FILM DI CARTA - QUANDO I REGISTI SI METTONO A SCRIVERE LIBRI: DA CRISTINA COMENCINI A SORRENTINO, FINO AL NEO-VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO, ROBERTO ANDÒ È UN FENOMENO SEMPRE PIÙ DIFFUSO, IN ITALIA COME NEGLI STATI UNITI - “SPESSO CI SI METTE AL COMPUTER PER ESORCIZZARE IL DISINTERESSE DEI PRODUTTORI, RISPARMIARSI UMILIAZIONI E ANTICAMERE” - E SUBITO ARRIVA LA STRONCATURA DEL LIBRO DI SORRENTINO…

1- REGISTI E ATTORI SCRITTORI
Michele Anselmi per "il Secolo XIX"

Perché lo fanno? Perché così tanti registi si mettono a scrivere romanzi? Roberto Andò, con "Il trono vuoto", ha appena vinto il Premio Campiello per la miglior opera prima, e magari, nel raccontare in chiave di metafora crepuscolare una storia che infiocina la politica italiana con l'occhio agli spasmi del Pd, non sperava di farne un film. Invece lo farà. Spesso, però, ci si mette al computer proprio per esorcizzare il disinteresse dei produttori, risparmiarsi umiliazioni e anticamere, lasciar volare la fantasia senza questioni di budget o di gusti popolari.

Scontato il discreto lavoro di editing, specie se a pubblicare sono case editrici importanti, da Einaudi a Feltrinelli, da Minimum Fax a Sonzogno, da Mondadori a Bompiani, bisogna riconoscere che il fenomeno è interessante. E riguarda anche attrici e attori. Come spiega Eleonora Mazzoni, autrice del toccante romanzo "Le difettose" su una donna alle prese con la fecondazione assistita, «fare film è costoso, io avevo l'urgenza di raccontare questa storia, e la letteratura è la forma più economica d'arte». L'urgenza spesso stimola lo stile, perché, diciamo la verità, i buoni libri raramente nascono da corsi di scrittura in stile Baricco.

Romanzi spesso all'insegna dell'auto-fiction, ma non autobiografici, volentieri innervati dalla ricerca espressiva. Di solito vendono poche migliaia di copie, ma ci sono le eccezioni. È il caso di "Quando la notte" e "La bestia nel cuore" di Cristina Comencini, che dell'intreccio tra letteratura e cinema ha fatto un tratto distintivo; ma anche di Paolo Sorrentino, che a due anni dal debutto con "Hanno tutti ragione", ripesca il protagonista prediletto per "Tony Pagoda e i suoi amici", già salito all'ottavo posto in classifica.

Chi è Tony Pagoda? «Un eroe del nostro tempo, il più grande personaggio della letteratura italiana contemporanea» esagera il critico Antonio D'Orrico, gran estimatore di questo cantante neomelodico cocainomane sulla quarantina, ritagliato sull'Antonio Pisapia del film "L'uomo in più", che affronta la vita con spavalderia e non confonde la monotonia col disastro.

A mobilitare la memoria, l'elenco è lungo, escludendo naturalmente Fabio Volo e Carlo Verdone. Vediamo: Marco Tullio Giordana con "Vita segreta del signore delle macchine", Enrico Caria con "Bandidos", Claudio Sestieri con "La seduzione del destino", Nina Mimica con "Vivere fa solletico", Umberto Lenzi con la saga poliziesca incentrata su Bruno Astolfi, detective antifascista nella Roma mussoliniana, Leonardo Pieraccioni con le raccolte di racconti "Tre mucche in cucina" e "A un passo dal cuore". E che dire di Davide Ferrario? Il suo "Dissolvenza al nero", nato come un divertissement cinefilo-letterario sulle avventure romane di Orson Welles nel 1947, è diventato nel 2006 un film britannico di Oliver Parker con Danny Huston, Paz Vega e Christopher Walken.

