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PROCESSO A DE SADE – A PARIGI NEL 1956 L’EDITORE PAUVERT FINI’ ALLA SBARRA PER AVER PUBBLICATO I LIBRI DEL DIVINO MARCHESE  – A DEPORRE IN AULA LA CRÈME DEGLI INTELLETTUALI COME BATAILLE, PAULHAN E COCTEAU CHE STRONCO’ SADE :"È NOIOSO. IL SUO STILE È DEBOLE, E NON GLI VALE NEMMENO UN RIMPROVERO” - ECCO COME FINI’ IL PROCESSO…

DE SADE

Carlo Nordio per il Messaggero

 

Il 15 Dicembre 1956, davanti al tribunale penale di Parigi, iniziò uno dei più singolari processi del 900. L'imputato era un editore trentenne, Jean Jacques Pauvert, ma il vero accusato era il Marchese Donatien Alphonse François de Sade. Pauvert ne aveva pubblicato la prima raccolta completa di opere, ritenute contrarie ai buoni costumi.

 

In realtà quelle incriminate erano solo quattro: La philosophie dans le boudoir, Les 120 journées de Sodome, La nouvelle Justine e l'Histoire de Juliette. Le altre sei, non si sa perché, erano state trascurate.

 

Pauvert era un giovanotto anticonformista e geniale, che già in quegli anni portava i baffi alla Débray (e alla Giangiacomo Feltrinelli), senza tuttavia essere un attivo rivoluzionario. Gli piaceva scandalizzare i benpensanti, ma soprattutto gli piacevano i libri, e non solo quelli erotici. Era, in definitiva, un bibliofilo autentico e un editore raffinato. Negli anni 80 vendette tutto ad Hachette, e si ritirò in campagna. Morì, vecchissimo e dimenticato, nel 2014.

 

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Del Marchese de Sade tutti sapevano tutto, senza aver mai letto nulla. Non solo perché i suoi libri erano costosi e introvabili, ma soprattutto perché i lettori animati da aspirazioni trasgressive dovevano faticare a lungo prima di arrivare alle pagine che cercavano. In effetti il divino Marchese, che morì in manicomio dopo vent'anni di galera, aveva pretese vagamente filosofiche, e, precedendo di un secolo Ivan Karamazov, aveva elaborato il concetto che, se Dio non esiste, tutto è consentito. I suoi protagonisti sono quasi tutti atei altolocati - magistrati, vescovi, nobili - che trovano piacere nell'infliggere dolore. E, per spiegarne le ragioni, l'autore si avventura in centinaia di pagine di un' insopportabile pesantezza pedagogica. 

 

SPERANZE Il povero Pauvert non aveva molte speranze di cavarsela. I giudici parigini del dopoguerra erano saldamente ancorati ai principi tradizionali, soprattutto in materia di famiglia e di sesso. Tuttavia l'imputato ebbe la ventura di accaparrarsi il miglior avvocato di Parigi : maitre Maurice Garçon, letterato e poeta, accademico di Francia, di grande rigore logico e implacabile dialettica.

 

Il suo maggior trionfo era stata la difesa di René Hardy, accusato di aver tradito Jean Moulin, il celebre capo della Resistenza, catturato e ucciso dai nazisti nel 43. Hardy sembrava annichilito da prove schiaccianti, e alcuni compagni avevano anche cercato di avvelenarlo per far rapida giustizia.

 

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Maurice Garçon, sgretolò le accuse e Hardy fu prosciolto per ben due volte. I comunisti, inferociti, assediarono il palazzo di giustizia, ma Garçon non fece un piega. Trent'anni dopo, Klaus Barbie, il boia di Lione, rivelò, con dubbia attendibilità, che a tradire Jean Moulin erano stati proprio i comunisti. Ma questa è un'altra storia. 

 

Maurice Garçon impostò la difesa del giovane editore in termini giuridici, sui quali sorvoliamo, e in termini culturali, che sono i più interessanti. Chiamò a deporre la crème degli intellettuali francesi, chiedendo loro un giudizio etico ed estetico sulle opere incriminate.

