
“UNA SERA ANDAI AL CINEMA CON LOREDANA BERTÈ QUANDO SI ACCESERO LE LUCI LEI ERA PRATICAMENTE NUDA. DALLA GALLERIA MI GRIDARONO: A PANATTA, PUOI PURE VINCERE, MA VATTENEAFFANCULO...” – AMORI, CORNA E "VERONICHE" DI ADRIANO PANATTA CHE FA 75 E SI RACCONTA A ALDO CAZZULLO – “LASCIAI MITA MEDICI, PER FUGGIRE CON LOREDANA BERTÈ. MI COMPORTAI COME UNA MERDA. ME NE SONO SEMPRE VERGOGNATO” - "PIETRANGELI DICE DI AVER AVUTO PIÙ DI MILLE DONNE? LA PENSO COME AGNELLI: PARLO CON LE DONNE, NON DELLE DONNE. LUI GELOSO DI SINNER? NO, VIVE IN UN MONDO SUO E HA QUELL’ATTEGGIAMENTO DA MARCHESE DEL GRILLO: IO SO’ IO, E VOI... – SINNER E ALCARAZ? LO SPAGNOLO HA PUNTE PIÙ ALTE. SINNER È PIÙ COSTANTE, UN CATERPILLAR" – CONNORS "STRONZO", GLI SPUTI A TOGNAZZI E VILLAGGIO, LA POLITICA (“LA MELONI? FA IL SUO”. E PER FORTUNA CHE SI DICHIARA DI SINISTRA) – “AVREI POTUTO VINCERE MOLTO DI PIÙ? È QUELLO CHE DICONO TUTTI. MA SAREI STATO PIÙ FELICE?” - VIDEO
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - Estratti
(…)
E la prima racchetta?
«Me la diede sempre mio padre. Era una racchetta da adulto, a cui aveva tagliato il manico. Giocavo da solo contro il muro della casa del custode, su cui papà aveva dipinto una riga all’altezza della rete».
Nella sua autobiografia «Più dritti che rovesci», scritta con Daniele Azzolini, lei racconta la reazione di Nicola Pietrangeli all’annuncio di Ascenzio Panatta: «Mi è nato un figlio!».
«E chi se ne frega! rispose Nicola. Stava giocando, ma non a tennis; a calcetto. Uno sport inventato proprio lì, al Parioli. Tanti tennisti giocavano a calcio. E tanti calciatori giocano a tennis».
Lei ha giocato a calcio?
«Certo. Nell’inverno tra il 1975 e il 1976 giocai pure in prima categoria. Abitavo a Montecatini e mi presero al Montemurlo. Feci sette o otto partite. Oggi per un professionista del tennis sarebbe una pazzia. In realtà fu una buona preparazione, il 1976 fu il mio anno migliore».
Roma, Parigi la Davis. A calcio in che ruolo giocava?
«Centravanti di sfondamento. Ero abbastanza prestante. Feci un paio di gol; ma più che altro facevo spazio».
Pietrangeli ha raccontato che dopo il vostro primo match lei gli disse timidamente: «La saluta tanto papà».
bjorn borg jimmy connors manuel orantes adriano panatta
«Il primo incontro in realtà fu al club delle Tre Fontane, all’Eur, dove mio padre era stato trasferito. Per le Olimpiadi del 1960 al posto del tennis club Parioli fecero lo stadio Flaminio.
Il club fu spostato sulla Salaria, dov’è ancora adesso. Papà fu assunto al centro Coni delle Tre Fontane. Abitavamo davanti al Luna Park dell’Eur, e io andavo tutti i giorni in bicicletta sulla Salaria, all’altro capo di Roma, a giocare a tennis. Per questo il motorino mi cambiò la vita».
Diceva di Pietrangeli.
