MIKE TYSON E LA GALERA: “ME LA SONO FATTA PIACERE. CI ERO CRESCIUTO IN POSTI CHE PUZZANO DI MERDA. VENIVO DALLA FOGNA”

Estratto dell'autobiografia di Mike Tyson (con Larry Sloman), "True", pubblicato dal "Fatto Quotidiano"

Dopo il processo e la sentenza, fui spedito al carcere giovanile dell'Indiana. Era un istituto di media sicurezza, progettato negli anni Sessanta per criminali giovani, bianchi e non violenti. Nel 1992 le prigioni dello Stato erano così affollate che cominciarono a spedirvi anche alcuni criminali adulti, colpevoli soprattutto di reati sessuali o traffico di droga; insomma, quelli ritenuti troppo deboli per affrontare le durissime condizioni di vita degli altri penitenziari.

Con il passare del tempo iniziarono ad arrivare anche criminali violenti, assassini. Quando entrai io c'erano 1.500 detenuti; per il 95% erano bianchi. Mi assegnarono all'ala M, una delle più nuove. Ogni cella ospitava due detenuti; la mia non aveva le sbarre, ma la porta rinforzata e una piccola finestra. Lungo la parete sinistra c'erano due letti e a destra la latrina e un armadietto; c'era anche una scrivania per studiare. La stanza misurava tre metri per due e mezzo.

All'inizio non capii che la galera sarebbe stata una fortuna per me, anche se ero innocente. Se fossi rimasto fuori, chissà cosa avrei combinato. Per la prima volta in vita mia potevo fermarmi e respirare con calma; però non pensiate che abbia raggiunto subito l'illuminazione né che stessi tutto il giorno a cantare inni sacri. Quando entrai in cella, ero incazzato come una iena. Sapevo che ci sarei rimasto almeno tre anni.

Se la ragazza fosse stata bianca, avrebbero buttato via la chiave. Durante le prime settimane in carcere, aspettavo soltanto che qualcuno mi sfidasse, che mi vedesse come un debole. Fremevo all'idea di dimostrare a quegli psicopatici che ero un criminale come loro, forse anche peggiore. Quegli animali dovevano capirlo: era meglio non avvicinarsi alla mia cella o toccare la mia roba. Ero aggressivo e pronto alla battaglia. Stavo lì da poco, quando un tizio mi urlò: "Ehi tu, Tyson, saltatore di alberi del cazzo!". Non avevo idea di cosa stesse dicendo, pensai fosse un complimento per le mie straordinarie doti atletiche.

Poi chiesi in giro. "Mike, un saltatore di alberi è uno stupratore. Sai, uno che si nasconde dietro un albero, aspetta che passi un bambino e poi lo aggredisce". "Cristo!" esclamai. Alcuni giorni dopo, mi avvicinò un altro detenuto. Era splendido, uno di quei cristiani integralisti sempre sorridenti, il carcerato più rispettato e benvoluto. "Mike, tu non sei uno stupratore" esordì, guardandomi dritto negli occhi.

"Ti ho osservato: sei un ragazzone sciocco al quale piace divertirsi, ma non hai violentato nessuno. Il motivo per cui lo so è che io invece lo sono. Per questo sono qui: ho abusato di una donna. Hai mai visto quella bianca che viene a trovarmi? Non è la mia ragazza, è la mia vittima". "Che cosa?". "Mike, ho incontrato il Signore. Le ho scritto, ci siamo messi in contatto e adesso lei viene a trovarmi. Quindi, vedi, so riconoscere uno stupratore, perché io sono uno di loro".

Mi stavo abituando alla vita in carcere, ma fuori di lì c'era molta confusione. I sondaggi rivelavano che erano in molti a dubitare che io fossi colpevole, anche tra le donne. La maggior parte dei neri riteneva che non avessi ricevuto un processo equo. Uno dei giurati dichiarò a un giornalista che nessuno dei suoi "colleghi" neri voleva affrontare il caso, perché ne era spaventato. Telefonavo a Don tutti i giorni, e lui mi diceva che si stava dando da fare per tirarmi fuori di lì il prima possibile. Potete immaginare come mi sentii il 31 marzo, quando un giudice mi negò l'appello.

