UNA RISATA VI SEPPELIRA’! L’ADDIO DI MASSIMO GIANNINI A GIORGIO FORATTINI: “CON QUELLA MATITA TAGLIENTE COME UNA LAMA SEPPE FARE A FETTE IL CORPACCIONE DI UN'ITALIA ACCIDIOSA E POLVEROSA, REGALANDOCI UNA RISATA LIBERATORIA. AVEVA UNA FACCIA DA RIVOLUZIONARIO DEL '700 FRANCESE. 'BARBAPAPÀ' SCALFARI, OFFICIANDO LA MESSA CANTATA DEL MATTINO CON I MEMBRI DEL SINEDRIO LO OMAGGIAVA COME FOSSE IL PRIMO DEGLI OPINIONISTI: “GIORGIOOOOOO… ALLORA?” – FORATTINI DICEVA DI NON SOPPORTARE “NESSUN PARTITO”, LA SINISTRA NON LA CONSIDERAVA MAI ALL'ALTEZZA. SOTTO I COLPI DELLA SUA MATITA È CADUTA L'INTERA NOMENKLATURA, DA CRAXI A D’ALEMA…
Massimo Giannini per la Repubblica - Estratti
Nessuno come Giorgio Forattini, morto ieri a 94 anni, ci fa venire in mente quel vecchio e fortunato slogan sessantottino: una risata vi seppellirà. Nei cinquant'anni e passa in cui ha tenuto la matita in mano, trasformando la satira nella prosecuzione del giornalismo con altri mezzi, le sue "vittime" le ha sepolte tutte sotto la montagna incantata delle sue strepitose vignette.
Una risata amara e mai banale, caustica e mai volgare. Impreziosita non solo da quel tratto elegante anche nella caricatura, ma soprattutto da quel genio che gli permetteva sempre di spiegare il tutto con la parte. Gli bastava una parola, un oggetto, un tic, e intorno costruiva l'affresco.
Sull'Espresso, su Repubblica, su Satyricon: per immagini, ha raccontato come nessun altro i vizi e i vezzi del Belpaese e della sua sgangherata classe dirigente. Noi, "ragazzi" della leva giornalistica del 1987, lo rivediamo entrare in quel buco di redazione a via dei Mille, con quella faccia da rivoluzionario del Settecento francese (...)
eugenio scalfari giorgio forattini
E Barbapapà Scalfari, officiando la messa cantata del mattino con i membri del sinedrio (Rocca e Pansa, Bocca e Mafai, Viola e Balbi, Aiello e Placido e via via tutti gli altri "mostri sacri" di quegli anni) lo omaggiava come fosse il primo degli opinionisti: «Giorgioooooo… Allora?». Parlava poco, annusava l'aria, fiutava il senso della giornata, poi si rintanava nell'ufficio grafico, a pensare e a "creare".
Sotto i colpi della sua matita è caduta l'intera nomenklatura, che lui ha trasfigurato a modo suo.
E a essere onesti, quella è stata la sua stagione più felice. Ogni leader, una macchietta.
Ogni frammento di Storia, un disegno che vale più di un editoriale. Fanfani è il tappo, che salta dalla bottiglia di spumante nel 1974, quando al referendum vincono i no all'abrogazione del divorzio. Moro è l'ombra nera, che incombe su Andreotti e Berlinguer abbracciati su una panchina: il crimine delle Br è ancora lontano, e dello statista dc si teme ancora la virata a destra. Spadolini è un putto toscano obeso con tanto di micro-pistolino: in una vignetta dell'85, durante il sequestro della Achille Lauro e l'assassinio di Leon Klinghoffer, Giorgio lo ritrae su una sedia a rotelle con una bandierina americana in mano, mentre Andreotti e Craxi lo buttano dalla nave.
Pertini, sempre sorridente e con la pipa in bocca: nel luglio del '78 vola a cavallo di una scopa a forma di garofano verso il Quirinale, il più votato dei presidenti. Andreotti è il solito Belzebù, rotto a tutte le trame di palazzo: nel '77, ingobbito e vestito da carabinieri, bacia la mano a un Kappler travestito da vecchietta mentre scappa dalla galera.
De Mita è l'intellettuale della Magna Grecia, sempre con un po' di bavetta che gli pende dalle labbra: poco prima di Tangentopoli, durante lo scandalo carceri d'oro avviato dalle accuse dell'imprenditore Bruno De Mico, rimbrotta un mesto Nicolazzi dicendogli: «Imbegille! Ti avevamo deddo che la sbardizione del podere doveva essere fadda gon De Mida, non gon De Migo!!».
Scalfari, che del fiero irpino era grande estimatore, non apprezzava, ma lasciava fare. Per quanto fosse il monarca assoluto del giornale, Eugenio sapeva bene che a quel fool scespiriano doveva lasciare briglia sciolta, per il bene della "ditta".
Forattini era davvero libero, da qualunque chiesa e qualunque ideologia.
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Forse agito, già allora, da una vena sottile di anti-politica che poi sarebbe malamente esplosa negli ultimi anni del suo lavoro. Lo diceva, d'altra parte: «Non sopporto nessun partito».
Non sopportava la sinistra, che non considerava mai all'altezza.