«Lo fecero palleggiare con i più bravini della scuola Coni. Io ero tra quelli. Avevo una maestra severissima, Wally San Donnino, una che non diceva mai bravo a nessuno. Scendevo sempre a rete, scesi a rete pure contro Pietrangeli, e lui mi apostrofò: “A regazzi’, che fai, vieni a rete con me?”».
Pietrangeli dice che per lui, figlio unico, lei fu il fratello minore che non aveva mai avuto.
«Anche io voglio molto bene a Nicola. E gli mando un forte abbraccio per la perdita del figlio. In campo erano incontri duri, due finali degli Assoluti al quinto set, ma fuori eravamo amici. Il mio primo viaggio in America coincise con il suo ultimo anno di tennis, a Hollywood mi portava a giocare il doppio a casa di Anthony Queen, sul Sunset Boulevard... Il problema con Nicola è che dovevo difenderlo da se stesso».
Perché?
«Perché è polemico. È sempre il più bravo di tutti, a tennis ma pure a calcio, ha avuto più di mille donne... Eppure voglio davvero molto bene a Nicola».
Perché lo cacciaste da capitano della squadra di Davis?
«Perché non lo sopportava più nessuno. I miei tre compagni. Belardinelli. Il presidente federale Galgani. Lo difendevo soltanto io. Ma Nicola a volte era indifendibile, con il suo atteggiamento da Marchese del Grillo: io so’ io, e voi...».
Pietrangeli è geloso di Sinner?
«Ma no, dai. Nicola non è geloso; vive in un mondo suo. È un uomo straordinario. Ma è sempre stato così. Una volta disse a Gianni Rivera: “Tu sei stato molto fortunato”. E perché, chiese Rivera. “Perché se anziché a tennis giocavo a calcio, diventavo più forte di te” rispose Nicola, serissimo. Rivera lo guardava come un matto».
Lei ha detto: «Sono di sinistra per nascita e per cultura». Nello sport è rarissimo.
«Lo so. Ma mio nonno materno, Luigi, era un vecchio socialista, amico di Nenni. Anche mio papà era socialista. In casa si respirava quest’aria».
Il suo grande maestro, Mario Belardinelli, era di destra.
«Belarda era proprio un vecchio fascista. Aveva insegnato a giocare a tennis al Duce e ne era fierissimo. Raccontava che Mussolini si impegnava, ma non aveva il rovescio. Ogni volta lui cercava di insegnarglielo: “Duce, oggi miglioriamo il rovescio”. Ma quello si rifiutava: “Camerata Belardinelli, noi tireremo sempre diritto!”».
Lei tormentava Belardinelli.
adriano panatta roland garros 1976
«Ero dispettoso. In ritiro a Formia seguivamo in tv le tribune politiche. Quando parlava Almirante lui chiedeva silenzio, “zitti tutti che devo sentire!”, e io facevo casino. Poi quando parlava Natta dicevo: “Mo’ devo senti’ io”. Oppure mi presentavo a tavola con l’Unità. Poi, quando fondarono il Manifesto, con il Manifesto. E Belarda: “Che è ‘sta roba? Mettila subito via!”. E io: “E che, nun se po’ legge ‘n giornale?”».
Belardinelli era un grande scommettitore.
«Ci portava in gita a Napoli. Prima a puntare sui cavalli ad Agnano, poi sui cani. Belardinelli era il massimo esperto vivente delle corse di cani. Ma non voleva che noi ragazzi finissimo nelle grinfie degli allibratori, filibustieri che lui conosceva benissimo».
Voi ragazzi eravate lei, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli: la squadra che vinse la prima delle tre Coppe Davis conquistate dall’Italia.
«La prego: non la chiami più Coppa Davis.
Noi andavamo a giocare in Sud Africa, in Australia, in India. La Davis durava tutto l’anno e per noi europei era la cosa più importante, più di Wimbledon. Per gli americani forse meno, Connors non la giocava, ma Stan Smith, McEnroe, Gerulaitis ci tenevano moltissimo, e anche Sampras e Agassi che affrontammo a Palermo quando ero capitano. Ora la Davis dura tre giorni».
