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IL CALCIO ITALIANO NON E’ SPETTACOLARE: E’ SOLO QUESTO IL MOTIVO PER CUI LA SERIE A NON VENDE ALL’ESTERO? - IL PRESIDENTE DEL MILAN PAOLO SCARONI HA RICORDATO CHE "SUI DIRITTI TV INTERNAZIONALI I NOSTRI CLUB INCASSANO 200 MILIONI, LA PREMIER LEAGUE 2,2 MILIARDI” - LA COINCIDENZA TRA LO 0-0 DEL DERBY DI ROMA, JUVE-INTER E IL 4-4 DI CHELSEA-CITY HA FATTO CHIEDERE A MOLTI SE SI TRATTASSE DELLO STESSO SPORT. IL GAP TRA ITALIA E INGHILTERRA RESTA INCOLMABILE. MA IL PROBLEMA NON E’ SOLO LO SPETTACOLO OFFERTO DALLE SQUADRE…

Paolo Condò per la Repubblica - Estratti

 

de siervo

Lo scorso marzo, quando ben sei squadre italiane si qualificarono per i quarti delle coppe europee, la Lega di Serie A organizzò in fretta uno spot tv che non aveva soltanto un intento celebrativo. Tre facce universalmente note e stimate del nostro calcio, Fabio Capello, Fabio Cannavaro e Luca Toni sedevano nella platea del teatro di Reggio Emilia raccontando in inglese l’ottimo momento delle squadre italiane, finché Capello decretava un solenne “Calcio is back”. Il messaggio era rivolto alle televisioni straniere, in vista della nuova tornata di trattative per i diritti esteri della Serie A: nessuno stava ottenendo in Europa i nostri risultati, e dunque ne tenessero conto allargando i cordoni della borsa. Magari a scapito degli altri tornei, perché mors tua vita mea.

 

Dieci giorni fa la stessa Lega di Serie A ha annunciato la vendita dei diritti a otto tv europee, dal Portogallo al Kosovo. L’amministratore delegato Luigi De Siervo ha segnalato un incremento degli incassi in quei Paesi del 38 per cento: bene, ma stiamo parlando di cifre piccole.

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La distanza dalla Premier resta disastrosa, come ha ricordato il presidente del Milan Paolo Scaroni: "Sui diritti tv nazionali le cose si sono concluse in modo accettabile, su quelli internazionali non riusciamo a ottenere ciò che vorremmo. Noi incassiamo 200 milioni, la Premier League 2,2 miliardi”. Se il gap con gli inglesi è abissale, negli ultimi anni siamo rimasti distanti anche dai 900 milioni che il mondo garantisce alla Liga, e comunque ben dietro i 360 incassati dalla Bundesliga. A livello di diritti nazionali le cifre sono vicine (Premier a parte), sono quelli internazionali a scavare un fossato profondo. “Calcio is back” era un’idea intelligente per riempirlo, ma quando un’infelice coincidenza di calendario ha programmato in contemporanea l’orrido 0-0 del derby di Roma con il 4-4 di Chelsea-Manchester City (è successo il 12 novembre) le prese in giro nei confronti della Serie A sono state una valanga. E mica provenienti dall’estero: la sarcastica domanda se si trattasse dello stesso sport galleggiava innanzitutto sui social italiani.

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Il tema è culturale, come ha ricordato Maurizio Sarri la scorsa settimana a proposito del suo breve passaggio juventino. Il club italiano di riferimento, reduce in quel momento da 8 scudetti consecutivi, aveva la voglia di provare una strada nuova ma non la convinzione. Per come è andata a finire (malgrado il nono scudetto), la decisione incoerente fu l’esonero di Allegri, non a caso richiamato al termine del girotondo che coinvolse anche Pirlo. Un peccato non veniale, semmai, è stato lasciar andare all’estero De Zerbi senza che nessun club di livello superiore al Sassuolo provasse la curiosità di testarlo.

 

La Lega amministra una competizione dove ognuno gioca come vuole, non può obbligare nessuno a un calcio più coraggioso e divertente. Ma lo slogan di certi allenatori che si rincorre dalla notte dei tempi – “chi vuole lo spettacolo vada al circo” – spiega perfettamente il problema del calcio italiano con gli spettatori-clienti di altri Paesi. Seguono l’invito, e vanno al circo.

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