IL FALÒ DELLE IPOCRISIE - TOM WOLFE ATTACCA OBAMA "NON È UN VERO NERO AMERICANO" - E SVELA IN UNA BELLISSIMA INTERVISTA COME INVENTO’ IL TERMINE “RADICAL CHIC”

Vittorio Zucconi per "Venerdì - la Repubblica"

Nel soffice mormorio di un Central Park quindici piani più sotto, tra ritratti di sé, foto della bella figlia a cavallo e cascate di libri d'arte, l'uomo che bruciò New York manda gli ultimi bagliori del falò delle proprie vanità.

Tom Wolfe è come sempre vestito nella uniforme che ha adottato da mezzo secolo, molto Gentleman del Sud (dal quale proviene, la Virginia), completo di rasato bianco panna con camicia azzurra e cravatta chiara. Ma il giornalista - così gli piace essere chiamato e così dice una targhetta smaltata alla francese sul suo scrittoio, journaliste - che per primo osò accoppiare cronaca e narrativa, inchiesta e racconto, e cambiò per sempre il giornalismo, non ha perso a 82 anni niente della elegante ferocia che lo consuma.

«Il giornalismo non è cambiato, non esiste più, è in agonia. Oggi si viaggia con la pseudo-informazione sparata come pallini da caccia dallo schioppo dei blog e dei social network, dove colpisce colpisce». Ma come, lei non usa Twitter? «No, e mi dispiace, perché il nome è tanto carino».

Tormentato da un'artrosi deformante che lo contorce in antico ulivo, ma sempre inflessibile lavoratore come quando da «precario», da freelance, doveva produrre per mangiare, mezzo secolo fa, Wolfe ha appena pubblicato il suo nuovo corposo libro di 710 pagine con un titolo, e una storia, che lo riporta per direttissima al suo successo del 1987: Back to Blood (in Italia Le ragioni del sangue).

Ma non è il sangue dei gialli o dell'horror, che nel libro è quasi assente, è una frase ripresa dal Falò delle vanità, per indicare l'estremo rifugio quando la crosta dell'ipocrisia, della vanagloria, della finzione politically correct si spezza e tutti ritornano al sangue, nell'irresistibile risucchio verso la propria comunità, la propria parrocchia, la propria origine. Appunto il proprio «sangue» che sta inesorabilmente corrodendo il sogno dell'America come fonderia di razze. In questo libro, il «sangue rifugio» non è più a New York, ma a Miami, ormai la prima città latina negli Stati Uniti.

Anche quando parla in astratto, Wolfe, che scrisse il primo romanzo a 57 anni, non riesce a non raccontare, a non essere giornalista. «Non avevo mai capito bene che cosa intendesse dire Marshall McLuhan quando scrisse che la televisione avrebbe riportato le nazioni al tribalismo e al primitivismo sociale, ma ora, con l'avvento di internet, lo si vede.

È cambiata la percezione della realtà. Quando un giornale riportava una notizia, il lettore era scettico, come l'indiano al quale era mostrato un pezzo di carta dall'uomo bianco, e non se ne fidava. Ora le tv, ma soprattutto i blog, i siti, sono come sciamani sulla piazza del villaggio che sussurrano qualcosa all'orecchio e per questo sembra vero».

È stato a lungo marchiato come «conservatore», «reazionario», addirittura «filo bushiano» dal generone di Manhattan, molto ricco e molto liberal, che «scoprì che avevo votato per George W. Bush come se avessero scoperto che ero un pedofilo molestatore di bambini», ride oggi con la risata leggera di chi non può più permettersi di sghignazzare senza scuotere troppo il torace esile. Ma l'ostracismo di quello che lui, per primo, battezzò con un'espressione destinata a diventare planetaria - i radical chic - fu terribile.

Me ne racconta - il principio per lui è sempre il racconto - l'origine, e già sembra una novelletta morale. «Stavo nella redazione di Harper's, uno dei periodici più alla moda e progressisti, nel 1969, a cercare lavoro. Gli uffici erano vuoti e andai a curiosare sul tavolo di David Halberstam, allora un dio del giornalismo, un Pulitzer. Vidi il cartoncino di invito a un dinner party a casa di Leonard Bernstein, il grande direttore d'orchestra, al numero 895 di Park Avenue, uno dei palazzi più sontuosi di Manhattan. C'era il numero per lo RSVP, la risposta, chiamai, dissi: sono Tom Wolfe e accetto.

Nessuno controllò niente. Andai alla festa e scoprii che era in onore delle Black Panthers, s'immagini, i rivoluzionari neri più di sinistra e più violenti del momento. Ci feci un servizio molto sarcastico per Harper's, sfottendo questi super ricchi bianchi, che celebravano un movimento che prometteva di farli fuori tutti, e la buona società di New York non mi perdonò mai di avere demolito la loro ipocrisia. La signora Bernstein scrisse furiosa a Harper's, indignata perché mi ero portato un registratorino. Che villano».