Cos’è successo?
«Più il tennis diventava professionale, più si guadagnava nei tornei e con gli sponsor, meno i giocatori avevano voglia di sobbarcarsi trasferte per la Nazionale».
Diceva delle scommesse.
«Belardinelli raccoglieva le nostre puntate. Se azzeccava il cavallo o il cane vincente, divideva tra noi la vincita. Se perdevamo, ci restituiva i soldi» (per un attimo Panatta dà l’impressione di commuoversi).
Lei è considerato un cinico.
«Sono anche cinico».
(...)
Il leggendario Ilie Nastase.
«A me mi chiamava Maccarone. Sapeva che sono superstizioso. Ci incontriamo in doppio al Roland Garros, io con Bertolucci, lui con José-Luis Clerc, l’argentino. Faccio per battere, alzo lo sguardo, e lo vedo con un gatto nero in braccio. Nastase si era procurato un gatto nero e l’aveva portato in campo. Al Roland Garros».
Prendeva in giro il povero Vilas, che scriveva poesie.
«Guillermo Vilas lo prendevamo in giro tutti. Era davvero convinto di essere un grande poeta, tipo Neruda. Un po’ come Pietrangeli, che pensava di essere più forte di Rivera. Così cominciavamo al mattino a declamargli i suoi versi, a colazione. Solo che Nastase li recitava pure in campo, per farlo arrabbiare».
E con lei, oltre al gatto nero?
adriano panatta gazzetta dello sport 1979
«Avevamo giocato un’esibizione a Buenos Aires e dovevamo farne un’altra in Venezuela, c’erano anche Borg e Gerulaitis, simpaticissimo, con la sua chitarra. Si ruppe l’aereo, arrivammo a Caracas via Rio e Miami, eravamo a pezzi. Propongo a Ilie un accordo: non ci sono premi, ognuno ha già avuto il suo cachet; il primo set giochiamo sul serio; chi lo vince, vince pure il secondo.
Lui accetta, a una condizione: “Non mi fare la palla corta, non ho voglia di correre”. Primo punto. Batte lui, sulla riga. Io faccio un movimento strano, e ne esce una palla corta vincente. Sentii il ruggito di Nastase: Maccarone maledetto! Giocammo alla morte per tre ore e mezza, vinsi 7-6 al terzo.
A ogni cambio di campo, Nastase mi ringhiava: Maccarone, mi hai fatto la palla corta!».
E Borg?
«Un matto calmo. Il contrario di me; infatti siamo sempre andati d’accordo».
Lei Panatta poteva perdere contro chiunque, e vincere contro chiunque.
«Non la trovavo una cosa molto importante».
Le uniche due partite che Borg perse a Parigi in vita sua le perse contro di lei.
«Io volevo sempre giocare con Borg, perché pensavo di vincere sempre. Aveva un gioco che si adattava al mio. Detestavo gli avversari che mi prendevano la rete. Borg invece non mi attaccava mai, io sceglievo la palla giusta per scendere a rete, oppure lo chiamavo avanti con una smorzata. L’ho battuto sei volte, ho perso dieci, ma sempre di misura».
Ricordo la finale di Roma 1978 al quinto set. Il pubblico del Foro Italico, che la adorava, tirava le monetine a Borg.
«Vinsi il primo set 6-1. Björn mi disse: alla prossima monetina, mi ritiro. Li feci smettere. Al quinto set qualche monetina arrivò ancora, ma Borg fece finta di non vederle. Ormai era sicuro di vincere».
A Parigi 1976 lei lo batté ai quarti, e vinse il torneo. Primo italiano a conquistare uno Slam dopo Pietrangeli, ultimo prima di Sinner.
«Vidi il match degli ottavi tra Jauffret e Borg al café Flore di Saint-Germain. Giocarono cinque ore. Ero l’unico a tifare Borg».
