IL FALLIMENTO, PRIMA INTELLETTUALE E POI POLITICO, DEL BERLUSCONISMO - ERA PARTITO CON LUCIO COLLETTI, SAVERIO VERTONE E PIERO MELOGRANI CHE AVEVANO VISTO IN LUI L’USCITA DALL’ITALIA IMMUSONITA E BLOCCATA DAL BEGHINISMO CATTOCOMUNISTA, ED È FINITO AGLI STRACQUADANIO, MINZOLINI E BONDI, CHE NON È UNA VISIONE DEL MONDO MA UNA FESTA DELLE OCCASIONI - PER IL POMPETTA È SEMPRE STATO MEGLIO AVERE IN PARLAMENTO UN COGLIONE OBBEDIENTE CHE UN INTELLIGENTE AUTONOMO…

Marco Filoni per "Saturno" de "Il Fatto Quotidiano"

Era il 1947 quando Sartre, in un famoso articolo, proponeva l'engagement politico dell'intellettuale come coscienza inquieta e mai sudditanza. Da noi Elio Vittorini e Palmiro Togliatti se le cantavano. La diatriba che li opponeva era: fino a che punto l'intellettuale deve suonare il piffero per la rivoluzione? Altri tempi, altri dibattiti. Tuttavia oggi con la caduta (definitiva?) di Berlusconi e del suo sistema di potere, si può forse azzardare un bilancio sul rapporto fra gli intellettuali e il berlusconismo.

«Quali intellettuali? Non mi pare che ce ne siano stati molti», ci dice Flavia Perina. Eppure è una storia che risale a Platone: il politico cerca chi è capace di avere una visione, idee, progetti. Nascono così i chierici, gli intellettuali organici, capaci di "pensare la realtà". Ma poi finiscono le stagioni politiche e quei chierici, spesso, cambiano velocemente il colore della giacca. Delusione rispetto a un ideale politico o semplice opportunismo? Succederà lo stesso ai saggi che furono affascinati dalla "discesa in campo" di B.?

Sin dagli inizi non mancarono gli intellettuali incantati - e poi presto delusi - da B. Alcuni pensarono allora di aver trovato l'occasione per intervenire e partecipare alla trasformazione del nostro paese. Lo ricorda bene Marina Valensise, storica firma del Foglio, da gennaio a capo dell'Istituto di Cultura italiano a Parigi. Fu chiamata la "stagione dei professori": Lucio Colletti, Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa, Piero Melograni e Marcello Pera furono eletti in parlamento nelle liste di Forza Italia (c'era anche il coltissimo filosofo Vittorio Mathieu, che però non fu eletto). Era il 1996. «L'opinione comune li bollò subito come opportunisti, venduti al soldo del potente. In realtà fu diverso», dice Valensise.

«Videro in B. la fine delle ideologie. Ma la loro esperienza parlamentare si scontrò con due ostacoli insuperabili. Il primo: la funzione parlamentare si svuotò completamente perché B. non lasciò più spazio alla mediazione. Il secondo: il premier avocò a sé tutta la rappresentanza popolare, in una deriva personalistica e plebiscitaria che tagliò fuori questi intellettuali». Anche il filosofo Giuseppe Bedeschi, che di Colletti fu allievo, legge la scelta di questi professori di grande prestigio a favore di B. come scelta teorica e non opportunista: «Si schierarono per le riforme liberali che egli prometteva».

E poi che successe? «L'idillio finì assai presto: Vertone ritornò a sinistra, Rebuffa votò per il governo D'Alema e Colletti dava un'intervista al giorno contro Berlusconi», prosegue Bedeschi. Soltanto Pera rimase fedele e diventò Presidente del Senato nel 2001. Valensise ricorda bene le sue conversazioni con Colletti di quel periodo: «Le descrizioni che faceva delle riunioni di partito erano divertentissime: lui era un uomo con un senso dell'ironia folgorante, era sagace e con una battuta poteva descrivere un mondo.

Fumando le sue sigarettine raccontava come si sceglievano i nuovi vertici del partito: nella stanza da pranzo di Via dell'Anima, mentre il cuoco Michele preparava gli spaghetti con le vongole... Ebbe subito chiarissima la difficoltà di contenere la personalità straripante e prorompente di B. dentro una struttura-partito nella quale lui e gli altri intellettuali potessero avere il peso tradizionale che era stato loro riconosciuto».

Anche Bedeschi in questo senso è chiaro: «In realtà gli intellettuali che avevano accolto con simpatia la discesa nell'agone politico di B., si accorsero che lo schieramento raccolto intorno al Cavaliere non aveva nessuna intenzione di realizzare riforme liberali».

Insomma, B. ha tradito gli intellettuali che avevano visto in lui una promessa carica di libertarismo e libertinismo, "sceso in campo" a cavallo delle sue televisioni quasi a realizzare la "fantasia al potere" del Sessantotto (questa la tesi del filosofo Mario Perniola nel libro Berlusconi o il 68 realizzato in uscita da Mimesis). «Più che tradire deluse, e molto», dice Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista da sempre a destra, firma del Foglio e di Panorama (già autore Mondadori, che però l'ha fatto fuggire per Bompiani, e "compare di Gasparri").