Ero in galera da sei giorni; smisi subito di mangiare cibi solidi, mi limitavo ad assumere liquidi. Cominciai a beccarmi un provvedimento disciplinare dopo l'altro. Fui punito persino perché avevo firmato un autografo a un paio di detenuti. Diventai bellicoso e presi una valanga di richiami per minacce alle guardie e agli altri carcerati. Un giorno litigai con un nero di nome Bob. Era giovane, grosso e aveva la pelle abbastanza chiara. All'inizio era una discussione di poco conto, poi degenerò; alla fine dovetti dargli una bella ripassata.

Uno degli altri prigionieri, un tizio di nome Wayno, mi si avvicinò e mi disse di calmarmi. "Non devi dimostrare niente. Amico, loro rimarranno qui dentro per un sacco di tempo, mentre tu stai cercando di tornare a casa". Aveva ragione. Per fortuna Bob non fece la spia al secondino, disse di essere caduto. Se avesse spifferato la verità mi avrebbero dato altri mesi di reclusione.

on era facile mantenere la propria umanità in un posto come quello. Ho visto cose che non pensavo possibili. Alcuni arrivavano alle mani per una sigaretta, uno tentò di dare fuoco alla cella di un altro detenuto, altri aggredivano le donne della guardia carceraria e le trascinavano in bagno per violentarle. Ho visto guardie fuggire con la testa spaccata in due a colpi di rasoio o di pinzatrice. Chi faceva queste stronzate se ne fregava delle conseguenze: aveva davanti quaranta o cinquant'anni di galera, peggio di così non gli poteva andare.

Evitare di litigare con quei sociopatici era come camminare sulle uova. Non avrebbero dovuto stare in carcere , semmai in un ospedale psichiatrico. Durante i primi mesi ero molto ansioso, al limite della paranoia. Credevo che volessero incastrarmi - nascondere droga tra le mie cose o provocarmi per scatenare una rissa - e far prolungare la mia condanna. Volevo soltanto sopravvivere, così rimanevo quasi sempre in cella e non parlavo con nessuno.

Ogni tanto andavo nell'ufficio di Trigg, il direttore. "Stia a sentire, sono pronto ad andare a casa. Non pensa che sia arrivato il momento di farmi uscire?" gli chiedevo. "No, penso che sia arrivato il momento che te ne torni in cella" mi rispondeva, poi chiamava le guardie per farmici riaccompagnare.

Un giorno rientrai, chiusi la porta e un detenuto bianco si mise a urlare. "Vieni fuori! Non hai niente di cui vergognarti! Io sono qui da molto più tempo di te, almeno dieci volte di più! Devi rimetterti in forma, perché tornerai a combattere. La tua condanna è breve, è uno scherzo". In un'altra occasione litigai con una guardia; era un bianco razzista. Mi misi a urlare e tutti gli altri detenuti si buttarono nella mischia.

I fanatici della supremazia ariana arrivarono di corsa, perché temevano che fosse coinvolto uno di loro, così la guardia chiamò i rinforzi e si scatenò il finimondo. Urlavano tutti: "Mike, ammazzali! Ammazza quel porco!". Era una sommossa; dovettero mettere sotto chiave tutto il reparto e mi sbatterono nel "buco".

Finire nel buco era un'esperienza allucinante. Mi infilarono in una stanza di due metri per tre, con un materasso sul pavimento e una latrina. Durante il giorno portavano via il materasso, così dovevo sdraiarmi sul cemento. Era disumano ritrovarsi in una stanza chiusa, con le luci accese per ventitré ore al giorno, ma mi ci abituai. Imparai a essere il migliore amico di me stesso; è strano, ma è come se avessi ritrovato la mia libertà, lì dentro.

Non c'era nessuno a controllare i miei movimenti, come in cella. Il buco era il posto peggiore dove poter finire, eppure diventò il mio elemento naturale. Durante il primo anno di galera combinai un sacco di casini. Continuavo a prendere provvedimenti disciplinari perché ero lento, maleducato, minacciavo le guardie e spintonavo i detenuti.

Ero così fastidioso che per poco non mi spedirono nell'ala P, quella dei criminali più pericolosi (...) Finii per darmi una calmata, non volevo vivere come loro: sembravano animali. Mi feci andar bene di stare nel buco. Perché no? In fondo ci ero cresciuto, in posti che puzzavano di merda. Venivo dalla fogna.

 

 

 

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