“CERCA SU GOOGLE E PREVEDI IL FUTURO”! - IL CAPOECONOMISTA DI MOUNTAIN VIEW SOSTIENE, SPIANDO E ANALIZZANDO IL COMPORTAMENTO DEGLI UTENTI IN RETE, CHE SI POTEVA PREVEDERE LA CRISI FINANZIARIA DEL 2008 - L’OBIETTIVO DI GOOGLE E DEGLI ALTRI GIGANTI CHE OPERANO SI INTERNET È FAR SÌ CHE LE AZIENDE INTERCETTINO SOGNI E BISOGNI DEGLI UTENTI...

Serena Danna e Federico Fubini per "La Lettura - Corriere della Sera"

Se l'entusiasmo e la paura per gli algoritmi avessero una collocazione temporale, sarebbe certamente settembre del 2008. Il mese in cui crollava Lehman Brothers, l'irrazionalità e il panico si riprendevano la loro parte nella storia. E la massa di calcoli computerizzati con i quali ci si era illusi di dominare il futuro appariva una colossale bufala: solo l'ultimo frutto della (presunta) arroganza di chi credeva di poter leggere i comportamenti umani in milioni di numeri stipati in un pc, come contemporanee foglie di tè sul fondo di una tazza.

In quei giorni Hal Varian, capoeconomista di Google, non cambiò idea. Remò contro la corrente del panico e arrivò ad affermare che un giorno il mestiere di statistico sarebbe stato «il più sexy del mondo». Più che scommessa, era puro incrocio di informazioni: diversi elementi online e offline dimostravano - correlandoli - un crescente interesse per i dati personali di chi naviga sul web.

A Mountain View, quartier generale di Google, chiamano il processo nowcasting, letteralmente «previsione del presente». In questo settore lavora da dieci anni Varian, professore emerito dell'Università di Berkeley, entrato in Google come consulente nel 2002: «Studi accademici e rapporti delle banche centrali - spiega a "la Lettura" al telefono da Londra - hanno legittimato l'utilizzo di dati provenienti dal nostro motore di ricerca per intercettare gli andamenti economici». Se si capisce cosa cercano su Internet miliardi di persone, si può prevedere la direzione dell'economia. «La Federal Reserve è affamata di dati ed è normale che li cerchino anche da noi di Google», dice Varian.

Secondo l'economista americano, anche la crisi finanziaria del 2008 era scritta nelle ricerche effettuate dagli utenti: «In quel periodo abbiamo riscontrato su Google Trends (lo strumento che confronta volumi di ricerche in base a vari fattori, ndr) prima un calo della fiducia dei consumatori, poi del commercio al dettaglio e infine una riduzione dei consumi. Attraverso l'analisi e la correlazione delle informazioni, avremmo dunque potuto capire cosa stava succedendo».

Eppure quando si parla della bolla finanziaria, l'accusa spesso va nel senso opposto. Aver fatto troppo affidamento sui modelli basati sugli algoritmi, che non tengono conto dell'incertezza, dell'irrazionalità e dell'imperfezione intrinseche nelle vicende umane, ha portato l'Occidente nel precipizio. Varian rinnega questa lettura: «La causa principale fu l'opacità del sistema bancario. Pochi dati, non troppi: la qualità dei prodotti finanziari era scarsissima, ma proprio la mancanza di informazioni al riguardo ha permesso che circolassero». In un regime di big data sarebbe stato impossibile: «Oggi abbiamo una maggiore disponibilità di informazioni e possiamo verificarle da più fonti».

Non che Varian si faccia prendere dalla hybris, l'arroganza di chi si crede onnipotente. Siamo molto lontani da un futuro in cui si potranno prevedere crisi economiche, spiega: «Trends è ottimo per studiare l'andamento della fiducia dei consumatori ma, nel caso di una crisi indotta da uno choc dal lato dell'offerta o da un conflitto per il controllo delle risorse, non funzioneranno gli stessi schemi del 2008. Certo, i dati di Google saranno comunque importanti per avere informazioni sul mercato del cibo o sul consumo del petrolio, ma nuove cause richiedono nuovi sentieri d'interpretazione».

La chiacchierata con Varian conferma la sensazione di un «doppio binario» di Google: da un lato il progetto di accessibilità universale dell'informazione, di cui anche uno strumento «aperto» come Google Trends è prova; dall'altra viene da chiedersi se non esista anche un lavoro «interno» e più sofisticato che viene fatto a Mountain View sui dati personali degli utenti.