«Per molti B. fu liberatorio: l'uscita dall'Italia immusonita e bloccata dal beghinismo cattocomunista. Si presentava come modernità e creatività, incarnava un modello sovversivo, rappresentava tutti gli istinti libertari, anarchici e creativi ». Ma tutto ciò non si realizzò mai: «Non è potuto succedere perché in B. non c'era un "noi", c'era un "io". Non ha mai voluto creare qualcosa che fosse organicamente strutturato affinché si cambiasse la faccia dell'Italia. Perché non ha mai avuto nessuna soggezione nei confronti di Umberto Eco o di altri intellettuali, piuttosto guardava al successo di Mike Bongiorno, di Raimondo Vianello, di star come Fiorello o Paolo Bonolis».

Anche Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale («a mille euro al mese, ci tengo a sottolinearlo») e firma del Giornale, è stato un sostenitore di B.: «Ben capisco che Colletti, Melograni e gli altri siano andati con lui. Come capisco anche i motivi per cui se ne sono distaccati: per una delusione cocente. Ricordo che all'epoca parlai con loro: furono vittime di quella stessa delusione politica che anni prima toccò in sorte ad Arbasino, eletto con i Repubblicani. Ovvero, l'impressione che fare il parlamentare equivalesse a far nulla. E come Arbasino, anche loro si arresero per manifesta impossibilità a combinare qualcosa di buono». Eppure c'è qualche voce fuori dal coro.

È il caso di Dario Antiseri, filosofo liberale a cui in passato è stata attribuita una simpatia berlusconiana: «Gli intellettuali sono stati usati da B. al pari della scala che si butta via dopo esserci saliti, come diceva Wittgenstein. Però, di fronte al fatto che non si facesse niente per la scuola, per l'università, per la famiglia, allora quegli intellettuali della prima ora si sarebbero dovuti dimettere tutti quanti. B. non li ha traditi, sono loro che si sono traditi da soli: potevano reagire, dimettersi apertamente e indicarne le ragioni, e invece hanno preferito tacere. Diceva il grande filosofo cattolico Lord Acton che "il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente".

Per questo l'intellettuale deve seguire Popper quando dice che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza». Sembra dunque che essere organico significhi cieca obbedienza ai voleri del capo, l'abbandono dello spirito critico. Sorge allora il problema: perché non dire no? Perché continuare a star lì, in quel limbo della politica fatto di poltrone e nomine? «È una questione di compromesso - continua Bruno Guerri - che puoi accettare finché si riesce a far bene: e io faccio benissimo al Vittoriale, perché non continuare? Il problema è quando invece si preferisce la fedeltà ottusa all'intelligenza critica: meglio avere in parlamento un coglione obbediente piuttosto che un uomo intelligente che può esser in disaccordo».

Ecco, questo è il punto. Quei professori inizialmente organici al progetto politico di B., da chi furono sostituiti? Dai vari Stracquadanio, Minzolini, Fede e Bondi... «Figure pop - dice Buttafuoco - che incarnano meglio il berlusconismo. Non un sistema filosofico né una visione del mondo. Bensì una festa delle occasioni». Ora che l'occasione è persa, stiamo a vedere cosa succederà e quali saranno i cambi di casacca. Del resto, finito il Berlusconi premier, resta il Berlusconi imprenditore, padrone di tv, giornali e case editrici , che può continuare a retribuire i suoi fidi. C'è chi, come Bruno Guerri, attende un "progetto" di una destra nuova per constatare se poi sarà possibile costruirvi anche un'idea di cultura.

Ma gli intellettuali potevano fare di più. Vedremo se faranno la gara a dichiararsi anti-berlusconiani («proprio oggi, quando tutti scappano, bisognerebbe dirsi berlusconiani per stile ed eleganza», chiosa Buttafuoco). Vi è stato comunque, secondo Guerri, un «arrembaggio alle posizioni e alle connesse rendite»: senza fare nomi, «perché ognuno richiederebbe un trattato antropologico».

E Giuliano Ferrara, Marcello Veneziani o Vittorio Sgarbi? «Uomini molto complessi che non possono esser racchiusi in un contenitore molto semplice. Individui eccezionali nel senso di eccezione rispetto alla norma, e per questo o si rompe la scatola o si guasta il personaggio», continua Guerri. Il Cavaliere non ha trovato il modo di utilizzare le intelligenze che per un periodo ha avuto a disposizione. Qualsiasi tensione, come dice Buttafuoco, «veniva annacquata in un immaginario frou-frou». Forse è la dimostrazione che quella scatola era inadeguata. O forse, come ci dice Antiseri, «il ruolo dell'intellettuale è quello indicato da Kant: "non ha da portare lo strascico del re, ma la lanterna avanti al re". E i berlusconiani hanno portato soltanto lo strascico».

 

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