NELLA KASSEL-RUOLA DELL’ARTE - VIAGGIO IN "DOCUMENTA", LA PIÙ IMPORTANTE RASSEGNA EUROPEA - NATA PER RESTITUIRE GRAZIE AGLI ARTISTI UNA BELLEZZA E UNA SPERANZA NELLA GERMANIA DELL'IMMEDIATO DOPOGUERRA, NELLE MANI DI CHRISTOV-BAKARGIEV, RIESCE A DARE BELLEZZA E SPERANZA ANCHE ALL’APOCALISSE CONTEMPORANEA - QUESTA È LA DOMANDA CHE PERCORRE TUTTA DOCUMENTA13: SAREMO IN GRADO DI PENSARE UN ALTRO MONDO O SOLO DI OSSERVARE IL DISFACIMENTO DI QUESTO?

Alessandra Mammì per "l'Espresso"

Scarpe da tennis, calzino corto, coda di cavallo, trent'anni o giù di lì, nazionalità coreana. A domanda la ragazza risponde: «No, non studio arte e non lavoro nell'art business. Ma ci sono eventi che valgono il viaggio ed eccomi qui in vacanza». Qui in Germania, a Kassel, nel Nord dell'Assia . Un volo diretto su Francoforte (se va bene) e da lì un'ora e mezza di treno. Documenta vale il viaggio, dice lei. E come lei, quei 750 mila visitatori paganti (di media) che a ogni edizione invadono una cittadina di 198 mila abitanti.

Cento giorni ogni cinque anni a partire dal 1955 quando un critico e pittore, Arnold Boden, fondò la più importante manifestazione d'arte al mondo nella devastata città dei Brüder Grimm. Bastò una notte: quella tra il 22 e 23 ottobre del 1943. Un bombardamento incendiario, le incursioni senza tregua della Raf e le casette di Hansel e Gretel con i boschi di Pollicino andarono in fumo. Il 90 per cento della città fu distrutto. Diecimila i morti, 150 mila i senza tetto e nessuna possibilità di salvare quel paesaggio tra sogno e incubo tutto finestre laccate, tetti di lavagna a punta e ritorti tronchi secolari, dietro i quali si nascondevano orchi, streghe e lupi cattivi.

Per questo, in una città che la ricostruzione ha reso anonima, sommando piatti edifici a piazze di cemento, arrivò "documenta" (con rigorosa d minuscola), per restituire grazie agli artisti una bellezza e una speranza nella Germania dell'immediato dopoguerra. La "documenta" minuscola diventò un luogo maiuscolo dove ogni cinque anni l'arte si fa pensiero, gesto, politica. Questa volta poi, più che mai. Nelle mani di Carolyn Christov-Bakargiev, l'edizione numero13 non è durata 100 giorni, ma in realtà tutti quei 1.825 che la separano dalla mostra del 2007.

Subito al lavoro, fin dal momento della nomina, Carolyn - nata negli Stati Uniti da madre italiana e artisticamente cresciuta in Italia - ha riunito a Kassel filosofi, matematici, botanici, scienziati di ogni genere e natura, storici, antropologi, poeti, musicisti, economisti e naturalmente artisti. Ha organizzato incontri e workshop qua e là nei musei del mondo, pubblicato quaderni e relazioni, scritto e ricevuto lettere con carta e penna come si faceva una volta, prodotto film e video, strutturato progetti, cercato e trovato finanziatori e sponsor. Ma non ha sfornato un titolo e nemmeno un tema.

Dunque ecco: 1.925 giorni per la prima "documenta" senza nome, in un mondo digitale che come ha detto la curatrice, «vive di titoli, slogan, prensili concetti e temi che vengono trasferiti in un attimo ovunque grazie al web e ai social network». E in un attimo però deglutiti, digeriti, dimenticati. Qui no. Il risultato di cinque anni di discussioni e elaborazioni, da parte di oltre 200 artisti e altrettanti pensatori e specialisti non si riduce a una formula. Richiede un coinvolgimento più serio e molto meno virtuale. Gambe in spalla. Documenta13 è un pellegrinaggio.

Il kit di sopravvivenza consiste in una mappa, un paio di guide e una bibbia "The book of the books" di 536 pagine che raccoglie tutti i documenti prodotti per giungere a tanto risultato. Il luogo di partenza è il Fridericianum, tempio di ogni documenta. Il primo museo pubblico d'Europa nato nel 1779, morto in una notte del 1943 e (lui sì) risorto e ricostruito con le sue stesse pietre.

Un simbolo di arte e cultura che qui ci accoglie vuoto e bianco come appena ridipinto, percorso solo da una brezza leggera che sgorga però dalle pareti e non dalle finestre, essendo opera di Ryan Gander, e, al tempo stesso, soffio dei tempi. "Embodiment" è la parola che insieme a "commitment" madame Christov-Bakargiev usa di più per spiegare la sua mostra. «Come tradurre in italiano?», si chiede.

Incarnazione, impegno, dedizione. O totale coinvolgimento? Poco importa. La traduzione sta nei fatti quando ad esempio si raggiunge il "Brain" ovvero il cervello di documenta13, chiuso in una rotonda di vetro al centro del Fridericianum. Lì, con accostamento eclettico degno di una Wunderkammer, troviamo le Principesse Bactriane, fragili statuine d'avorio del secondo millennio avanti Cristo così delicate che solo grazie al "commitment" (scrive Carolyn) e all'accudimento attraverso millenni di devozione sono giunte fino a noi.

