
BLOWING IN THE NOBEL – CLASSICI STRAVOLTI, POSE DA CROONER, PASSETTI DI DANZA E LA SOLITA INCONFONDIBILE VOCE: E’ PARTITO DA LONDRA IL PRIMO TOUR IN EUROPA DI BOB DYLAN DOPO IL NOBEL PER LA LETTERATURA - È MOLTO PIÙ DI UNA ROCKSTAR, E’ “UN EXTRATERRESTRE”, LO DEFINISCE UNO DEI SUOI FAN IN PLATEA. C’ERA ANCHE QUALCHE FEDELISSIMO VENUTO DALL' ITALIA: CARLO FELTRINELLI, MASSIMO MORATTI…- VIDEO
Enrico Franceschini per Robinson – la Repubblica
Tra classici stravolti e pietre miliari del canzoniere americano Cappello da cow-boy messicano, fazzoletto a quadri al collo, scarpe bianche e nere da ballerino. Bob Dylan si presenta così ai 2.286 spettatori che fanno tutto esaurito al Palladium, uno dei teatri del West End solitamente riservati ai musical.
È il suo primo tour in Europa dopo il Nobel per la letteratura. Ed è un ritorno a Londra: dove suonò per la prima volta ventunenne nel dicembre 1962 al Troubadour, uno dei primi folk club, e dove in questi giorni c' è una mostra dei suoi quadri, alla Halcyon Gallery. Eppure non dice una parola fuori dal testo delle canzoni, né quando entra in scena, né quando ne esce, né durante i ventuno brani del concerto. Solo alla fine, quando il pubblico ruggisce tutto in piedi spellandosi le mani ad applaudirlo, accenna un timido sorriso, indicando i fan con un dito in vago segno di ringraziamento.
Di anni, il mese prossimo, ne compie settantasei. Non li dimostra. L' aria è quella di un vecchio intramontabile ragazzo, che tiene magnificamente lo show per due ore filate, bis compreso, recitando la sua arte. Di rockstar settuagenarie ce ne sono tante. Ma lui è molto più di una rockstar. «Un extraterrestre», lo definisce uno dei suoi seguaci in platea. In tutti i sensi.
Inizia con Things Have Changed, quasi cavalcando il pianoforte, ritto a gambe larghe, una posa con qualcosa di sessuale. Poi siede sullo sgabello per fare al piano una versione rivoluzionata di Don' t Think Twice, It' s All Right. Si rialza per un' altra cavalcata al galoppo con Highway 61. Tra una canzone e l' altra, beve un sorso da un bicchiere di carta. Ogni tanto si sposta al centro del palcoscenico e agguanta il microfono come un crooner anni Quaranta per rivisitare i classici del passato: Stormy Weather, That Old Black Magic, Autumn Leaves (parole di Jacques Prévert).
Accenna passetti di danza: molleggiato, quasi barcollante. Ma è solo la leggerezza con cui si muove. Toglie una volta il cappello, per riassettarsi la capigliatura, lo rimette subito. La voce è come bourbon con ghiaccio. Inconfondibile. Sempre più dylanesca, se possibile. Dà l' aria di divertirsi: altrimenti, chi glielo farebbe fare? Si diverte certamente il pubblico: una sala di suoi coetanei entusiasti, chiome grigie, cinquantenni, sessantenni e oltre. Gli aspiranti eterni ragazzi, cresciuti conoscendo a memoria i versi di Bob. Anche qualche ragazzo vero, con look vintage, però. E qualche fedelissimo venuto apposta dall' Italia: Carlo Feltrinelli, Massimo Moratti. E qualcuno del posto, come Bill Nighy, l' attore che faceva il cantante in Love Actually.
Il pezzo che tutti aspettano arriva con il bis: Blowin' in the Wind.
Ma è irriconoscibile rispetto all' originale: nella musica è cambiato tutto, tranne le parole. E tranne lui, naturalmente: Robert Allen Zimmerman, il nipote di immigrati ebrei di Odessa fuggiti dalla Russia zarista. Ascoltandolo, ci illudiamo di non essere cambiati troppo neanche noi. È questa, forse, la risposta che soffia nel vento.