Jauffret era un mediocre. Björn Borg è stato uno dei tennisti più forti di tutti i tempi.
«Lo so, mica ero tanto normale. Ma Jauffret mi innervosiva. Con Borg sapevo che avrei dato il meglio».
Borg vinse cinque Wimbledon e sei Roland Garros. Poi cedette di colpo e si ritirò a ventisei anni.
«Gli era partita la brocca. Il tennis, com’è noto, l’ha inventato il diavolo. Un grande tennista si consuma prima mentalmente che fisicamente. Björn si era consumato».
Lei batté anche Connors, in finale agli Open di Svezia, quando era numero 1 del mondo. Come lo ricorda?
«Uno stronzo. Molto antipatico. Sgradevole. Fuori dal campo diceva battute che non facevano ridere. In campo si comportava male. Non ha mai abbracciato nessuno in tutta la sua carriera, tranne me, alla fine di un epico match al quinto set agli Us Open».
Neanche con Barazzutti eravate amici.
adriano panatta ph archivio intesa san paolo
«Non uscivamo insieme la sera, non facevamo le vacanze; del resto io stavo sempre con Paolo Bertolucci, fin da ragazzino. Però, quando ci giocavamo la Davis, con Corrado eravamo una squadra. E Corrado in Davis dava l’anima».
Ma prima della semifinale del Roland Garros 1978 lei caricò Borg contro il povero Barazzutti.
«Fu solo una battuta, per ridere. Gli dissi: “Björn, ma che gli hai fatto al Barazza? Dice che domani ti massacra”. “Ah, ha detto proprio questo?” sogghignò».
Come finì?
«Borg gli lasciò un solo game».
Un game?
«Gli diede 6-0, 6-1, 6-0. Ma mica era colpa mia. È che Corrado aveva il suo stesso gioco. E quando si incontrano due che hanno lo stesso gioco, vince sempre il più forte».
Con voi l’Italia scoprì il tennis. Serafino con la maglietta azzurra gridava a pieni polmoni: «Adrianooooo!».
adriano panatta loredana berte 1
«Non aveva i soldi per il biglietto. Si metteva fuori dallo stadio e urlava talmente forte che lo facevano entrare per disperazione. In Davis ci seguiva pure in trasferta. I direttori degli hotel trovavano Serafino sul divano della hall: “Questo signore è con voi?”. Finivamo per pagargli la camera».
In Davis vinceste in Cile e perdeste altre tre finali.
«Le giocammo tutte e quattro all’estero. Nel 1979 contro McEnroe e Gerulaitis avremmo perso comunque; ma se avessimo giocato in casa avremmo battuto sia l’Australia nel 1977, sia la Cecoslovacchia nel 1980. E pure il Sud Africa in semifinale nel 1974».
Nella finale di Praga 1980 vi rubarono di tutto.
«Una trappola. Ogni nostra palla sulla riga era chiamata fuori. Era dicembre, ci fecero trovare gli spogliatoi ghiacciati. La polizia politica picchiò e arrestò un nostro tifoso, dovemmo fermarci per farlo liberare. Era pure un militante del partito comunista, povero».
Cile 1976. Le magliette rosse.
«La finale andava giocata e vinta, ma un segnale politico al dittatore Pinochet e al mondo andava dato. Così convinsi Paolo a scendere in campo nel doppio con la maglietta rossa. Lui era contrarissimo: “Questi ci sbattono in galera!”. Ma no Paolo, non possono farci niente. “E poi Adriano lo sai che io voto liberale!”. Alla fine si convinse. Gliene sono grato ancora adesso».
john mcenroe adriano panatta napoli 1981
Adesso chi vota?
«Non voto da tempo. Solo alle elezioni locali, dove scelgo la persona».
La Schlein non la convince?
«Non mi convince nessuno. Sono amico di Carlo Nordio, che non è certo un uomo di sinistra, ma mi racconta di Churchill e della Seconda guerra mondiale. Non parliamo di politica».