Lì alle pareti è appesa la resistenza del nostro Morandi chiuso in casa a dipinger bottiglie per rispondere in apnea alla retorica del ventennio. Lì, le celebri foto di Lee Miller che dopo aver visto Dachau entra con gli alleati nell'appartamento di Hitler a Monaco e si immortala immersa nella vasca del Führer. E lì accanto anche le immagini del cambogiano Vandy Rattana che fotografa pittoreschi stagni e laghetti ma ci avverte che loro li chiamano "Bomb Ponds" perché non sono bacini naturali, bensì il cratere delle bombe americane.

Trappole della storia che non è una, ma si frammenta in tante schegge. Bellissime alcune. Come "Cabaret Crusades", horror film dell'egiziano Wael Shawky, starring tutte marionette ma set, luci costumi e riprese da kolossal per dimostrare che i crociati furono molto più cattivi dei miscredenti. O "Leaves of Grass" di Geoffrey Farmer nato nel 1967 in quel di Vancouver. Ovvero molti anni più tardi dei primi ritagli (tutti presi dalla rivista "Life") con cui legge a modo suo il Novecento attraverso un collage 3D di figurine lunghe quasi un secolo e l'intera loggia delle Neue Galerie.

La storia davvero siamo noi, i nostri padri, i nostri film, i nostri dischi. Quei cento soundtrack ad esempio che Susan Hiller ha incastrato in vecchi jukebox sparsi per l'intera città da cui all'improvviso spuntano canzoni che vanno dai canti socialisti a Jovanotti. La storia è quella che grazie a un iPhone racconta Janet Cardiff sussurrandoci nelle orecchie un percorso da fare con lei tra i binari della vecchia stazione da dove partivano i convogli delle deportazioni e da dove la sua famiglia si salvò scappando in Canada.

Embodiment. Di tappa in tappa si comincia a perdere quella distanza tra visitatore e opera. Di tappa in tappa, dalla carcassa di tonnellate ferraglie di Lara Favaretto tra i binari della vecchia ferrovia alla casa degli Ugonotti dove a tentoni e strattoni in una sala completamente buia si è sopraffatti prima dalle voci e poi dai corpi dei performer di Tino Sehgal.

Di tappa in tappa e di stanza in stanza: quelle ricostruite da Theaster Gates nato a Chicago nel 1973 di professione artista, attivista, artigiano, volontario, designer, impresario, educatore, restauratore, tuttofare che ha trasformato la sua casa in un progetto di vita e di economia alternativa. Vedere per credere l'ha trasportata fino qui, nei quattro piani del palazzetto degli Ugonotti con tutti i suoi improbabili mobili riciclati e la forza dei musicisti che cantano blues, rock, rap e gospel tra video e live.

Aggrappati alla mappa per non perdersi si raggiungono l'Osservatorio e l'Ottoneum che dovrebbero essere luogo di certezze dove nel secolo XVII fu raccolta la più grande collezione di orologi del mondo. E invece è lì che gli artisti complici gli scienziati sintetizzano in opere un'altra verità: il tempo è puro inganno, immergetevi invece nella sua moltiplicazione. Mentre un telescopio ci proietta già là nel Karlsaue Park dove neanche la natura sarà più certa. È bellissimo il Karlsaue: uno struggente giardino romantico attraversato da canali e e ora insidiato da una sessantina di incursioni in forma di casetta, scultura o distopico paesaggio.

Tutto accade nel parco dove ci si perde come Pollicino e come Hansel e Gretel si incontrano casette, abitate non tanto da una strega quanto da una docufiction alla Michael Moore dove il nostro Bifo ci spiega che potrebbe esserci un'altra economia, o dove Marcos Luytens ipnotizza a richiesta per imprimere nella memoria mostre mai viste ma che non dimenticheremo più.

Potremo incontrare un albero di bronzo che sostiene tra i rami un macigno e tra le radici protegge un piccolo ulivo (Penone), o un onda anomala in moto perpetuo in una piccola vasca (Bartolini). Si può imparare quanto sia vero che dal "letame nascono i fior" e se, eco-compatibile, persino intere colline (Song Dong) o infine capire troppo tardi che quella struttura di legno non è un parco giochi ma la somma di tutte le forme di forca in uso negli Stati Uniti (Sam Durant).

E poi chiedersi se quel paesaggio di fango, macerie e muffe, se quella statua con la testa coperte di miele e divorata dalle api con cui Pierre Huyghe ha voluto spezzare la romantica e teutonica perfezione del parco, sia frutto di caos creativo o distruttivo, se annuncia con grido la liberazione o invece prefigura l'Apocalisse. Se saremo in grado di pensare un altro mondo o solo di osservare il disfacimento di questo.

Ma questa è la domanda che percorre tutta documenta13. È la domanda che cerca una risposta nel mescolare i linguaggi e i pensieri, che produce 563 pagine di documentazione e 1.825 giorni di discussione, che convince una ragazza a partire dalla Corea per finire nell'afa di un estate tedesca. È la domanda che trasforma Kassel in meta di pellegrinaggio anche se documenta non ha un titolo. Perché questa è la domanda. E punto.

 

OPERA DI TACITA DEAN OPERA DI SAM DURANT INSTALLAZIONI DI CHIARA FUMAI INSTALLZIONE DI SONG DONG INSTALLAZIONE DI THEASTER GATES OPERA DI PIERRE HUYGHE INSTALLAZIONE A KASSEL DI GEOFRY FARMER LEAVES OF GRASS Carlolyn Christov Bakargiev

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