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IL CALVARIO DI STEFANO DIONISI - L’ATTORE RACCONTA LA SUA ''FOLLIA'': “NON SI PUÒ MAI DIRE DI ESSERE GUARITI. LOTTO SENZA POTER VINCERE MAI” - “I TAGLI ALLA SANITA'? LA MALATTIA MENTALE È QUELLA CHE SUBISCE I DANNI MAGGIORI"

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Silvia d’Onghia per il “Fatto Quotidiano”

 

“È vero, mi sono esposto molto, ma me ne sono reso conto solo dopo. Ora l’ho metabolizzato. Lo tratto come un figlio grande, che corre da solo”. Stefano Dionisi è un uomo che prima di parlare, ascolta.

 

Ti guarda dritto negli occhi, con la pacatezza di chi ha avuto il coraggio –prima –di estrarre da se stesso quella valigia così pesante che ognuno si porta dentro, di aprirla, analizzarne il contenuto, provare a metterlo in ordine e, finalmente, accettarlo. Non la valigia dell’attore, che pure l’ha fatto conoscere e amare dal grande pubblico per i ruoli importanti in cinema e fiction (Farinelli, Sostiene Pereira, Bambola, solo per citare i più famosi).

 

La valigia dell’uomo, quel baule di affetti, assenze, successi e privazioni che ti fanno perdere la testa, una notte, e ti fanno rifugiare sul tetto di un paesino dell’Estremadura, mentre stai girando un film, e all’improvviso ti fanno cambiare destinazione: Trattamento sanitario obbligatorio, clinica psichiatrica, medicine e terapia.

 

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Un’esperienza lunga e dolorosa, che Dionisi ha trasformato in un libro, La barca dei folli, titolo strappato a Foucault: “Ho scritto due pagine al giorno, raccogliendo i post-it sui quali avevo tracciato i personaggi”.

 

 

Un attore di successo come lei, dopo essere sprofondato e poi risalito, decide di raccontare la sua storia. Non se n’è vergognato?

In effetti all’inizio cercavo di sfuggire all’auto biografia, perché volevo raccontare i personaggi, coloro che ho incontrato durante i ricoveri, i miei compagni di viaggio. Ma per renderli veri dovevo prima rendere vero me.

 

Ci sono soltanto alcune parti ‘romanzate’ nel libro, perché ho voluto inserire i miei pensieri ecologisti e il mio amore per l’Africa. Ma pensavo fosse giusto raccontare la malattia attraverso il mio percorso: sono un attore, ho la possibilità di parlarne e di farne parlare. Quella è una storia finita sette anni fa. Anche se non si può mai dire di essere guariti. Continuo a lottare, senza poter vincere mai.

STEFANO DIONISI LA BARCA DEI FOLLISTEFANO DIONISI LA BARCA DEI FOLLI

 

Si dice che il primo passo per guarire sia accettare la propria condizione di malato. Ogni ricovero per me era come ricominciare daccapo, ma i sintomi erano così forti che avevo bisogno di farlo. È una consapevolezza: già a 18 anni mi pagavo da solo la terapia. Però bisogna imparare a chiedere aiuto: per questo sento di voler ascoltare quello che le persone hanno da dire.

E il mondo a cui appartiene cosa dice?

Ancora non ho avuto modo di ascoltarlo e mi tengo lontano dal gossip. So solo che alcune riviste stanno tagliando le mie parole.

Per esempio?

Sono stati censurati i valori che ho insegnato a mio figlio 18enne, quelli gandhiani.

 

Non tutti sono in grado di pagarsi da soli una terapia adeguata. Le condizioni economiche influiscono sulla guarigione?

Certamente. La sanità è il settore più importante per le persone, eppure è quello che viene sistematicamente tagliato. Se per fare una Tac salvavita ci vogliono tre, quattro mesi, pensiamo a cosa accade per la malattia mentale, che ha un costo superiore.

 

Se a livello locale si ha un solo psicologo, una struttura fatiscente, pochi medici, chi non ha soldi è costretto a un calvario, per di più velato dall’ignoranza e condizionato dalla velocità del medico, che non riesce a stare vicino al paziente per il tempo necessario. La malattia mentale è quella che subisce i danni maggiori dalla riduzione delle spese sanitarie.

 

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Nel suo libro lei racconta di malati psichiatrici e tossicodipendenti che dividono le corsie

 Ancora si affiancano le tossicodipendenze – alcol compreso – alla malattia mentale. È vero che il disagio psichico può essere tra le cause scatenanti di una dipendenza, ma non è sempre così. Quelle persone dovrebbero andare in comunità di recupero, non in clinica. È come tenere un leone in gabbia e il personale non riesce a star loro dietro: la conseguenza è che vengono lasciati un po’ a loro stessi.

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Per non parlare di chi, spesso, in quelle cliniche li manda malconci

Riccardo Magherini (il ragazzo morto a Firenze nel 2014 durante un fermo dei carabinieri, ndr) potrei essere io, fatta eccezione per la cocaina. Le forze dell’ordine non sono sufficientemente preparate e, spesso, usano la violenza. Per questo auspico punizioni esemplari, anche nei casi di omicidi colposi.

Quanta ignoranza c’è attorno alla malattia mentale?

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Farei una distinzione tra città e paesi. Nelle prime sei solo, intorno a te c’è tanta indifferenza. Nei paesi, dove magari il pazzo viene gettato nell’acqua fredda, rimangono però il senso di comunità e il sentimento di solidarietà. A volte il pazzo diventa una specie di vate. Pensate ad Amarcord: il “voglio una donna” g ri da to d al l’albero era l’urlo di un paese intero.

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