MA HANDKE NO: “LE CATASTROFI DELL'ATTUALITA'? NON ME NE FREGA NULLA. L’UNICA TRAGEDIA CHE VOGLIO RACCONTARE È LA MIA. SCRIVO LIBRI CONTRO LA STORIA. SONO ANCHE UN PO’ SCHIZZATO”

Sebastiano Triulzi per “la Repubblica”

 

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L’inizio con Peter Handke è sempre in salita. «Non so che cosa vuoi» dice prima di sedersi sul divano marrone nella hall dell’hotel di Cascais in cui abbiamo fissato l’appuntamento. Capelli bianchi sparati all’indietro, pizzetto accennato, occhialini tondi, le mani sovrapposte e strette a pugno, Handke è in Portogallo in veste di giurato per la sezione cortometraggi del festival di Lisbona e Estoril. Inizio in salita, dunque.

 

E però ogni inizio, come ha osservato lui stesso ne L’ambulante, è anche la continuazione di un’altra storia. Per cui ai timidi silenzi e ai tanti «ya, ya», fanno seguito molti ricordi (l’incontro con i fantasmi della sua famiglia soprattutto), brevi lampi sul suo lavoro come romanziere («scrivo per trovare un altro tempo, che non è il nostro tempo»), rassegnate constatazioni («nessuno sembra oggi interessarsi della letteratura»).

 

Il punto di svolta è una domanda sulle tre donne che compaiono nel suo ultimo libro (in italiano pubblicato a gennaio per Quodlibet), Sempre ancora tempesta. Una spietata, orgogliosa autobiografia della sua unica vera famiglia, quella del ramo materno, minoranza slovena in Carinzia: «Tu dici che mia madre in questo dramma è una donna forte, ma mia madre si suicidò (overdose di sonniferi, ndr). Lo era forte, sì, ma era anche fredda: non poté mai vivere come la donna che avrebbe voluto essere.

 

Quarant’anni fa attraversò l’Europa sconvolta dalla guerra cercando di comprendere chi fosse, se tedesca o slovena o cos’altro, cercando di capire chi doveva amare, se l’uomo con cui mi aveva generato o quello con cui poi si sposò, con un figlio piccolo di cui occuparsi, cioè io, e senza un lavoro. Era estremamente intelligente, e profonda: oggi l’Austria è un paradiso — ironia, ironia (aggiunge e sorride, ndr) — ma all’epoca a una contadina come lei non era concesso studiare, e nell’universo di miseria in cui viveva, se non era forte doveva diventarlo: si legò a un soldato tedesco ferito, che era stato ricoverato in un ospedale della Carinzia, e poi divenne una specie di schiava. Si tolse la vita quando io avevo ventinove anni, nel 1971».

 

L’autopsia delle conseguenze di quel dramma ha dato vita a uno dei suoi più noti romanzi, Infelicità senza desideri, mentre ora, in Sempre ancora tempesta, chiama a raccolta gli avi, partigiani austro-sloveni che combatterono per tre anni contro Hitler, fianco a fianco con gli inglesi, ma le cui speranze furono tradite dagli alleati: «Il giorno dopo la pace iniziò la Guerra fredda, e dal momento che si erano associati con l’organizzazione del partito di Tito, vennero discriminati nuovamente. Non avevano vinto nulla, e questo è uno dei temi del mio dramma».

 

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Pur se si legge come un racconto, Sempre ancora tempesta è puro teatro, rivisitazione dei suoi Sprechstucke, i pezzi teatrali parlati degli anni Sessanta ( Insulti al pubblico, Kaspar, ecc.) incentrati sulla potenza anche terrifica del linguaggio: Handke immagina che gli antenati, da un indefinito oltretomba, mentre sta seduto su una panchina vengano a parlargli, come in un atto di negromanzia: «È un’opera di fantasia e insieme la storia della mia famiglia, più precisamente una specie di fiaba in cui ho evocato persone che sono morte. Ho spesso scritto sui miei nonni e sui fantasmi della mia famiglia, e avevo affrontato lo stesso argomento nel mio primo romanzo, Die Hornissen, in italiano vuole dire calabroni, scritto che avevo vent’anni».

 

Sono gli stessi avi che gli rinfacciano la sua colpa originaria — la nascita bastarda, l’essere incarnazione e frutto del nemico nazista, la non appartenenza alla cultura slava — e vengono celebrati come eroi: «Da adolescente ero un idiota, non avevo alcun interesse per la lingua e la cultura slovena, non volevo sentire niente che riguardasse il passato della mia famiglia.

