ROSY BINDI, SUSANNA CAMUSSO, ANNA FINOCCHIARO: LE SENTINELLE ACIDELLE DELL’ANTI-RENZISMO - RONDOLINO: ‘È SCESA IN CAMPO LA SQUADRA DI GUASTATORI PER IMPEDIRE A RENZI DI VINCERE LE EUROPEE’

Marianna Rizzini per ‘Il Foglio'

Se ne stanno lì schierate, impassibili, in fila davanti alle slide di Matteo Renzi come le statue non sorridenti e non corrucciate dell'isola di Pasqua. Se ne stanno ferme sulla riva ma pronte a scattare, un giorno esplicite un giorno criptiche, un giorno spiritose un giorno minacciose, un giorno in nome della politica un giorno in nome del galateo, e a volte quasi sospirano di nostalgia mentre vigilano sul vecchio mondo già mezzo inabissato.

Hanno l'espressione di chi vagheggia il ribaltamento o almeno il contenimento dell'onda renziana che le ha per il momento sommerse, ma non hanno fretta, anzi: alla corsa del premier bullo, ai suoi grandi balzi e ai suoi calendari, oppongono la resistenza della roccia (tu puoi anche farci arrivare l'acqua fino al collo, caro Matteo, ma noi da qui non ci spostiamo e chissà che la marea non ti riporti al punto di partenza). Si chiamano Rosy Bindi, Susanna Camusso, Anna Finocchiaro (con la partecipazione pro pensionati di Carla Cantone e quella twitteriana di Chiara Geloni).

Vuoi per la storia personale, vuoi per il riflesso da Stranamore di chi avrebbe voglia di usare l'arma "fine di mondo" contro il Renzi segretario corpo estraneo, vuoi per i piccoli screzi del passato con un guascone fiorentino che ora è premier, vuoi per la psicologia da militanti pre-Leopolda profondamente irritate dallo schema di pensiero, dal lessico e forse persino dal look di chi sale sul palco durante le kermesse renziane - per tutte queste ragioni e forse anche per la sensazione di essersi mosse troppo presto o troppo tardi - queste reduci dell'altro mondo sono diventate combattenti quotidiane sul fronte del "no", armate di parole e silenzi, allusioni e battute: no alla legge elettorale fatta così (e con l'uomo nero B.), no alla Cgil fuor di concertazione, no al Senato passacarte, no agli over-sessanta usati come bancomat, no all'inno di giubilo collettivo davanti agli hashtag del premier (la "svolta buona", e perché mai chiamarla già così?, vogliamo vedere gli atti, dicono le resistenti. E che cosa intende Renzi quando vuol parlare delle cosiddette "riforme di cui non parla"?, si chiede dal suo avamposto polemico in rete Chiara Geloni, già direttrice di YouDem, fede bersaniana stretta, nonché autrice dell'amarcord dolente "Giorni bugiardi", libro sempre bersaniano scritto a quattro mani con Stefano Di Traglia).

Guardiane incrollabili della conservazione, queste statue vigilanti piantonano ogni bivio reale e virtuale, a ogni ora del giorno, per vedere se per caso qualcosa sfugga alla sbrigatività del premier. Avessero loro in mano il telecomando che Renzi ha esibito l'altro giorno dopo il Consiglio dei ministri e delle meraviglie annunciate, lo userebbero subito, quantomeno per alzare il ponte levatoio e mettere l'ex sindaco di Firenze in quarantena, con in mano la carta "imprevisti o probabilità" del Monopoli.

E se è vero che il segretario Cgil Susanna Camusso, davanti ai dieci miliardi di euro promessi da Renzi a dieci milioni di lavoratori, ha dovuto alleggerire formalmente il tono ("se il premier non ci consulta ma fa quello che noi chiediamo va bene", ha detto la sera del 12 marzo a "Otto e mezzo"), è pure vero che alto si è levato il suo lamento per la non apertura di tavoli con le parti sociali (ne sa qualcosa pure il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, autore di una molto piccata lettera aperta a Renzi dalle pagine del Corriere della Sera).