Da quello, venne l'idea per il grande falò delle vanità? «Non proprio. L'idea mi venne durante una visita a Firenze. Con il tour organizzato dell'American Express, che gli intellettuali schifano perché fingono di sapere già tutto mentre non sanno niente, arrivammo in piazza della Signoria e la guida ci raccontò che, su quella piazza, un monaco fanatico chiamato Savonarola aveva organizzato nel ‘400 il più grande dei suoi bruciamenti delle vanità, come li chiamava lui, il falò degli orpelli e delle ricchezze dei fiorentini. Un titolo meraviglioso, al quale mancava il libro, che scrissi dopo».

Ma Savonarola fu poi arso vivo e impiccato su quella stessa piazza.

«Un banale dettaglio» ride di nuovo, scuotendo l'antico ulivo del suo corpo «mica tutto può avere sempre uno happy ending, e io sono ancora qui».

E ancora aborrito dal mondo della letteratura e della critica, che non perdona mai il successo di vendita e la popolarità, e ha stroncato il suo ultimo libro su Miami come stroncò il falò immaginario delle vanità newyorkesi, mostruoso bestseller e poi filmone.

«Non mi hanno mai perdonato di avere dimostrato che il nuovo giornalismo, quello narrativo, può essere migliore della sterile letteratura intimista di un'America provinciale e suddita, soprattutto della cultura francese, che aveva abbandonato il realismo e il naturalismo dei grandi autori come Theo Dreiser, Hemingway, e soprattutto Steinbeck. Come i francesi avevano ripudiato Zola e Maupassant.

Steinbeck era un giornalista divenuto romanziere, lo sa? Riuscì a ottenere da un giornale di San Francisco - racconta - un accredito stampa, un vecchio camioncino, un materasso e qualche dollaro per andare a vedere con i suoi occhi la tragedia della Depressione nelle praterie arse e polverose, dalle quali le famiglie fuggivano verso Ovest. Ne uscì il ritratto definitivo di quei tempi, nelle Grapes of Wrath (Furore)».

Si capisce che un cultore del realismo e del naturalismo non può amare autori come J.D. Salinger, «troppo rinchiuso dentro di sé e dentro i suoi problemi mentali, ma bravissimo a creare il mito del proprio isolamento», dice, ma non è chiaro se, frustando a sangue New York, i trend della sottocultura pop, l'effimero di internet, sotto sotto si nasconda un amore tormentato, come il suo corpo, per l'America, oggi tanto odiata nel mondo.

«È naturale che ci odino, siamo troppo grossi e per questo sembriamo, e spesso siamo, anche prepotenti. Il resto del mondo e soprattutto l'Europa sanguinano di sciovinismo ferito, sentono di aver perduto la primazia, che un tempo avevano, e rovesciano su di noi il dolore. Non sanno che anche noi li ammiriamo e li invidiamo, per quegli accenti deliziosi con il quali storpiano l'inglese o lo pronunciano come la regina. Purtroppo noi americani non abbiamo accenti da ammirare».

In compenso, avete mille lingue e dialetti diversi, spesso incomprensibili fra di loro, e tutti arroccati nel proprio «sangue», nella propria tribù, come nella Miami insalatiera di cubani, haitiani, russi, jamaicani, colombiani, e ormai sempre meno wasp, i bianchi protestanti.

«Il melting pot, il crogiolo dove si fondevano le razze, si sta raffreddando, perché il modello jeffersoniano di società costruito sul lavoro, sulla disciplina, sul rispetto delle regole, o sulla scalata sociale, è finito. Un cubano a Miami non ha nessun motivo specifico per cercare di adeguarsi a un modello che non serve più ad avere successo. E l'informazione, monopolizzata prima dai grandi capitali che hanno distrutto la concorrenza e poi tribalizzata dalla Rete, addenta l'osso della narrazione negativa. Tutto è male, tutto è corrotto, tutto è decadente. E perché io, haitiano, cubano, messicano dovrei sforzarmi per essere integrato in un'America in disfacimento, dove comunque mi martellano con la storia che l'uno per cento possiede il 99 per cento di tutto?».

Ma poi, ecco Barack Hussein Obama, mezzo africano e mezzo euro, con nomi arabi e swahili, a vincere due elezioni presidenziali e a smentirla, caro Tom.

