SUSAN SONTAG OVVERO LO SPECCHIO DI ANNIE LEIBOVITZ – IN UNA BIOGRAFIA DELLA SCRITTRICE LA STORIA D’AMORE CON LA GRANDE FOTOGRAFA, ALLA QUALE DISSE: “SEI BRAVA, MA POTRESTI MIGLIORARE”

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Viviana Mazza per il "Corriere della Sera"

 

NEW YORK — Il primo incontro tra Susan Sontag e Annie Leibovitz avvenne durante un servizio fotografico per la copertina di uno dei più noti libri della scrittrice, L’Aids e le sue metafore , nel 1988. La fotografa conosceva già le opere dell’intellettuale: aveva letto il saggio Sulla fotografia e il romanzo Il benefattore.

Così come Sontag aveva visto spesso il lavoro di Leibovitz su «Rolling Stone» e «Vanity Fair»: scatti iconici dell’era della cultura pop, come il ritratto di John Lennon e Yoko Ono, che contribuirono a ridefinire il concetto di celebrità. Eppure Sontag le disse gelidamente: «Sei brava, ma potresti migliorare». L’intellettuale cinquantacinquenne e la fotografa trentanovenne, due donne in realtà molto simili l’una all’altra, sarebbero diventate amanti.

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A questo rapporto, il più felice in una vita infelice, sono dedicate alcune delle pagine più belle di una nuova biografia su Susan Sontag, una delle più influenti intellettuali americane della generazione attiva negli anni Sessanta, autrice di 17 libri tradotti in 32 lingue, impegnata nell’arte, nei diritti umani e nel movimento femminista fino alla morte nel 2004.

 

Il libro, firmato dal giornalista e critico letterario tedesco Daniel Schreiber, intitolato semplicemente Susan Sontag , è il primo a raccontare per intero la sua vita. C’è un’altra biografia, pubblicata da Lisa Paddock e Carl Rollyson nel 2000, che però non affronta gli ultimi dieci anni. «Benché abbia contribuito alla ricerca, quello è un libro pieno di rabbia — dice Schreiber al “Corriere” — forse anche perché Sontag, che era ancora viva, non solo non parlò con gli autori, ma vietò anche agli amici di farlo».

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Il giornalista tedesco, invece, non solo si è immerso in tutto ciò che Sontag ha detto e scritto, ma è riuscito anche a incontrare molti dei suoi vecchi amici: Lucinda Childs, Marina Abramovic, Nadine Gordimer, Elizabeth Hardwick; e David Rieff, il figlio di Susan. L’unica a rifiutare è stata la stessa Leibovitz. «Se fossi Leibovitz, forse non vorrei parlare neanch’io — commenta il biografo —. Ha diritto al silenzio, ha il diritto di affrontare a suo modo il lutto».


Schreiber non nasconde l’ammirazione per Sontag, per «il suo stile intellettuale, ma non accademico», per la sua capacità di «essere intelligente e allo stesso tempo glamour», anche se non condivise i commenti della scrittrice all’indomani dell’11 settembre: suggerivano che gli attentati fossero in qualche modo colpa dell’America stessa per via della sua politica estera. E sostiene, con nostalgia, che «oggi abbiamo più che mai bisogno di persone come lei, che non hanno paura di dar voce alle opinioni intelligenti, ma difficili. Il giornalismo contemporaneo è assai meno significativo senza di lei». Ma il libro rifugge dai toni dell’agiografia.

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Anzi, Schreiber discute l’ego smisurato e la crudeltà di Sontag. «A volte era una persona orribile: le persone infelici tendono a deludere e a ferire chi le circonda. E scoprendo questa parte di lei, a un certo punto mi sono reso conto che non mi piaceva più». Alla fine, però, ha imparato «ad accettarne l’ambiguità». L’infelicità di Susan Sontag ha le sue radici nell’incapacità «di accettare se stessa, nell’ossessione a raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi che non le portarono mai la felicità, ma una dipendenza simile a quella che aveva sviluppato per le anfetamine».