La Meloni?
«Fa la Meloni. Fa il suo. In un mondo che mi fa impressione».
Cosa le fa impressione?
«Tutto. La guerra in Ucraina. Il massacro di Gaza. Trump presidente degli Stati Uniti. Alle sei del mattino leggo il Corriere. E mi angoscio».
Chi è il giocatore più intelligente con cui ha giocato?
«Fibak, il polacco. Pochi mezzi, ma geniale. E poi McEnroe. In campo era insopportabile: dovevi menargli e basta. Ma è un uomo straordinariamente intelligente. Qualche anno fa abbiamo giocato insieme in doppio a Parigi, al torneo delle leggende. Mi diceva: vieni Adriano, andiamo ad allenarci. ’Ndo nnamo, John? E lui: ad allenarci! Dobbiamo vincere!».
Avete vinto?
«Abbiamo perso. McEnroe ha giocato molto meglio di me, che non gioco mai, sono appesantito e ho quasi dieci anni di più; però ha ceduto il servizio decisivo. Mi stavo imbarcando per tornare a Roma quando mi è arrivato un suo WhatsApp: “Scusa se ho perso quel servizio”».
E la persona più intelligente fuori dal campo?
«Paolo Villaggio. Ci siamo incontrati tra Roma e la Sardegna, e siamo rimasti amici per tutta la vita. Era uomo di una cultura pazzesca, come avrebbe detto lui».
Mostruosa.
«Era più cinico di me, perché il cinismo genovese è più profondo di quello romano. Mi disse: ci sono quattro libri che non puoi non avere letto».
Quali?
«Delitto e castigo di Dostoevskij. E poi Kafka: La metamorfosi, il Castello, e le Lettere.
Io li comprai tutti e quattro. Li tenevo sul comodino, ma non osavo aprirli. Quando Paolo morì, li ho letti. Tutti».
(...)
Villaggio e Tognazzi le fecero perdere il torneo di Montecarlo.
adriano panatta loredana berte 1972
«Ero in semifinale con Vilas. Paolo e Ugo mi dissero: stasera ti raggiungiamo per cena e domani andiamo a vederti. Dissi: no, stasera non venite, domani ho Vilas. “Dai Adriano, massimo alle nove siamo lì”. Arrivarono alle undici e mezza. Tognazzi si ubriacò, vomitò nei giardini dell’hotel de Paris, gli tenevo la fronte, lo portai a casa, facemmo l’alba. Il giorno dopo Vilas mi diede 6-2, 6-2. A ogni cambio di campo sputavo dal campo a Paolo Villaggio e a Ugo Tognazzi».
Federer, Nadal, o Djokovic?
«Federer è il tennis. Gli ho visto fare cose che so che non si possono fare; ma lui le faceva».
Oggi chi le fa?
Qualche volta Alcaraz».
È più forte di Sinner?
«Ha punte più alte. Sinner è più costante. Un caterpillar: quasi imbattibile. Ha un gioco — non voglio sembrare irriverente — schematico, molto elementare, basato su fondamentali ottimi, meglio il rovescio del dritto. Si muove benissimo per la sua statura. È molto basico. L’altro può fare cose che non ti aspetti. Tipo il super tie break di Parigi: dopo 5 ore e mezza, una cosa da fenomeno. Ora cominciano a conoscersi meglio. Diventeranno i nuovi Federer e Nadal: giocheranno tante finali, una volta vincerà l’uno, una volta l’altro. Finora ha vinto di più Alcaraz».
E Nadal?
«Quando conquistò il ventunesimo Slam, in Australia, rimontando Medvedev al quinto set, mi sono commosso. Un giocatore pazzesco, a livello fisico e mentale. Come si fa a vincere 14 volte il Roland Garros? Pare uno scherzo. Ma l’episodio che racconta meglio Nadal non è una vittoria».
Qual è?
