LA MALEDIZIONE DEI NUMERO UNO – SIR ALEX FERGUSON HA VINTO TUTTO, CHI L’HA SOSTITUITO HA RESISTITO SOLO 11 MESI: PERCHÉ NELLO SPORT, IN POLITICA E NELLE IMPRESE L’ALLIEVO NON SUPERA MAI IL MAESTRO? – LO PSICANALISTA: ‘I GRANDI, COME I PADRI, NON SI IMITANO MA VANNO ‘UCCISI’’ (LA CHIESA INSEGNA)

Stefano Rizzato per ‘La Stampa'

David Moyes, da ieri ex tecnico del Manchester United, era stato scelto da sir Alex Ferguson in persona per dare continuità a un'epopea calcistica durata 27 anni. Costretto a vedere, ogni giorno, la statua del suo predecessore all'ingresso dell'Old Trafford, alla fine ha fatto flop.

Il luogo comune vuole che l'allievo sia destinato a superare il maestro. Che il delfino, uscito dalla scia, possa saltare più in alto e nuotare più lontano. La verità è che, dai tempi di Giotto e Cimabue, non è avvenuto quasi mai.
La storia è fatta più di maestri giganti e totem imbattibili che di successori capaci di uscire dall'ombra. Specie quando sono proprio i maestri a indicare chi deve venire dopo di loro.

In panchina e nel calcio, succede quasi sempre dopo un ciclo di vittorie, che sia lungo o breve. Tanto che all'Inter stanno ancora (e disperatamente) cercando l'erede di Mourinho: uno che è rimasto a Milano solo due anni, dal 2008 al 2010 e che era così «Special» da bruciare cinque successori nei tre anni seguenti.

Ma il problema della successione e dei padri ingombranti non è solamente una questione di calcio. Capita nella moda, come sa bene Alessandra Facchinetti, giovane stilista durata un anno nel ruolo di erede designata di Valentino alla guida creativa della maison. E capita in tv, come dimostra il caso di Beppe Fiorello. Oggi, uno dei migliori attori italiani di fiction. Ieri, impacciato e ultimo conduttore di «Karaoke», il programma lanciato dal fratello Rosario che aveva lanciato il fratello tra le star.

Quello dell'eredità impossibile, però, è molto spesso un guaio da politici. Della successione a Berlusconi s'è già detto tutto. E allora meglio tornare oltre Manica, dove l'intreccio problematico tra maestri e allievi si è ripetuto due volte e su sponde opposte. Prima è toccato a John Major, occhialuto delfino di Margaret Thatcher, scelto dalla Lady di ferro come leader dei conservatori inglesi. Subentrato nel 1990, fu sconfitto da Tony Blair nel 1997. Senza lasciare il segno. Ancora peggio è andata a Gordon Brown, l'uomo che aveva ricevuto proprio da Blair il compito di proseguire un decennio di fortune laburiste. E che invece resse per nemmeno tre anni, dal giugno 2007 al maggio 2010.

«I grandi maestri, come i padri, non si possono imitare: la loro eredità va conquistata e fatta propria, per uscire dall'ombra». A dirlo è Giuseppe Pellizzari, psicoanalista del Centro milanese di psicoanalisi. Che propone di rileggere queste dinamiche in chiave freudiana. «I francesi parlano di uccisione simbolica del padre: per non finire vittime di un eredità impossibile, bisogna conquistarsi uno spazio nuovo e diverso. Ma a volte sono i maestri, quando caricano i loro successori di aspettative enormi, a schiacciare gli allievi».

Qualcosa di simile, in America, toccò a Lyndon Johnson, l'uomo che doveva continuare il rinnovamento e ereditare la popolarità di un presidente diventato subito sigla e icona, JFK. Subentrato il 22 novembre 1963, dopo lo choc collettivo dell'attentato di Dallas, uscì dalla Casa Bianca dopo un solo mandato e con l'onta di essersi invischiato più del dovuto nella guerra in Vietnam.

La sua sigla, LBJ, oggi in America si usa per designare una stella del basket: LeBron James. E il prossimo potrebbe essere il suo collega Nicolas Maduro, 65esimo presidente del Venezuela. In carica da un annetto, è già scricchiolante sotto il peso dell'opposizione interna e - ovvio - dell'eredità impossibile di chi l'aveva scelto, Hugo Chavez.

È la responsabilità di non far rimpiangere un mito, la stessa che grava oggi anche sulle spalle di Tim Cook, attuale ceo della Apple. Sul suo conto sono tutti certi: Cook non sarà mai all'altezza di Steve Jobs, il genio che decise di assumerlo nel 1998 e che lo indicò come suo erede nel 2011. Chissà come dev'essere lavorare con questo fardello.


2. LA SOLUZIONE GIUSTA? LASCIAR SCEGLIERE A UN TEAM DI ESPERTI COME HA FATTO LA CHIESA»
Roselina Salemi per ‘La Stampa'

«Ci sono successioni difficili o addirittura impossibili, ma ogni grande azienda si pone il problema. Più un leader è carismatico e vincente, più è delicata la scelta di chi prenderà il suo posto. C'è chi ha studiato la materia in modo approfondito, per esempio l'Università di Stanford. La successione va valutata nell'area del risk management».

Francesco Sacco, docente di Strategie aziendali all'Università dell'Insubria e Sda Bocconi, ricorda che «in questi giorni Eni, Enel Finmeccanica e Terna hanno cambiato i vertici: non sarà un caso-Apple, ma c'è una forte discontinuità».

Occorre pianificare una successione?
«Certo. Ed è prassi normale. I manager fanno ricerche e valutazioni. La maggior parte delle aziende prende in considerazione un solo candidato, al massimo due, e la disponibilità è mediamente bassa. Il giudizio più frequente è "Buono, ma non eccellente"».

Alex Ferguson ha scelto David Moyes ed è andata male.
«Forse non doveva essere lui a decidere. Il suo punto di vista non corrispondeva alle caratteristiche che deve avere oggi l'allenatore del Manchester».

Chi avrebbe dovuto fare la scelta?
«Un team di esperti, capace di una diversa visione. Nelle ricerche su leadership e successione, solo il 30% dei manager pensa alla continuità. Il 70% sostiene che le differenze devono esserci, e dare il segno del nuovo corso».

Che cosa rischia il successore?
«Chi raccoglie un'eredità importante si gioca tutto nel breve periodo. Non ha molto tempo per lasciare la sua impronta. Deve rispondere alle aspettative di chi l'ha voluto, al mercato, all'opinione pubblica. Paga un tributo di sangue al passato, al leader che ha sostituito».

In che senso?
«Per dirla in termini mitologici, o riesce a uccidere Edipo o viene sbranato da Crono. O trova subito un modello di leadership e di strategia, o regnerà poco. A beneficio del suo successore».

Un passaggio che ha funzionato?
«Uno dei pochi è stato quello della General Electric. L'ad Jack Welch, che se n'è andato con 417 milioni di dollari di buonuscita, era considerato tra i migliori del mondo. Il suo successore Jeffrey Immelt ce l'ha fatta».

Una discontinuità interessante?
«Wojtyla-Bergoglio. Ratzinger ha pagato il prezzo del confronto con l'enorme carisma di Giovanni Paolo II. Dopo di lui, Papa Francesco ha riorientato le aspettative. A questo punto, la successione è riuscita».

 

 

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