«Ah, e lei crede che Obama sia un black, un nero americano? Obama ha la pelle scura ereditata dal padre, ma ascolti come parla, segua il suo linguaggio, che è sempre la scia più autentica della verità. Sta accuratamente alla larga dal black english, dal lessico delle rimostranze classiche, parla pesando ogni parola. Lui e la moglie respingono la retorica del vittimismo, predicano la responsabilità individuale, dicono all'America nera di alzarsi, di sfruttare le occasioni che sono date ai suoi figli, di diventare i padroni della propria esistenza.

I Jesse Jackson e gli Al Sharpton, i politicanti predicatori cresciuti nella chiese battiste delle comunità di colore, lo hanno odiato, avversato, combattuto prima di arrendersi, quando hanno capito che Obama li aveva scavalcati e aveva superato la loro ideologia. Quando vinse pensai: ecco, almeno adesso non potranno più accusare noi americani di essere razzisti. Ma tanto lo faranno lo stesso».

Come? Un bushiano di ferro oggi mi canta le lodi di Obama, l'autentico «uomo nero» degli incubi della destra?

«Di Bush mi fu detto che era stato visto con un mio libro in mano. Che uomo di buon gusto, dissi a un intervistatore, e di buone letture» e qui l'autoronia lo costringe a bere un sorso d'acqua tra i cubetti di ghiaccio. «Bush mi piaceva perché era un personaggio non raffinato, ma deciso, che sembrava sicuro. L'operazione in Afghanistan, condotta con un centinaio di agenti della Cia e di Special Forces appoggiati dall'aviazione, fu grande. Poi, l'Iraq...».

L'Iraq...

«Una colossale idiozia. Ricordo che una sera parlai in un college, alla vigilia dell'invasione, e qualcuno mi chiese che ne pensassi. Penso che se le cose andranno bene, sembrerà a posteriori una buona idea, ma se andranno male sarà un disastro senza fondo. E a me, lo dissi, pareva già un'idea disastrosa».

Dal quindicesimo piano del suo palazzo, in quella East Side di Manhattan sorvegliata dalle gargolle, i mostri di pietra da Ghostbusters appollaiati sulle grondaie, si vede bene la guglia della Torre della Libertà che cerca di sostituire i due fumaioli di cemento, acciaio e alluminio ingoiati nel cratere dell'11 settembre. Tom Wolfe era a casa sua, in questo appartamento foderato di libri e occupato da un ironico pianoforte mezzacoda blu, un po' alla Liberace, che ha smesso di suonare da quando le sue dita devono limitarsi alla silenziosa tastiera del computer.

«La mattina dell'11 settembre fu la signora che mi fa da governante» dice indicando una severa, asciutta signora asiatica che gli versa l'acqua sopra i ghiaccioli del bicchiere «a svegliarmi. Mi disse che due aerei avevano colpito le Torri Gemelle e vidi bene il fumo che si alzava da loro, come dalle ciminiere di una vecchissima fonderia».

Che cosa pensò?

«Niente, ebbi soltanto paura. Poi vidi il fungo di polvere levarsi sopra il profilo di Manhattan, quando collassarono, e rimasi impietrito come le gargolle del palazzo. Fino a quando, nelle ore successive, vidi una fiumana di persone scendere giù da Madison Avenue e dalla Quinta, tutte silenziose, tutte ordinate, un'inondazione che defluiva, ma senza paura e non ebbi più paura neanch'io».

Per la dedica al suo libro, gesto di cortesia obbligatorio e piacevole, Wolfe carica una vecchia penna che succhia inchiostro nero dal calamaio, all'ombra di un maxi schermo da pc scintillante di alluminio satinato. Compone - senza occhiali - con un grafia da monaco, accurata di grassetti, zampine e puntini quadrati come nelle Bibbie amanuensi, polemico anche nel rifiuto di biro, rapidograph, roller. «In fondo non siamo poi tanto male noi giornalisti», scrive, con squisita, e improbabile concessione di reciproca vanità.
Se Savonarola ci vedesse, ci brucerebbe vivi tutti e due.

 

TOM WOLFE E IL SUO LIBRO IL RICHIAMO DEL SANGUE IL LIBRO DI TOM WOLFE IL RICHIAMO DEL SANGUE tom wolfe blue TOM WOLFE IL DECENNIO DELL IO RIEDITO DA CASTELVECCHI TOM WOLFE Tom WolfeBARACK OBAMA GIOCA A GOLF A MARTHA S VINEYARD BARACK OBAMA GIOCA A GOLF A MARTHA S VINEYARD IL PASTORE DEI DIRITTI CIVILI JESSE JACKSON BARACK OBAMA E BARBARA BUSH ALL'INAUGURAZIONE DELLA GEORGE W BUSH LIBRARY - 3Bush Clinton Obama11 Settembre New YorkSavonarola

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