A proposito di attori americani. Eccone tre, di generazioni diverse, che si sono messi a scrivere romanzi con notevole fortuna, al punto da essere tradotti, almeno i primi due, pure in Italia. Ethan Hawke, classe 1970, ha sfornato "Amore giovane" e "Mercoledì delle ceneri"; Steve Martin, classe 1945, "Shopgirl", "Un cuore timido" e il recente "Oggetti di bellezza"; Gene Hackman, classe 1930, "Escape from Andersonville", ambientato nel fuoco della Guerra civile americana.

I critici un po' storcono il naso, gridando all'invasione di campo, ma neanche tanto. Prendete il nuovo libro di Martin, comico di vaglia, ottimo suonatore di banjo e gran collezionista d'arte, appunto "Oggetti di bellezza": «Questo romanzo è la prova definitiva del suo talento incredibilmente poliedrico» elogia "The Sunday Times"; mentre il "New York Times" ne loda «il modo incantevole con cui rievoca un'età dorata andata perduta».

Per alcuni è una seconda carriera, per il veterano Hackman, da tempo ritiratosi dai set per stanchezza e delusione, addirittura «una seconda vita». Il bello è che non si tratta di memorie, come nei casi di Michael Caine, Christopher Plummer, Raquel Welch o Leslie Caron, e nemmeno di storie esoteriche o new age alla maniera di Shirley MacLaine. No, in questa smania letteraria si riverbera il piacere di mettersi in gioco, di rompere la noia del set o forse il peso dell'inattività.

Prendete Ethan Hawke, attore e regista, direttore artistico di una compagnia teatrale, musicista, divo in ribasso belloccio e sfuggente, anche un po' maledetto nelle sue sfortunate vicende sentimentali, inclusa quella con Uma Thurman. "L'amore giovane" fu massacrato dai recensori ma adorato dai lettori, e dopo venne "Mercoledì delle ceneri", edito in Italia da Minimum Fax.

Nel giorno in questione rinasce James Heartsock, alter-ego abbastanza esplicito dell'autore: un giovanotto del terzo millennio, alquanto incasinato, che si arruola per inseguire una vaga idea di virilità, illudendosi di sottrarsi al pessimo rapporto col padre e ai guai con la fidanzata. «Meditavo da sempre di farlo, ma era stato "Top Gun", il film, a darmi la spinta decisiva. Tom Cruise su quella Kawasaki, Tom Cruise che si scopa quella bionda. Fantastico. Quello ero io. Sembra una cosa da deficienti, e adesso me ne rendo conto» scriveva Hawke, forse parlando anche un po' di sé.


2- PIÙ SOZZURA CHE ZABAIONE: TONY PAGODA CHI?
Guido Vitiello per "La Lettura - Corriere della Sera"

Delfini che si arrampicano sui monti, fiere dei boschi che si tuffano in mare: una volta che Zeus ha fatto buio a mezzogiorno, pensò Archiloco dopo un'eclissi di sole, ogni inversione dell'ordine naturale diventa possibile. Lo stesso può pensare chi entra oggi in un megastore e si vede davanti, poniamo, il dvd di un film di Alessandro Baricco e un romanzo di Paolo Sorrentino.

Ma come, i registi scrivono libri, i romanzieri girano film? E questo è il meno: troverà spettacoli allestiti da giornalisti e inchieste condotte da attori; manifesti ideologici stilati da comici e antologie di barzellette dei politici; libri di poesie firmati da rockstar e filosofi che incidono dischi pop. Ma prima di tornare ad Archiloco (e maledire Zeus) farà bene a leggere Montale: «Ora c'è stata una decozione / di tutto in tutti e ognuno si domanda / se il frullino ch'è in opera nei crani / stia montando sozzura o zabaione».

Largo ai factotum! La preoccupazione dell'«altrui mestiere» va scemando - e da noi più che altrove. Santi, poeti e navigatori, ma meglio ancora le tre cose insieme: c'è da tener viva una tradizione autoctona che dal prototipo di Leonardo (il genio integrale) discende a Pasolini (l'intellettuale multimediale).

Ma alle origini di questa caricatura di Rinascimento ci sono le mille piattaforme del marketing editoriale, dai talk show ai festival, un'industria di pantheonizzazione in vita che sforna in serie un prodotto tanto facile da smerciare quanto difficile da classificare: l'Autore (di qualunque cosa), di cui si dà per inteso che possa padroneggiare tutte le forme espressive in forza della sua personalità, e che è al tempo stesso icona warholiana, vip da scarrozzare, oracolo da interpellare, testimonial di cause nobili, dispensatore di aura in bomboletta e logo da apporre sulle merci più varie a garanzia di qualità.

