre, correre. E vincere. E viaggiare per il mondo.
Vale per me e valeva per Ayrton. Questo ci riconoscevamo quando ci guardavamo negli occhi: la voglia di vincere. E quel suo sguardo mi spingeva ad andare più veloce.

Amico? Allora avrei detto di no. Ma non eravamo nemmeno nemici. C'era rispetto. Tanto. Questo significa essere rivali. Condivido tante cose con te, ti sto vicino, arrivo a capirti, a conoscerti come poche altre persone al mondo. Ma voglio batterti. Sempre. No, non umiliarti, non voglio che picchi. Voglio solo che mi stai dietro. In quel mondo alle mie spalle che per me non esiste.

È andata avanti così per anni. Sempre vicini. Ci parlavamo anche, delle gare, della macchina. E poi i discorsi dei ventenni... le ragazze, il sesso. Ma non avrei detto che fosse mio amico. Neanche lui lo avrebbe fatto. È impossibile, ti renderebbe indifeso, vulnerabile. La competizione, quando è allo stato puro, ti rende egoista. Ti fa dimenticare tutto. Io gli amici non li porto in pista, perché appena scendo sull'asfalto sono un'altra persona. Non posso farci niente, devo batterli. A qualunque costo.

No, capitemi, non intendo essere sleale. Noi ci siamo anche aiutati, Ayrton ed io. Ricordo quella volta che ero in testa. E il nostro grande manager, Angelo Parilla, aveva chiesto ad Ayrton di non fare casini. Lui niente, mi stava a un millimetro, voleva superarmi. Non poteva farci niente, era la sua natura. Ma io non gliene volevo, avrei fatto lo stesso. Tiravamo come matti, pazzi totali, finché all'uscita di una curva, mi sembra di vedermela qui davanti, il mio motore ha grippato. Mi sono piantato. Fermo. E lui boom, mi è venuto dentro. Che botta. Ma appena mi sono alzato in piedi l'ho aiutato a rimettere a posto il suo kart, a farlo ripartire. A vincere. No, sia chiaro, non è una questione di bontà, era istinto: io non potevo più vincere... e allora che lo facesse lui. Il mio compagno. Amici? Non so. C'è un legame, però, a volte ancora più forte. Più inspiegabile.

Poi un giorno lui se n'è andato: la Formula 3, la Formula 1, le vittorie. Il mito. Io ho continuato con i kart. Lo so che cosa vorreste chiedermi: perché Senna sì e io no? È la vita, potrei dirvi. Ma c'è dell'altro: io avevo sette anni più di Ayrton e quando avevo vent'anni le formula 1 erano dannatamente pericolose. Correvi con il pensiero della morte, in cinque anni sono morti venti piloti su cento.

E poi c'era di mezzo quella promessa. Dopo la morte di Alec l'avevo giurato a mia madre: non correrò mai con le moto e le auto da corsa. Discorso chiuso. Anche se tentazioni ne ho avute: provai un'auto da competizione, una di quelle buone. E feci un tempone. Si potevano aprire anche per me quelle porte. Chissà, forse avrei potuto incontrare di nuovo Ayrton. Ma di parola ce n'è una sola. E i miei genitori avevano già sofferto.

Ecco, oggi, a 58 anni, guardo mia moglie, la mia bambina di nove anni che suona il piano in salotto. Penso che ho fatto bene. Che sono vivo.

Faccio l'istruttore di kart, non potrei fare altro. E guardando quei bambini che corrono mi basta un'occhiata per capire chi ce l'ha dentro quella passione, come Ayrton e me. Se c'è un bambino che perde e dopo cinque minuti è di nuovo felice, bè, lui non vincerà mai.

No, non mi allontanerò mai dalle piste. Da quel loro odore di asfalto e di benzina. Di gomme. Ma sono una persona normale. Abito a Norwich in Inghilterra. A metà strada tra la città e la campagna. Dalla finestra della mia camera vedo l'edificio di fronte. Niente di speciale. Mi faccio delle lunghe camminate sulla spiaggia con il cane.

Rimpianti? No, ve l'ho detto. Però ci penso ad Ayrton, come quel giorno che stavo tornando in Inghilterra con il traghetto e mi telefonarono: "Senna è morto". Sì, forse allora ho capito che eravamo amici. Mi capita a volte di immaginare di incontrarlo. Di bere qualcosa con lui, invecchiato. Forse anche lui, come me, avrebbe una visione diversa della vita: gli anni ti fanno vedere tante altre cose.

Chissà di che cosa parleremmo... dei vecchi tempi, certo, delle gare che abbiamo fatto insieme. Ma anche degli errori, dei fraintendimenti. Delle cose non dette. Non più rivali, ma liberi di essere amici. Ma comunque piloti: con quella voglia di vincere sempre. Come se non sapessi che alla fine della vita si perde.

 

 

 

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