bradley cooper american sniper

NON SPARATE SUL CECCHINO – L’“AMERICAN SNIPER’’ DI EASTWOOD È UN SOLDATO, DEVOTO AL SUO PAESE, CHE SI INTERROGA SUL MALE - L’APICE DELL’EROISMO È LA SUA MORTE SENZA SANGUE LONTANO DAL CAMPO DI BATTAGLIA

Mattia Ferraresi per “Il Foglio

 

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Chris Kyle non era un cecchino da oleografia di guerra, un solitario asceta devoto a Marte, impassibile, disciplinato ai limiti dell’ossessione, maestro di travestimenti che se ne sta accoccolato per giorni dietro all’obiettivo telescopico in attesa che laggiù, ai piani inferiori della guerra, il nemico faccia la mossa sbagliata.

 

Era cristiano, come mostrava la croce di Gerusalemme che si era fatto tatuare sul braccio e aveva fatto incidere nelle fedi nuziali, ma non recitava i salmi con sacro furore fra una pallottola e l’altra come il tiratore di  “Salvate il soldato Ryan”, che sparava ai tedeschi dal campanile: “Benedetto il Signore, mia roccia / che addestra le mie mani alla guerra / le mie dita alla battaglia”.

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Forse non era nemmeno il più talentuoso nel suo team di Navy Seals, che peraltro non era neanche il Team 6, la squadra più esperta del corpo, quella consegnata alla leggenda dall’operazione che ha ucciso Osama bin Laden. E’ stato il più grande ma forse non il migliore, non il più preparato. Così almeno diceva lui, schermendosi un po’.

 

Che sia stato il cecchino più letale della storia americana lo dicono i numeri – 160 uccisioni confermate in quattro turni al fronte in Iraq, secondo i suoi calcoli però ne ha fatti fuori circa il doppio – ma quelli non restituiscono le sfumature umane del ragazzone texano che aveva il simbolo di “The Punisher” dipinto sul giubbotto antiproiettile, tagliava le maniche delle uniformi, era “paziente quando faceva lo sniper, ma impaziente in tutto il resto”, come ha detto un collega, teneva la sua stanza in un tale disordine che ci sono voluti due giorni per pulirla quando ha lasciato definitivamente l’esercito.

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Kyle si presentava in battaglia con scarpe da caccia morbide al posto degli anfibi d’ordinanza; invece dell’elmetto usava il cappellino dei Texas Longhorn girato al contrario per fare sapere al nemico che il giustiziere veniva dallo stato della Stella Solitaria, come se i tagliagole di al Qaida facessero qualche distinzione fra Yankee e Dixie. Il giornalista Michael Mooney lo ha definito un “sophomoric jokester”, uno che “se aveva accesso al tuo account Facebook avrebbe scritto a tutti i tuoi amici che eri gay e finalmente pronto a fare coming out”.

 

Senza motivazioni d’acciaio, resistenza, disciplina e capacità di sacrificio non si supera nemmeno mezz’ora del Bud/s, il percorso di demolizione che ogni recluta deve superare per diventare un Seal, ma non significa che chi ce la fa ceda ogni fallibile tratto di umanità in cambio dell’epicurea perfezione sul campo di battaglia.

 

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Kyle lo ha detto e scritto in tutti i modi che non era il migliore, che ha avuto un sacco di culo, come si dice nel gergo tecnico dei Seals, si è trovato spesso al posto giusto al momento giusto, ha preso la maggior parte dei nemici con tiri piuttosto facili e pochissimi erano spari chilometrici in cui un niente può deviare il proiettile lontano dal bersaglio. Nella classifica delle uccisioni dalla distanza in battaglia è soltanto all’ottavo posto, con un tiro da 1,9 chilometri che l’esercito non ha mai confermato ufficialmente, benché esistano molte testimonianze e prove al riguardo.

 

Era a Sadr City nel 2008, durante il suo quarto turno al fronte. Qualche anno prima un tale Brian Kremer aveva abbattuto un nemico da 2,3 chilometri; e Kyle è stato battuto anche da un sergente della Florida di nome Nicholas Ranstad, che in Afghanistan ha ucciso un miliziano da oltre due chilometri. Entrambi erano dell’esercito regolare, un grave smacco per un Navy Seal, ma nessuno dei due è stato promosso al rango di leggenda.

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Alcuni colleghi, invidiosi, seguivano Kyle per vedere dove si appostava ed esigevano che lasciasse loro la posizione, una volta scelta. Pensavano che rubando il punto di osservazione alla Leggenda avrebbero ottenuto la sua fama, avrebbero eguagliato quello che i nemici chiamavano Shaitan al Ramadi, il diavolo di Ramadi.

