IL CONFLITTO CHE SCONFISSE LA STORIA E DEVASTO’ L’ANIMA DELLA GENTE - CERONETTI PORTA IN TEATRO LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Anna Bandettini per La Repubblica

«Mi piacer ebbe poter portare lo spettacolo in giro oltre che al Piccolo Teatro di Milano - dice Guido Ceronetti - perché mi chiedo se adesso i giovani di Grande Guerra ne sappiano qualcosa. Una data, un'idea... ce l'hanno? Dell'attentato di Sarajevo cosa sanno? Niente di niente temo. Una parola come "trincea" oggi non corrisponde più a niente. Sento dire: "Il governo Letta è in trincea", "Berlusconi è in trincea"... frasi che mi fanno un certo orrore».

Indomito a 86 anni, incurante del fisico sempre più fragile e piccino, Guido Ceronetti, il basco scuro di sbieco sulla testa bianca, rievoca con la concretezza dell'accento piemontese quell'epoca fatale e tragica della nostra storia, unica per accadimenti, dolore, follie.

Scrittore, filosofo, dotto pensatore, straordinario teatrante da quando nel 70 decise di uscire dal limbo, ha infatti deciso che porterà in scena un'altra lettura possibile della Grande Guerra, Europa 1914-18 («ma dobbiamo immaginare un titolo più attrattivo», dice), debutto al Piccolo Teatro Grassi a maggio del '14, anno del centenario della guerra, interpreti quattro suoi giovani attori-allievi «e io, perché in quanto a fare l'invalido ho le carte in regola», ironizza.

Perché uno spettacolo sulla Grande Guerra?
«Perché fu una cosa tremenda, devastante, mortale che ha cambiato non solo la storia ma l'anima della gente. Ha cambiato l'Europa. Il nazismo ci fu perché c'era stata quella guerra lì: le condizioni imposte alla Germania, dure oltre ogni limite, erano tali da scatenare come minimo un Hitler... oggi che ci ragioniamo, si può dire.

E poi perché attraverso il teatro si possono mettere assieme dati e storie e arrivare a intuire cosa accadde in Europa tra il '14 e il '18. Perché la guerra cominciò, per esempio, è un mistero. L'Europa era in pace. Certo, alla Francia non era mai andata giù l'idea di aver perso l'Alsazia e la Lorena, ma non è sufficiente a spiegare quel che accadde».

La sua idea qual è?
«Forse bisognerebbe rileggere Jules Verne di I cinquecento milioni della Bégum scritto nel 1879. Parla di due città nemiche Stahlstadt, la città dell'acciaio che poi sarebbe la Germania e France-Ville la città dell'utopia che è la Francia. Per tutto il romanzo si sente che sta per scoppiare qualcosa di enorme, poi alla fine non accade perché il grande nemico di France- Ville muore. C'è in questo romanzo qualcosa che bisognerebbe rivedere».

Che vuol dire?
«Non so se ci riuscirò, ma mi piacerebbe tener conto del fatto che quella Guerra fu il trionfo dello spiritismo, del culto dei morti. Mi viene in mente il film di Abel Gance J'accuse che mostra le visioni d'oltre tomba dei soldati. Dalla Francia all'Italia si sviluppò la convinzione che quei morti non fossero morti, perché il fronte era misterioso e non si sapeva dove morivano i soldati. Così le famiglie che ricevevano la notizia di un figlio, di un marito, di un fratello scomparso non capivano. Erano convinti che sarebbe tornato e si rivolgevano a veggenti e cartomanti per sapere se stava bene, se era fuori dalla fogna della trincea... Questo li placava».

Un'interpretazione esoterica della Grande Guerra?
«Tenere un piede di qua e uno di là, nel mistero dell'oltre, a parte che io ci credo, mi sembra interessante, visto che è un aspetto che gli storici ignorano. Sì, l'idea fissa delle famiglie dei caduti era il ritorno. Giani Stuparich, medaglia d'oro, triestino, irredentista ha scritto un romanzo intitolato Ritorneranno. È un'idea fissa di quella guerra, una certezza che i morti sarebbero tornati. Forse era un fatto legato anche alla religione: la Belle Époque è atea, la Grande Guerra è credente.

Certo è che il culto dei morti è qualcosa di nuovo. In Francia non c'è paesino che non abbia un monumento con l'elenco dei caduti "pour la France". Nei cimiteri di guerra di Verdun ancora oggi si contano mezzo milione di visitatori l'anno. Anche il Sacrario di Redipuglia è visitato. E mi fa piacere che ci sia gente che torna sul San Michele, sul Grappa... Mio padre mi ci avrebbe voluto portare quando ero bambino. Lui la guerra l'aveva fatta in Trentino, sul Carso e sul Piave».

E che racconti le ha fatto?
«Ricordo poco. Ne parlava sempre, tanto che mia madre e io non ne potevamo più. La guerra gli aveva lasciato terribili reumatismi. Era anche stato ferito. Una volta tornato, come tanti, non aveva ricevuto niente: il titolo di cavaliere di Vittorio Veneto e la pensione di 60 mila lire quando aveva quasi 80 anni. Con quei soldi non si pagava neanche la retta del pensionato, ma era un uomo felice perché sentiva di averli guadagnati in quattro anni di fame, miseria, paura. Quella guerra logorò l'uomo, la fibra umana come testimoniano i libri di Gadda, Comisso, tutta letteratura che purtroppo non si legge più».

La conseguenza?
«Il rifiuto della storia e dell'interpretazione della storia. Una cosa comunque negativa. Io vorrei giovani con cui si potesse parlare perché conoscono. Andrebbe bene anche conoscere film come Addio alle armi, La Grande Guerra di Monicelli, bellissimo». ...

E vedere il suo spettacolo. Perché le piace fare teatro?
«Sono io che piaccio al teatro. Mi ci sono dedicato tardi. A 40 anni. Ero un biblista ma con mia moglie volevamo adottare dei bambini e pensavamo che sarebbe stato bello intrattenerli facendo per loro un teatro di marionette, consapevoli che quando avremmo detto alle assistenti sociali che ai nostri figli avremmo fatto vedere le marionette invece che la tv ci avrebbero chiesto chissà quante carte.

Invece ci bocciarono direttamente la richiesta: dissero che io ero vecchio perché avevo 40 anni, anche se mia moglie ne aveva solo 25. A quel punto il teatro di marionette l'abbiamo fatto per i vicini di casa. Poi sono arrivati gli intellettuali e ora eccomi qui».

 

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