IL PIRATA ERA UN DIO (NON UN SANTO) - MARCO PANTANI, L’ULTIMO GRANDE CAMPIONE DEL CICLISMO, A 10 ANNI DALLA SUA MORTE RESTA PATRIMONIO NAZIONALE ‘COME PAVAROTTI’

Gian Luca Favetto per "il Venerdì - la Repubblica"

Aveva 34 anni e se ne è andato in modo rocambolesco, in parte ancora misterioso, forse inevitabile, il giorno di San Valentino di dieci anni or sono, 14 febbraio 2004, di pomeriggio, a Rimini, chiuso nella stanza D5 del Residence Le Rose. Eppure è ancora qui in giro, anzi, in Giro e in Tour, che lotta scala scatta pedala in fuga insieme a noi. È diventato un'officina di ricordi che ancora produce dispiaceri ed entusiasmi.

Era il Pirata, e adoperava la bici come un veliero per andare all'arrembaggio delle strade. Era Pantadattilo, e le sue gambe avevano potenza di ali, lo facevano salire in alto, sempre più in alto. Era Marcopantani tutto attaccato, non un nome e cognome dello sport, non solo, ma un'invocazione con dentro una litania di vittorie e sconfitte, gioie estreme, incubi e dolori.

Pantani rimane un marchio esistenziale che non lascia indifferenti: lo ami o lo detesti, lo ricordi campione o traditore. Sembrava un folle, a tratti, persino un folletto. Era un predestinato, una forza della natura concentrata in due occhi pungenti, due orecchie a sventola, il cranio rasato, il volto antico ma fanciullo, le gambe secche, il corpo tanto magro quanto potente, 1,72 per 56 chili, trentasei battiti a riposo, centosettantacinque sotto sforzo massimo, cinque litri e seicento di capacità polmonare: sovraumano, terribile, divino.

Così l'Enciclopedia Treccani, alla voce dio: «Nelle religioni monoteistiche, essere supremo, concepito e spesso adorato universalmente come eterno, creatore e ordinatore dell'Universo. Nelle religioni politeistiche, ciascuno degli esseri venerati come superiori all'uomo, dotati di personalità e immortali». Lo sport è una religione politeistica e venera i suoi miti come dei. Li riconosce superiori all'uomo comune, dotati di una personalità capricciosa, fragile e potente insieme. Soprattutto, li riconosce immortali. Marco Pantani è uno degli immortali. Nel raccontarlo non si può non prenderne atto.

Ecco allora perché Pantani era un dio (66thand2nd, pp. 248, euro 16, a sinistra la copertina), in uscita la prossima settimana. Lo ha scritto Marco Pastonesi, firma della Gazzetta dello Sport, rugby, ciclismo e scrittura nel Dna, suiveur curioso, uno che è sempre stato dalla parte dei gregari, degli ultimi. Ora, a dieci anni dalla morte, si occupa di Pantani e riannoda i fili di una storia italiana, una storia che parte dal fondo della provincia e va alla conquista del mondo. La storia in salita di un campione, di un dio.

Ventiquattro capitoli, una parata di interviste e una ricca appendice, Pantani era un dio ha tutto per essere un buon libro, e in effetti lo è. Anche. Ma quando lo prendi in mano, ti accorgi che dispone di un manubrio, un sellino, due ruote, due pedali. È una bicicletta per attraversare e girare intorno a un personaggio che ha gettato la vita, l'ultimo vero grande campione del ciclismo, capace di regalare meraviglia, accendere fantasie e scuotere montagne.

Il libro di Pastonesi è una geografia di storie e imprese, un racconto a più voci. È un coro e una mappa. Contano e cantano i luoghi, e più sono vette, più hanno voce: la Romagna, le Alpi e i Pirenei, il Mortirolo e il Galibier, il Gavia e il Mont Ventoux. Contano e ricordano gli amici, i compagni di squadra, chi ha conosciuto il Pirata da bambino e chi lo ha incontrato a fine carriera.

Dice Vittorio Savini, presidente Club Magico Pantani, vicesindaco di Cesenatico: «Marco prendeva le salite in ultima posizione e poi rimontava e andava in testa. Gli dicevo: ma perché non le prendi davanti? E lui: non sai che soddisfazione passarli e guardarli in faccia, a uno a uno».

Dice Luigi Veneziano, meccanico: «Alla fine gestire il Panta diventa impossibile. Con lui è come andare in guerra, con due bombe in tasca: prima o poi salti in aria. Però si doveva fare qualcosa. Era un patrimonio nazionale. Come la Ferrari. Come Pavarotti. Come
Valentino. Ce lo invidiano ancora».

Dice Ermanno Brignoli, ex gregario: «Pantani in gara non ha tattiche, l'unica è quella di stargli vicino. Vuole bene più ai semplici che ai ricchi, più alle mani grosse che alle giacca-e-cravatta. Quando si sta insieme, si condivide tutto. Non solo la bici, anche i chioschi dei pescatori, e non si riesce mai a pagare».

Dice Cristian Gasperoni, ex corridore, oggi direttore sportivo: «Noi sapevamo e non sapevamo, potevamo anche immaginare, ma non conoscevamo la gravità della situazione, fino a che punto ne fosse schiavo. Io dico che, se non avesse avuto tutte quelle disavventure, avrebbe vinto così tanti Giri d'Italia che se ne sarebbe stancato. Poi io ho continuato a correre. Ma senza di lui, mi è sembrato un ciclismo orfano».

Dice Manuel Belletti, professionista dal 2008: «Quando ho sentito che era morto, mi sono sentito male. Non meritava di finire così. Quanto al doping, il mio giudizio su Pantani non cambia. Era il più forte. Era il più emozionante. Era il più». Per narrarlo entrano in scena anche Charlie Parker e Imerio Massignan, Tonino Guerra e Petrarca, René Pottier, il padre di tutti gli scalatori, e Ecate, divinità della magia.

Ci sono la famiglia e i giornalisti. Ci sono le parole della sua fidanzata, Christina Jonsson. Ci sono la cocaina e il doping, che gli hanno mangiato cuore, muscoli e cervello. Non c'è sentenza, né assoluzione, né condanna. Ci sono quarantotto cantastorie guidati da Marco Pastonesi, direttore d'orchestra, che fanno vedere e ascoltare di nuovo le gesta di un Prometeo a pedali.

 

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