 

milosevicmilosevic

Dopo aver lasciato Berlino Est, da bambino, tornai a Griffen, in Carinzia, con mia madre e suo marito, che non era mio padre, e dissi a me stesso: ma che razza di lingua parlano i miei nonni. Poi iniziai a comprendere, a sentire la tragedia e la musica di questa lingua». L’elemento tragico di Sempre ancora tempesta non va, a suo dire, cercato nella rivincita dello scrittore “nemico di famiglia” (una lettura che pure spiegherebbe la sua scandalosa difesa di Milosevic durante i bombardamenti Nato su Belgrado nel 1999), ma altrove: «Sono sicuro di non essermi mai sentito così vicino a Shakespeare.

 

L’alternarsi di sloveno e tedesco crea un ritmo, però la lingua che uso è una specie di invenzione. Talvolta l’immaginazione è più realistica della realtà. Chi ha visto il dramma rappresentato a teatro, in Germania o in Austria o in Slovenia o in Francia, ha capito che parlo di un problema universale: qual è la tua identità, qual è lo spazio per la tua lingua; bisogna sempre difendersi, per cui si fa politica anche contro la propria stessa natura».

 

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Uno dei modi della sua scrittura riguarda l’essere insieme autore e spettatore. Handke, cioè, comunica letteralmente cosa vede un suo personaggio: «Sì, invento la mia fantasia. Non c’è molto da decriptare: descrivo e racconto cosa accade alla mia immaginazione, sia nei romanzi che a teatro». Ricorda il momento in cui ha desiderato diventare uno scrittore come un ingresso nel labirinto dei tempi della letteratura: «È successo quasi cinquant’anni fa: c’è una immagine, una specie di emozione, volevo mettere ordine dentro di me, scrivere di me; e un giorno decisi di fare una spedizione nella foresta, in una foresta che non conoscevo. Ibsen disse che voleva essere giudice di se stesso, per me non è così: quando sono solo mi autogiudico, ma quando scrivo no, cerco di capirmi, di accorgermi di me, in una forma drammatica».

 

Parla spezzando le frasi, senza finirle, una sequela di punti di sospensione: «La mia natura è epica, ma ce n’è anche un’altra: non voglio dire che sono schizofrenico, solo un po’ schizzato, nel senso che ci sono molte persone in me. E anche se non sono un poeta penso talvolta di possedere una sensibilità poetica, o almeno lo spero». Dei suoi versi giovanili dice di averli scritti sempre «sul momento, due versi e poi mi fermavo», e diventa rosso ripensando alla prima di Insulti al pubblico, l’8 giugno del 1966, a Francoforte: «Dio che vergogna.

 

Ma il dramma era delicato, era una riflessione sull’illusione scenica e sulla direzione in cui andava il teatro. Gli insulti arrivavano solo alla fine. Dovevo trovare una conclusione e così feci una specie di collage di offese: gli attori dicevano al pubblico “vi stiamo insultando con le stesse parole che di solito usate fra di voi”.

 

Talvolta ho vissuto dei grandi momenti nella mia vita di scrittore, questo fu uno di quei momenti». Sostiene di essere diventato veramente un drammaturgo solo dopo Kaspar, in cui rielabora uno dei miti della letteratura tedesca: «Il mio primo editore mi diceva che non potevo guadagnarmi da vivere scrivendo romanzi e mi invitò a scrivere per il teatro, ma andare a teatro non mi piaceva.

 

Poi una sera — ero stato invitato da qualche parte — finii in una conversazione dove si parlava di un libro di un famoso avvocato del XIX secolo, in cui veniva raccontata la storia di Kaspar Hauser, un giovane uomo che giunge in una città tedesca e nessuno sa da dove venga. Ne feci una rappresentazione drammatica, in cui il linguaggio, la parola, può salvare un uomo e insieme corromperlo».

 

HANDKEHANDKE

L’attualità, o ciò che lui definisce il «fare tautologia con gli accadimenti, con il reale», non gli interessa. Per Handke la letteratura è coltivare un altro tempo: «Io scrivo libri contro la Storia, per trovare un altro tempo, non il nostro. Oggi sono tutti concentrati sul presente e nessuno sembra interessato alla letteratura.

 

Non voglio scrivere dell’attualità, devo trovare qualcosa. Sono come un archeologo. Prendiamo la tragedia del Kitzsteinhorn — duecento persone morte bruciate in una teleferica, accadde nel 2000: la mia collega Elfride Jelinek ha parlato di questa catastrofe, e si è chiesta in tv come e perché è stato possibile che accadesse. Ecco, io quando scrivo voglio cercare, trovare e scrivere della mia personale catastrofe».

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