Sozzura o zabaione? Prendiamo il nuovo romanzo di Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici (Feltrinelli), che prosegue l'esordio di Hanno tutti ragione (oltretutto, dalle sceneggiature romanzate ai romanzi veri e propri il salto è grande ma non tanto da rompersi una gamba). Anche qui è di scena il «vecchio cantante di successo e d'insuccesso», cinico e nostalgico, già protagonista del film L'uomo in più (dove però aveva cognome Pisapia).

Gli «amici» che Tony Pagoda incontra sono, come lui, vecchie glorie del mondo dello spettacolo - Carmen Russo, Antonello Venditti o Maurizio Costanzo - e giovani eroi pop (Ruby Rubacuori o Lavezzi), ma anche eminenze immaginarie (il politico berlusconiano in visita in Corea del Nord) e più anonimi compagni di strada. E il riluttante scrivano di tutte queste avventure, che rivelano le pieghe più cupe dell'Italia spensierata, è l'ex cognato Ughetto De Nardis, commerciante. Che non ha completato gli studi, e scrive dietro committenza di Tony prestandogli la prima persona.

La prefazione, quella la firma lui, annunciando di voler parlare «col cuore sulla manèlla pelosa». Ma questo italiano finto-dialettale piuttosto laido non è il solo pegno che il lettore deve pagare. Gli toccherà attraversare scene indicibilmente trash, i chihuahua di Carmen Russo che saltano addosso a Tony e lei che lo libera «a colpi di décolleté»; sorbirsi un bel po' di cattivo lirismo, il sole che tramonta «tirandosi appresso, al guinzaglio, un barlume di malinconia» e le hostess che guardano «la pioggia scrosciare dietro le finestre delle promesse mancate»; acconsentire a tante metafore formate con malagrazia («un grumo di rabbia, impotenza e nostalgia sembra che lo afferri per le caviglie») e ad altre che, affastellandosi, si distruggono l'un l'altra («farsi entomologo di questa folla di bipedi accalcati e abbigliati come pagliacci di serie C»). Sozzura o zabaione?

Dipende dai palati, ma è lo stile iperespressionista di Sorrentino, che ha fatto la fortuna dei suoi film: procede per accumulazione, mai per sottrazione, non sa rinunciare a nulla, vorrebbe fare di ogni frase un motto da scolpire su una lapide e di ogni inquadratura un pezzo da esporre al Guggenheim.

Punta a fare il virtuoso in tutti i canali espressivi, ma in fin dei conti i suoi sforzi sono rivolti a un solo fine: creare un personaggio smisurato («larger than life», dicono gli inglesi) e girargli ossessivamente attorno, come una carpa. Ma - e qui sta il dramma di Sorrentino - a dispetto di tutte le acrobazie formali i suoi eroi non prendono mai vita, e quel che resta è un campionario di tic, bizzarrie, gesti, aforismi, frammenti che indicano un centro vuoto.

Sulla copertina, neppure a farlo apposta, c'è uno specchio in cornice dove il lettore non riuscirà mai a mettere a fuoco un volto. È il simbolo di una patologia che affligge tanta narrativa recente, variante letteraria della «prosopagnosia», quel deficit percettivo che impedisce di riconoscere le facce. Storie e idee non mancano, ma incontrare un personaggio, un personaggio vero, è fortuna sempre più rara: vediamo aggirarsi per lo più moncherini, esseri acefali, argille mezzo sbozzate o poveri cristi schiacciati dai funambolismi verbali di chi li ha messi al mondo.

Sorrentino avverte più acutamente questa mancanza, ma quel che vediamo nelle sue opere è un uomo che si affanna a dar forma a gigantesche statue destinate a rimanere senza volto. Tanto da insinuarci l'atroce sospetto che i tuttofare del nuovo Rinascimento, alla fine, sappiano dar vita a un solo personaggio: l'Autore.

 

 

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