«Nei nostri laboratori di ricerca abbiamo comunque direttive molto stringenti per quanto riguarda la privacy - sottolinea Varian -. Però sicuramente è più facile sperimentare quando non devi avere a che fare con il pubblico. Molti di questi strumenti potrebbero essere un giorno disponibili anche per tutti coloro che navigano sul web, ma è un processo lungo e ogni passo va verificato molte volte».

Nel progetto di trasparenza di Google, a Trends e Correlate (strumento che permette la correlazione di gruppi di dati diversi) si sono aggiunti recentemente Global Market Finder, con cui le aziende possono verificare dove si riscontra il maggior numero di ricerche sulla propria attività e quindi individuare i Paesi migliori per l'export, e - per ora solo negli Stati Uniti e in Canada - Google Consumer Survey, una piattaforma per fare sondaggi online.

Ma quando si tratta di big data, il punto è capire cosa accade nei coni d'ombra. Una delle strategie commerciali di Facebook, ad esempio, consiste in accordi con aziende a cui «vendere» una parte dei dati degli iscritti del social network. Accedere a siti o applicazioni attraverso il nostro account Facebook - che sia il sito di Barack Obama o un'applicazione per misurare la reputazione online - vuol dire condividere i nostri dati social con un'altra azienda od organizzazione. Che può usarli ai suoi fini commerciali o politici.

Hal Varian riconosce che in questo campo esiste un grande «potenziale» per aumentare il fatturato di un'azienda del web. Ma ribatte che Google non fa alcun uso commerciale dei nostri dati ad eccezione, ovviamente, della pubblicità. In altri termini, il colosso guadagna aiutando la domanda (i consumatori) a trovare l'offerta delle imprese. Non viceversa. «Le aziende possono avere accesso alle nostre banche dati per capire come migliorare la spendibilità del proprio marchio e dove puntare. Ma parliamo sempre di dati aggregati e anonimi», dice Varian.

Casi recenti, dalle elezioni americane alle strategie di marketing delle multinazionali, dimostrano che, al pari della produzione di massa ormai inadeguata per un mercato che chiede prodotti a misura dell'individuo, i «dati di massa» non funzionano più. In un'intervista a «la Lettura» a proposito delle strategie della squadra tecnologica del presidente Obama, il chief technology officer Harper Reed ha affermato: «Non esistono "i lettori", "gli utenti", "i cittadini" ma ogni elettore è diverso dall'altro. Solo con questa consapevolezza si riesce a intercettarlo e magari a convincerlo».

Strano pensare che per un consumatore sia diverso: «L'obiettivo di Google - puntualizza il capoeconomista - è fornire ai nostri utenti le migliori risposte per le loro domande. Sicuramente ci aiuta avere informazioni più dettagliate su chi pone quelle domande: sesso, nazionalità, età, ceto. Vogliamo personalizzare le risposte per dare un migliore servizio ai nostri utilizzatori e siamo convinti che questo sia il loro desiderio».

Anche a discapito della loro privacy? «Decidiamo noi come stare online: un cittadino ha la facoltà di scegliere se accedere a Google in maniera anonima, ad esempio disattivando i cookies che permettono di localizzarlo sulla carta geografica, oppure se farsi "riconoscere" per avere servizi migliori».

È notizia di questi giorni l'azione legale intentata da decine di possessori britannici di iPhone contro Google, accusata di aver bypassato le misure di sicurezza di Safari, il sistema di navigazione usato da Cupertino, per tracciare le loro abitudini sul web. Ce ne fosse stato bisogno, è la conferma di come l'attività su Internet delle persone sia l'oro del nuovo millennio per le aziende disperatamente in cerca di clienti.

Nota Varian: «L'industria automobilistica spende in media in marketing 650 dollari per ciascuna auto che lancia. Al momento le campagne pubblicitarie sono rivolte a tutti, anche a chi ha appena acquistato un'auto nuova e non ha intenzione di comprarne un'altra. Ovviamente quello ignorerà la pubblicità che gli appare online, e come lui tutte le persone non interessate. Non sarebbe meglio indirizzare le campagne sull'interesse reale degli utenti? Immagino un mondo in cui le persone possano comunicare alle aziende il tipo di prodotti e servizi su cui vogliono sapere di più».

Google continua a essere di gran lunga il più usato fra i motori di ricerca. Ma Varian non è preoccupato dalle accuse di una possibile posizione dominante futura nel mercato nascente dei big data: «Avere una quantità di big data è come averli tutti. È questione di metodo. Bing (il motore di ricerca di Microsoft, ndr) oggi ha il 25% dei dati che Google possedeva tre anni fa. Eppure se si confrontano le loro prime cento ricerche con le nostre, c'è una sostanziale sovrapposizione. Quello dei dati è un mercato aperto e in continua crescita. È come Internet: c'è spazio per tutti».

 

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