 

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Nemmeno i suoi ultimi romanzi di successo, L’amante del vulcano e In America riuscirono ad appagarla davvero. Schreiber smonta le immagini costruite dalla stessa Sontag sul suo passato (per esempio sosteneva di aver letto i classici già alle elementari), e racconta la storia di una bambina nata a Manhattan da genitori benestanti ma assenti, Jack e Mildred Rosenblatt, che vivevano in Cina, dove avevano un’azienda per il commercio di pellicce.

 

A cinque anni, alla morte del padre, la madre trasferisce la famiglia a Miami e da lì a Tucson, in cerca di aria buona per l’asma di Susan, che cresce seria e solitaria, immersa nei libri, affascinata da personaggi come Marie Curie. Quando ha 12 anni, sua madre sposa Nathan Sontag, eroe di guerra, e Susan prende il suo cognome, contenta di sfuggire alle battute dei coetanei per il suo nome ebreo.

La fotografa Annie Leibovitz La fotografa Annie Leibovitz

 

Più tardi l’alcolismo della madre getta ombre sul loro rapporto. È nell’ambiente accademico che Susan spera di trovare se stessa: sposa Philip Rieff, professore di sociologia, ma si scontra con la realtà universitaria degli anni Cinquanta, un mondo per uomini. Ma lei «fu in grado alla fine di vivere una vita completamente inimmaginabile per quei tempi. Madre single, si trasferì da sola a New York e riuscì a mantenersi scrivendo saggi per riviste letterarie e romanzi. Ce la fece anche se era una donna».


«Altrettanto inimmaginabile, per una donna nata negli anni Trenta, era il fatto di amare qualcuno dello stesso sesso; anche per questo forse Sontag non volle mai dichiarare pubblicamente la relazione con Leibovitz». Un’altra ragione è che rifiutava l’etichetta di «scrittrice lesbica», proprio come aveva respinto quella di scrittrice femminista. «Ma quella alla fine è stata la più lunga relazione della sua vita. E penso che rispetto alle altre sia stata la più felice, anche se non la più facile».

 

Annie LeibovitzAnnie Leibovitz

 Sontag usò il suo potere per aiutare Leibovitz: fu una sua telefonata a convincere Tina Brown a pubblicare la controversa foto di Demi Moore incinta sulla copertina di «Vanity Fair». Erano sempre insieme: a teatro, alle mostre, al ristorante. Ma il loro era un rapporto non esclusivo: Sontag frequentava altri uomini e donne.

 

Gli anni Novanta furono i più intensi insieme: viaggiarono in Giordania, in Egitto, in Italia, in Giappone. Andarono a vivere in una pittoresca proprietà sul fiume Hudson. Poi, a 65 anni, a Sontag fu diagnosticato un raro sarcoma uterino, malattia che Susan incoraggiò Annie a documentare. Il risultato è Fotografie di una vita , dove Sontag giace malata, irriconoscibile.


Immagini che fecero scalpore e suscitarono le critiche di alcuni amici, che ritenevano la scrittrice incapace di dare davvero il suo consenso. «Ma credo che Leibovitz abbia fatto la cosa giusta — dice il biografo —. Quelle foto sono bellissime, hanno reso Sontag ancora più famosa, e si vede chiaramente l’amore che le lega attraverso l’obbiettivo». È come se l’intellettuale e la fotografa si guardassero allo specchio, così simili l’una all’altra. «Sicure di sé e a volte arroganti, avevano lottato per arrivare in alto e pretendevano rispetto».

 

Si può argomentare che fu quello il momento in cui Leibovitz diventò la fotografa che Sontag voleva che fosse. Nel 2006, due anni dopo la morte, in un’intervista Leibovitz le confessò pubblicamente il suo amore. «Chiamateci amanti — disse — “amanti” mi piace, suona romantico. Voglio essere chiara: amo Susan, non ho problemi a dirlo».

Annie Leibovitz e la foto di Demi MooreAnnie Leibovitz e la foto di Demi Moore

 

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