«Aveva perso contro Djokovic. Una delle sue rarissime sconfitte a Parigi. Era stanco, sudato, morto dentro. Carico di racchette. Incazzato come un toro. Lo incrociai negli spogliatoi. Avrei voluto smaterializzarmi. E sa cosa fece Nadal, anziché mandarmi a quel paese, come avrebbe fatto chiunque?».
Cosa fece Nadal, sudato, carico di racchette, incazzato come un toro?
«Mi cedette il passo: “Prego, Adriano”. Questo significa avere tenuta. Avere forza morale. Aver avuto una buona educazione».
Lei non fu altrettante gentile con Salomon, negli spogliatoi di Parigi, prima della finale del 1976.
«Si stava guardando allo specchio. Gli arrivai da dietro. Ero una spanna più alto di lui.
Non resistetti e gli dissi: “E tu, con quel fisico, vorresti battere me?”. Non si fa, lo so. Ma mi divertiva troppo».
È la cosa peggiore che ha fatto?
«No. Con Mita Medici, che si chiama in realtà Patrizia, mi sono comportato molto peggio. Era una ragazza deliziosa. Ma una sera a Milano, al Santa Lucia, arriva Loredana Bertè. Pelliccia di scimmia, modi da star. Andai via con lei. Mi comportai come una merda. Me ne sono sempre vergognato».
Adriano Panatta e Loredana Bertè erano una coppia da film.
«Una sera andiamo al cinema. Loredana aveva una minigonna ascellare. Mise la gambe sul sedile davanti. Si accesero le luci nell’intervallo: era praticamente nuda. Dalla galleria mi gridarono: “A Panatta, puoi pure vincere, ma vatteneaffanculo...”».
Celebre l’incontro con Renato Zero.
«Loredana mi dice: andiamo a prendere un mio amico, ci aspetta sotto il balcone di piazza Venezia. Arriviamo e vedo questo ragazzo magrissimo, con i capelli lunghi, vestito da marziano, tutto luccicante. Grigio metallizzato. Era Renato. Un personaggio meraviglioso. Gli anni 70 furono meravigliosi».
Se Pietrangeli ha avuto più di mille donne, chissà Panatta…
«La penso come Agnelli: parlo con le donne, non delle donne».
Agnelli l’ha conosciuto?
Eravamo in vacanza in Sardegna a casa di Malagò. L’Avvocato chiamò all’alba, noi eravamo appena andati a dormire, risposi io: “Non le posso passare Giovanni, sta dormendo”. “Ma io sono Agnelli”. “E io sono Panatta, e non glielo posso passare”. Quando finalmente parlò con Malagò, Agnelli era un po’ seccato, un po’ divertito: “Però quel Panatta, che caratteraccio...”».
Grandi amori?
«Rari e preziosi. Anche ora ho un grande amore. Per lei mi sono risposato a settant’anni e mi sono trasferito da Roma a Treviso. Se non è una prova d’amore questa...».
Lei Panatta avrebbe potuto vincere molto di più.
«È quello che dicono tutti. Ma sarei stato più felice? ».
Della vittoria a Roma cosa ricorda?
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«Al bar del Foro Italico incontrai Wally San Donnino. La mia severissima maestra. Mi disse: non penserai mica che adesso ti dico bravo? Per carità, risposi; ci mancherebbe altro».
La morte le fa paura?
«Mica tanto. Sono ipocondriaco: mi sento morire tutti i giorni, un paio di volte al giorno.
E lo annuncio: ho mal di testa, sarà un ictus. Ho male al costato, sarà un infarto...».
Crede in Dio?
«Mi farebbe molto piacere».
E nell’aldilà?
«È un mistero. Vorrei tanto ritrovare mio papà e mia mamma, gli amici che ho perso, e anche aspettare quelli che arriveranno».
Lei non è un cinico. È un sentimentale.
«Sono anche sentimentale».
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ADRIANO PANATTA - FOTO LAPRESSE
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AMATO PANATTA LETTA RIVERA
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