Stai attento che ci vedrai in piazza, siamo pronti allo sciopero generale, era il monito di Camusso il giorno prima della promessa renziana degli ottanta euro in busta paga. "Tutto il taglio delle tasse a lavoratori e pensionati, e niente agli evasori", era il diktat preventivo alla vigilia del mercoledì di "svolta buona", ma già si sapeva che quello era un diktat a babbo morto, ché era già stato parcheggiato nel cassetto da Renzi il metodo concertativo- consociativo dei vecchi tempi (quello delle foto-opportunity Emma Marcegaglia- Susanna Camusso, quando ancora al governo c'era il Cav.; quello comunque in qualche modo omaggiato, dopo la parentesi montiana, dal governo Letta).

"Pace tra Renzi e i sindacati", titolano i giornali mentre Camusso concede la sospensione del giudizio (vediamo che cosa arriva nelle buste paga a maggio), ma la pace è fatta di sguardi guardinghi, specie in vista della riforma del lavoro vera e propria. E chissà se Camusso, sotto sotto, si trova persino a rimpiangere i brutti, bruttissimi giorni della riforma Fornero-Monti: due anni fa giusti giusti, e un doppio fronte che s'apriva fuori e dentro il sindacato (ieri come oggi, c'era sempre un Landini che, dalla Fiom, s'affacciava all'orizzonte). Fuori dalla Cgil, allora, bisognava dire che non si poteva togliere "la funzione deterrente dell'articolo 18", ma dentro si dovevano combattere i massimalisti che volevano il "ripristino" esatto del medesimo articolo 18 e non s'accontentavano della formula di compromesso di Camusso (che parlava di "riconquista del reintegro").

Oggi invece le tocca mostrarsi contenta, ché la sua irriducibilità non può spingersi all'assurdo di farsi dire da Renzi, com'è accaduto nei giorni scorsi, "volete scioperare per più soldi in busta paga?". E tocca fiutare il vento giorno per giorno e aggiustare il tiro, non tradire sconcerto dal collegamento televisivo con fazzoletto rosso malinconico nel taschino e sfondo di pianta semitropicale (sempre a "Otto e mezzo", due sere fa), e far finta di non essere troppo risentiti per le picconate date da "Matteo", il premier chiamato per nome che chiama a sua volta tutti per nome. Picconate al rituale e al lessico del balletto tra parti sociali per come lo conosceva lei, Susanna Camusso, l'ex socialista lombardiana che aveva scalato tutta la Cgil con paziente spirito "riformista", così dicevano i suoi estimatori, ma oggi pure il termine "riformista" pare venire da un mondo già archiviato.

Altro che concertazione: questo è l'amaro sciroppo per la marinaia Camusso, donna velista abituata all'imprevedibilità dei flutti e alla routine da palazzo sindacale, ma non alla riedizione rovesciata del disagio vissuto sotto il governo Monti (ora, di fronte agli annunci renziani - "soldi in più in busta paga a maggio, sennò sono un buffone", ha detto il premier a "Porta a Porta" - un sindacalista non può neanche denunciare fantomatiche "politiche di destra", epperò di fatto il suo peso è ridotto).

E neppure può fare la faccia troppo dubbiosa, ora, la solida segretaria Spi-Cgil Carla Cantone, soldato che presidia i pensionati: "Non chiederemo un contributo sulle pensioni di 2-3 mila euro", ha detto ieri il premier, e Cantone, prima perplessa con riserva dagli schermi di "Ballarò", si mostra al momento non ostile, anche vista la rapidità di Renzi nel prevenire verbalmente il duro lamento sindacale (ma come per Camusso la domanda è: tolleranza fino a quando?

Si dà il caso, infatti, che Cantone, fino a tre giorni fa, proprio come Camusso, fosse più propensa alla linea del "bisogna fare di più" - per esempio, così diceva Cantone, "bisogna avere il coraggio" di colpire le grandi rendite). Se Cantone si mostra possibilista, Camusso non resiste al sarcasmo ("capisco che Renzi pensi che la concertazione vada abrogata...").

E pensare che Renzi e Camusso, prima che accadesse tutto (quando ancora al governo c'era il Cav.), avevano pacatamente discusso a proposito di commercio e Primo maggio a Firenze (Camusso non voleva i negozi aperti durante la festività), ma non avevano ancora incrociato le proprie visioni irriducibilmente diverse che fanno dire all'uno "ce ne faremo una ragione" dell'eventuale sciopero generale e all'altra che "questa fretta di abolire il Cnel" la trova un po' strana. Non solo lei in verità l'ha trovata strana, a giudicare dal tweet implacabile di Chiara Geloni durante la conferenza stampa del premier: "Posso partecipare all'asta per la sede del Cnel?".