 

Lui regolarmente finiva la missione con più scalpi nemici degli invidiosi. All’inizio la taglia sulla testa del diavolo era di 20 mila dollari, poi è stata aggiornata a 80 mila. Avevano messo sui volantini sparsi per Ramadi la croce rossa che aveva tatuata sul braccio, così chi reclamava il denaro aveva un segno da esibire come prova e trofeo.

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Chris Kyle è stato il cecchino più letale della storia americana, ma non era il sicario invisibile e atarassico che guarda il dipanarsi della guerra dall’alto dei tetti e ogni tanto preme il grilletto. Era un Seal, dunque devoto innanzitutto alla sua “band of brothers”, poi al suo paese e a ciò che rappresenta. L’obiettivo era sterminare i cattivi, i selvaggi come li chiamavano sul campo, e Kyle lo ha fatto con sistematica precisione senza perdere però il tratto del barbuto everyman in cui l’America intera può in qualche modo vedersi allo specchio.

 

Nessuno si rispecchia in una perfetta macchina da guerra, in un “badass” inarrivabile e senza dilemmi, in uno sniper che di tanto in tanto esibisce qualche tratto umano, ma il meccanismo dell’immedesimazione funziona quando sulle pagine e sugli schermi va la storia di un uomo che di mestiere fa il cecchino.

 

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Il Chris Kyle raccontato da Clint Eastwood non è un remoto tiratore nell’iperuranio della guerra, un drone umano che opera nelle alture urbane, ma si immerge nella mischia della guerriglia, sperimenta la polvere, le porte sfondate, le perquisizioni, gli interrogatori, la raccolta di informazioni, gli esplosivi nascosti sotto il manto stradale, le imboscate, i gomiti callosi di chi fa il suo stesso mestiere, sotto la sua giurisdizione di Seal finisce un po’ di tutto, lo spazio della narrazione non si esaurisce dietro al fucile.

 

Poi c’è tutto il resto. La famiglia lontana, la moglie in pena, le reazioni incontrollate, la normalità da riconquistare, i rifiuti sull’asfalto dell’autostrada in California schivati con troppa foga, perché in Iraq un detrito lungo la via poteva nascondere qualunque cosa.

 

C’è tutto il passaggio da “Dio, patria, famiglia a Dio, famiglia, patria” che è parte integrante della drammatica epica del veterano alla conquista della vita quotidiana dopo una o più immersioni nell’orrore. Marc Lee, compagno d’armi di Kyle ucciso in Iraq, lo spiegava così: “Avevamo una rete elettrificata attorno alla nostra proprietà in Oregon e noi bambini ci attaccavamo per vedere chi riusciva a resistere più a lungo. La guerra è così, ti mette una scarica di elettricità nelle ossa, ma se ti stacchi muori”. Se ti stacchi muori, questo è il problema.

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Eastwood ha raccontato Kyle così come lui stesso si è raccontato nell’autobiografia scritta con Jim DeFelice. La sequenza degli eventi è fedele, le scene sono ricostruite con precisione, alcuni dialoghi sono riproposti nella sceneggiatura in modo quasi letterale.

 

C’è naturalmente molto editing e alcune licenze poetiche funzionali alla ricostruzione cinematografica – una su tutte quella dell’incredibile Mustafa, il cecchino nemico e duellante di Kyle che dopo fiere battaglie di resistenza sunnita ricompare, contro ogni criterio di verosimiglianza, sui tetti di Sadr City, roccaforte sciita – ma sostanzialmente il regista ha messo in pellicola quello che il soldato ha messo su carta.

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Sottolineando però un filone che innerva tutta la narrazione, una specie di canone o nota dominante, quella di un divorante dramma universale, dell’uomo che s’interroga intorno alla natura di un male nel quale si trova immerso anche se lavora per sconfiggerlo sotto il vessillo dei buoni. “Credi in quello che facciamo qui?”, chiede Lee. “Il male abita qui. Lo abbiamo visto”, risponde Kyle. “Abita ovunque. Abita negli uomini”.

 

Kyle sa distinguere i buoni dai cattivi, ma quando dentro il mirino compare un bambino che porta una granata verso il convoglio americano i giudizi chiari e distinti si fanno più nebbiosi e opachi. Non tutti i cattivi hanno il volto indemoniato del “macellaio”, l’uomo di al Zarqawi che finisce le sue vittime con un trapano; non è sempre così facile distinguere il lupo dal cane da pastore, per usare gli animali della parabola del padre, battista texano e cacciatore che conosce la legge del Signore e quella della cinghia.

 

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L’infallibile cecchino di Eastwood è anche più problematico dell’infallibile cecchino raccontato da sé stesso, ed è tutto in quel momento d’incertezza di fronte alla domanda del medico: si è pentito di qualche cosa? No, nulla, ho fatto quello che dovevo fare, ho la coscienza pulita davanti a Dio, ma in mezzo c’è quell’attimo in cui tutto vortica e trema. E’ solo una frazione di secondo fra un battito del cuore e l’altro, l’interstizio in cui il tiratore preme il grilletto, diceva Kyle, ma tutto si gioca in quell’istante.