 

I giudici acconsentirono, con qualche perplessità, a questa straordinaria innovazione, e il tribunale diventò, per qualche giorno, un salotto letterario. Si cominciò con Jean Paulhan, che sostenne una tesi ardita, ma in parte fondata: «Sade - disse arrivò in un' epoca in cui una filosofia un po' molle insegnava che l'uomo nasce buono, e che bastasse ricondurlo allo stato di natura perché le cose andassero bene. Mentre lui volle dimostrare che l'uomo nasce cattivo, e che questa malvagità risiede nella sessualità». 

 

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TIRATURA Georges Bataille si espresse in modo analogo, con una sfumatura in più: «I libri in questione, per il loro prezzo e la loro limitata tiratura, sono destinati a un pubblico maturo, che non vi mette una curiosità malsana ma una curiosità di eruditi». Molti pensarono che Bataille, autore di romanzi altrettanto scabrosi, stesse testimoniando pro domo sua. Jean Cocteau, da vero esteta insubordinato, fu più lapidario: «Sade è noioso. Il suo stile è debole, e non gli vale nemmeno un rimprovero. L'ultimo libro poliziesco della pudibonda America è più pericoloso della più audace pagina di Justine».

 

Rassicurato da queste attestazioni, e confidente nelle sue doti argomentative, Maurice Garçon si esibì in una delle più belle arringhe della storia giudiziaria. Strapazzò l'ipocrisia dei bacchettoni che leggevano di nascosto i libri che il suo assistito aveva avuto il coraggio di pubblicare: «Ogniqualvolta si smobilita una venerabile biblioteca - insinuò ironicamente - si trovano le storie di Justine e Juliette prudentemente collocate dietro i pensieri di Pascal». Quanto al Marchese, egli non mise mai in pratica le sue discutibili fantasie. La sua esuberanza sessuale non era mai violenta o abusiva; la sua cattiva fama era immeritata, e dovuta a circostanze casuali.

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In effetti l'infaticabile gentiluomo, avendo raccattato una sera quattro prostitute, aveva somministrato loro la cantaride, al tempo ritenuta un afrodisiaco. La sostanza, invece di aver svegliato gli appetiti delle ragazze, ne aveva addormentato l'intestino, provocando coliche e atroci dolori. Questo valse al nobile satiro la fama di avvelenatore, e addirittura di omicida seriale.

 

In realtà - proseguì il difensore - de Sade era generoso e quasi compassionevole. Durante la Rivoluzione, come membro del tribunale rivoluzionario, fu incarcerato per troppa moderazione ed ingiustificata clemenza. Il brillante avvocato concluse così: «Sade spinse lo studio delle depravazioni umane fino al delirio. Ma fece come il medico che studiò le malattie della volontà e della memoria per penetrarne la conoscenza nella loro integrità. Approfondì il mostruoso per scoprire il normale».

 

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Maitre Garçon era troppo intelligente per credere a queste frasi solenni ma inconsistenti: tuttavia le espresse così bene che forse, senza illudersi di convincere i giudice, provò a convincere sé stesso. In ogni caso integrò l'arringa con l'argomento più efficace: il concetto di buon costume è così aleatorio e mutevole che molte glorie della letteratura francese, da Flaubert a Baudelaire, erano state processate, e talvolta condannate, per opere che ora si studiavano ai licei.

 

Il tribunale, come spesso accade, scelse una via di mezzo: condannò Jean Jacques Pauvert alla mite ammenda di centoventimila franchi e alla distruzione delle 2000 copie confiscate. La Corte d'Appello, ridusse la pena, e poco dopo la legge sulla censura fu soppressa, così Pauvert pubblicò un'altra edizione che andò a ruba. Oggi le nuove copie appassiscono tra le spesso tra le rese invendute. L'ultima crudeltà del Marchese sarà quella inflitta all'incauto lettore, vittima della sua ripetitiva ed asfissiante prolissità. 

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