Qualsiasi cosa Renzi dica, in ogni caso, c'è sempre una sentinella della conservazione anche antropologica che si erge a difesa del mondo indispettito dalla maratona del "cambiare verso" e dal governo-ragazzetto che si lancia a capofitto nell'arena.

E a questo punto nessuno può dubitare della sincera opera di capillare vigilanza anti renziana dell'ex ministro della Salute ed ex presidente del Pd Rosy Bindi, indomita non-rottamata e anzi rinvigorita pasdaran del "no", un "no" tutto sommato facilitato dall'andazzo nei gruppi parlamentari. Io questa riforma non te la voto, ha detto Bindi al premier dalle pagine di Repubblica (ma anche durante l'assemblea dei deputati, in uno scontro a tu per tu in cui nessuno dei due ha nascosto di essersi detto quello che c'era da dire).

"Voto per la doppia preferenza di genere", aveva detto il giorno prima la disobbediente Bindi, addolorata (per il partito più che per il segretario Renzi) nel far sapere che la "nuova ferita" inferta al Pd da quei nuovi franchi tiratori sulla parità uomo-donna le ricordava tanto l'assassinio della candidatura Prodi per la presidenza della Repubblica - e si sa che nel Pd evocare il delitto, quel delitto, significa rovesciare in mezzo alla stanza l'alambicco dei veleni, reso ancora più velenoso dal cambio di governo in corsa Letta-Renzi.

Non partecipo alla festa, è la linea di Rosy, mai come oggi paladina delle liste non-bloccate e mai come oggi preoccupata per le soglie di sbarramento - e a questo punto, per completare l'azione pesticida contro il premier-bullo, la sua ira si tinge addirittura di dipietrismo, con tocchi di Palasharp, dal nome del palazzetto lombardo che nel 2011 ospitò il "noBday" di Libertà & Giustizia ("sacrificata la Costituzione all'accordo con Berlusconi", ha detto Bindi alla vigilia del voto sull'Italicum).

In confronto pare zucchero la vecchia ruggine Bindi-Renzi (ma quant'è nervosa Rosy, diceva lui a fine 2012; nervoso è lui, che sa che perderà, rispondeva lei alla vigilia delle primarie vinte da Bersani, il quale però poi, nel febbraio 2013, non riuscirà a vincere davvero le elezioni). "Bersani, Bindi, Camusso e presto Finocchiaro: la squadra dei guastatori è scesa in campo per impedire a @matteorenzi di vincere le Europee", scriveva su Twitter qualche giorno fa Fabrizio Rondolino, alzando il sipario sullo spettacolo senatoriale prossimo venturo: eccola, Anna Finocchiaro, ultima e più agguerrita (e solitamente silente) sentinella.

Ecco l'ex ministro ed ex presidente dei senatori pd nonché attuale senatrice in attesa dell'Italicum dietro la porta della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Eccola che annuncia ad "Agorà" di voler intervenire sulle quote rosa per garantire "la democrazia paritaria" e sulle soglie di sbarramento (troppo alta quella dell'8 per cento per chi corre da solo, dice, e troppo bassa quella per il premio di maggioranza, da portare secondo lei al 40 per cento). Parla con la sua bella voce da fumatrice, Finocchiaro, un tempo regina della frontiera nell'ex Pci-Pds-Ds (contava i voti in Senato a uno a uno durante le perigliose navigazioni prodiane, e di tanto in tanto appariva "candidata a tutto", come dicevano scherzando, anche un po' ammirati per la raffinatezza dell'avversaria, i colleghi del centrodestra).

Un tempo ci si poteva permettere, nelle vesti di Anna Finocchiaro, di essere più garantisti degli altri (per esempio sul tema Mani pulite) e più temerari (a parole) degli altri, tanto che a un congresso degli ancora denominati Democratici di sinistra Finocchiaro si lasciò trasportare dialetticamente sul terreno classico, invitando i compagni a essere audaci come Temistocle e non attendisti come Aristide davanti ai persiani, e dunque a prendere il mare a cuore aperto e senza paura.