 

Sulla carta era tutto più facile di come il vecchio regista lo rappresenta: “Quando morirò, Dio mi chiederà conto di tutto ciò che ho fatto nella mia vita terrena. Può darsi che mi faccia spostare per dare la precedenza al resto della fila, perché avrà bisogno di un bel po’ di tempo per passare in rassegna tutti i miei peccati. ‘Per favore, Mr. Kyle, mi segua nel retro…’. Ma quando Dio valuterà il fardello dei miei peccati, in quel retrobottega o in qualunque altro posto, credo che nessuna delle uccisioni in guerra ne farà parte. Tutti coloro che ho ucciso erano malvagi, e avevo un valido motivo per ogni colpo che ho messo a segno. Tutti quanti meritavano di morire”.

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Non che le simpatie ideologiche di Eastwood passino in cavalleria. Il film è un orgoglioso garrire di bandiere a stelle e strisce senza la minima ambiguità, anzi nel sottotesto si legge anche l’elogio della strategia bellica della counterinsurgency, la guerriglia per conquistare cuori e menti della popolazione, marchio di fabbrica di Bush e opposto logico e ideologico delle operazioni chirurgiche di breve respiro sistematizzate da Obama. Ma tutto è nella tensione fra l’ideale limpido del patriota chiamato a difendere la sua terra e i suoi valori e la sua più nebbiosa realizzazione. Basta dire che un uomo ucciso sul campo di battaglia è un uomo in meno che metterà una bomba dove passano i convogli americani? Davanti al Creatore sarà tutto così limpido? E’ quasi una costante eastwoodiana, cosa che rende il racconto morale senza scivolare nel moralismo. Il malvissuto veterano di Corea di “Gran Torino” deve dare la sua vita come un agnello sacrificale per l’amico innocente per risolvere la stessa tensione.

 

Sapeva più cose sulla morte che sulla vita, come diceva l’imberbe (ma non imbelle) prete irlandese, mentre Chris Kyle sapeva anche qualcosa della vita, e l’affannoso percorso di reintegro nella normalità che Eastwood racconta lo dimostra. Kyle aveva combattuto e vinto contro i suoi demoni, il disordine da stress post trauma che poi è il nome clinico di quel distacco dalla rete elettrificata di cui parlava Lee.

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Sapeva bene, Kyle, che la guerra “è un inferno” anche se “Hollywood la fa sembrare una cosa bella” e lui dall’inferno ne era uscito, riprendendosi le sembianze del padre di famiglia che si rotola sul tappeto con i figli, porta il cibo sulla tavola addestrando i contractor e aiuta i veterani che cadono lungo il complicato processo di riadattamento alla vita che tocca a chiunque ha visto un pezzo d’inferno. Ne era uscito anche e soprattutto grazie all’amore incondizionato di Taya.

 

Eastwood racconta la guerra dentro e quella fuori con un linguaggio che ricorda quello di Terrence Malick nella “Sottile linea rossa”, e anche quella dello sniper più letale della storia americana è fatta, in realtà, di linee sottili e chiaroscuri, fino all’ultimo beffardo paradosso di essere ucciso da un veterano che stava cercando di tirare fuori dal pozzo nero della solitudine.

 

Il regista non s’avventura nell’interpretazione di quello che è successo in quell’ora inimmaginabile fuori da un poligono del Texas, ci mostra soltanto gli occhi di Eddie Ray Routh mentre sale sul pick up con la Leggenda verso una giornata di chiacchiere e spari a un bersaglio di cartone per scrollarsi di dosso un po’ di tensione.

 

Sono gli occhi assenti di un uomo malato, forse della stessa malattia dalla quale Kyle era guarito oppure di un altro male, più oscuro e profondo, eppure in quel finale sospeso, una morte senza sangue dopo tanta guerriglia, s’intravede, ancora una volta, l’idea del martirio, non quella della beffa e dell’ironia: l’apice dell’eroismo è il sacrificio, la dimessa e gratuita negazione di sé in un pomeriggio qualunque, non la sua muscolosa affermazione sul campo di battaglia.

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Eastwood lascia perdere la pletora di teorie del complotto sulla morte di Kyle, ignora le malignità postume, le dicerie, salta a piè pari la presunta scazzottata con l’ex governatore del Minnesota, Jesse Ventura, per una divergenza di opinioni – per dir così – sui Navy Seals, taglia gli elementi di distrazione di questo dialogo fra l’uomo e il suo destino con ambientazione bellica, chiuso dalle immagini di repertorio della cassa da morto che corre lungo l’autostrada, per 200 miglia, salutata a ogni ponte da un severo sventolio di stelle e strisce.

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