Ma i tempi cambiano, e Finocchiaro, da avanguardia che poteva sembrare, si è ritrovata retroguardia (e guardiana). Non solo: memore del veto renziano sul suo nome ai tempi delle candidature per il Quirinale, nell'aprile 2013, Finocchiaro oggi fa come il cinese e aspetta ("Mi spiace ma non può diventare presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea", aveva detto un Renzi non proprio diplomatico e galantuomo in una situazione già di per sé non rosea per il Pd. "Sei un miserabile", aveva risposto lei, "questo è un ignobile attacco da parte di un esponente del mio stesso partito. Sono dell'opinione che chi si comporta in questo modo potrà anche vincere le elezioni, ma non ha le qualità umane indispensabili per essere un vero dirigente politico e un uomo di stato").

E oggi, quando qualcuno le chiede a che punto siano i suoi rapporti personali con Matteo Renzi, Finocchiaro risponde serafica con un sorriso e un "non ci siamo frequentati in questo periodo", ma "dal punto di vista istituzionale" una qualche relazione "esiste". Perché c'è anche un altro smacco sotterraneo da dimenticare: eletto segretario del Pd nel dicembre 2013, Renzi è riuscito (per una serie di interessi e casi convergenti) a far incardinare alla Camera la riforma della legge elettorale che languiva in Senato nonostante i mesi di sciopero della fame del vicepresidente renziano della Camera Roberto Giachetti.

Ma Finocchiaro la sentinella non si sente poi così minoranza, nel partito, vista la composizione del gruppo pd a Palazzo Madama, e ora che l'Italicum è sulla via del Senato affila le armi. Non può però prendere di petto il premier, stavolta, come quando, in periodo di primarie, gli aveva sbattuto in faccia uno sdegnato rimbrotto: "Non siamo rami secchi, non sono abituata a questa volgarità". Ma può dire altro (e infatti l'ha detto): visto che la legge elettorale vale solo per la Camera perché si dovrà abolire il Senato, allora che si inizi proprio dall'abolizione del Senato, rimandando l'approvazione dell'Italicum.

Non è donna da scontro all'arma bianca, l'ex magistrato siciliano Finocchiaro. Emula della Marlene Dietrich che incerneriva con altezzosità noncurante e con un "cretino" i corteggiatori sgraditi ("cretino" è, non a caso, anche l'offesa preferita dell'ex ministro delle Pari opportunità), tanto più vorrà tentare di incenerire senza efferatezza evidente il segretario-premier. Ma finora si è concessa qualche escursione nella banalità della vendetta spicciola (per esempio: "Quando ho sentito la canzoncina dei bambini per Renzi mi è sembrato di tornare agli inizi del secolo scorso"). In attesa di vedere Finocchiaro-sentinella all'opera, c'è Geloni che rintuzza ("presidente quali provvedimenti ha varato il Consiglio dei ministri oggi?", era il tormentone internettiano dell'ex direttrice di YouDem-tv durante lo sfoggio renziano delle slide, e a chi la criticava accusandola di partigianeria, Geloni opponeva il suo attuale status di "giornalista semplice" che fa semplici domande. Ma il suo blog parla per lei, ogni giorno. E il 1° marzo Geloni ha superato se stessa con il titolo di un post: "No Matteo, D'Alema e Fassino non sono tuoi predecessori".

Da lì partiva tutto un ragionamento sulle radici non Pci- Pds-Ds di Geloni e Renzi (ex giovani del Ppi), e partiva pure, ma non "per fare la guastafeste", una requisitoria su Matteo che nel giorno dell'ingresso del Pd nel Pse faceva proprio quell'errore: chiamare "predecessori" i due ex segretari che non potevano aver diretto il Pd perché quando erano segretari il Pd ancora non c'era. E allora, scriveva la sentinella, "se non rispettiamo il passato (anche il nostro), non abbiamo futuro". Al lettore veniva il mal di testa, magari, ma lei, Geloni, si concedeva un'increspatura nell'impassibilità da guardiana e uno sbuffo d'insofferenza, ché quello doveva parerle, in fondo, come l'ennesimo incancellabile "giorno bugiardo".

 

ROSY BINDI Rosy Bindi ed Enrico LettaSusanna Camusso Nicola Zingaretti Luciano Violante e Anna Finocchiaro RENZI E PADOAN CHIARA GELONI Stefano Di Traglia GIORGIO SQUINZI E CECCHERINI A BAGNAIA RENZI E CAMUSSORENZI E CAMUSSOFabrizio Rondolino EX LOTHAR DALEMONI FABRIZIO RONDOLINO CLAUDIO VELARDI MATTEO RENZI ROBERTO GIACHETTI FOTO LAPRESSE

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