Amava odiare Craxi, il cinghialone vestito sempre da Benito Mussolini, che giudicava un misto tra il duce e il brigante. Due vignette fanno epoca: quella del leader socialista che legge Repubblica e commenta «quanto mi piace questo giornale quando c'è Portfolio», e poi quella in cui Bettino pende a testa in giù, con un cappio legato ai piedi, all'indomani del voto parlamentare che nel 1993 negò l'autorizzazione a procedere contro di lui.
GIORGIO FORATTINI ILARIA CERRINA FERONI
Ma Giorgio – indipendentemente da dove lo portasse il cuore - ha dato il meglio di sé con la triade Pci-Pds-Ds.
Prima di tutto con Berlinguer. La serie di Enrico in pantofole e giacca da camera rimane un pezzo di storia italiana, che scandisce "l'imborghesimento" del Pci e le fratture con la sua base elettorale. Memorabile la vignetta del dicembre '77: il leader del Pci siede in poltrona davanti a un quadro di Marx, sorseggia un tè, legge l'Unità e dalla finestra gli arrivano gli echi lontani dei cortei metalmeccanici.
Si scatenò l'ira funesta di Botteghe Oscure. Paolo Spriano mandò una lettera di fuoco al giornale: «Mi sono sentito ferito, offeso dalla vignetta di Forattini… protesto perché l'immagine che offre è profondamente falsa… avete un'idea di cos'è la vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?».
Il giorno dopo gli rispose Rosellina Balbi, citando Winston Churchill e l'humour inglese: «Chi sa ridere è democratico…». Altri tempi, altre tempre. Anni dopo, era il 1999, stesso corpo a corpo con D'Alema premier, quando Giorgio lo disegnò intento a sbianchettare i nomi dalla famigerata lista Mitrokhin. Il Lider Maximo – noto per la poca stima nei confronti delle "iene dattilografe" - non la prese niente bene.
Piovvero carte bollate, e alla fine arrivò lo strappo definitivo con Repubblica. Giorgio ripassò alla Stampa, per poi passare definitivamente il suo Rubicone berlusconiano: prima al Giornale, poi al Quotidiano Nazionale. Per la cronaca: ruppe presto anche lì, con i direttori, e alla fine si dedicò solo ai suoi libri. Non so dire nulla di quel periodo. Avevo smesso di seguirlo, e credo di non essere stato il solo. Ma non per la sua virata a destra: è che, davvero, mi pareva avesse proprio perso il "tocco". Così mi piace ricordarlo per il "prima".
Mi piace ricordare le sue sortite anarcoidi contro i Poteri Forti che allora c'erano davvero, come la vignetta su Agnelli che nel '76 apre le porte della Fiat a un cammello libico, raffigurato come una specie di cavallo di Troia. Contro i sindacati che languivano, come il Lama in canottiera e con le tasche vuote che con la svolta dell'Eur del '78 dice ai lavoratori «stringete la cinghia».
Come gli scandali che si infittivano, tipo l'Italcasse del «a Fra' che te serve», con un magistrato che si rigira tra le mani scatoloni in cui ci sono ritratti Andreotti e Fanfani, Piccoli e Donat Cattin.
Mi piace ricordare le sue intemerate da laico mangia-preti, tipo le due pagine di vignette dell'ottobre 1980, parodia spietata sul Sinodo in cui Wojtyla tuonò contro l'adulterio di chi, anche da sposato, guarda con concupiscenza la propria moglie.
Fu il dies irae, i cardinali risposero con un comunicato in cui quei disegni si definivano «osceni, blasfemi e dissacratori», e lui per tutta risposta il giorno dopo uscì con una vignetta in cui si ritraeva legato a una croce fatta con due matite, mentre gli alti prelati lo guardavano bruciare in un rogo di prime pagine di Repubblica.
E a proposito di Papi, in mezzo alle vecchie carte ho ritrovato una lettera che Giorgio scrisse sempre a Scalfari nel maggio 1991: si lamentava della mancata uscita di una vignetta in cui Giovanni Paolo II, presentando l'enciclica per il centenario della Rerum Novarum, diceva a braccia aperte: «Fratelli, siate De Benedetti».
giorgio forattini gianni agnelli bill clinton vignetta
Impazzava la guerra di Segrate, in quel periodo, e Giorgio temeva una censura scalfariana, per questo protestava: «Direttore, non ci ho mica scritto "Fratelli, siate Ciarrapico"…».
Non posso riportare per intero la replica di Eugenio, solo un cenno: «Giorgio, mi è sembrata una cosa priva di senso, dove non c'erano né satira né umorismo… e da parte mia nessun riguardo né verso il Papa né verso De Benedetti… e sempre potrai prendere per i fondelli sia l'uno che l'altro…». Di nuovo, altri tempi, altre tempre. Ma sono quelli che adesso voglio conservare, pensando a Forattini.
Quei suoi magnifici vent'anni, a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica, quando con quella matita tagliente come una lama seppe fare a fette il corpaccione di un'Italia accidiosa e polverosa, regalandoci una risata liberatoria, in cima a quelli che allora credevamo fossero i peggiori anni della nostra vita.
E invece, forse, non lo erano.
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GIORGIO FORATTINI ILARIA CERRINA FERONI
vignetta di giorgio forattini su giulio andreotti 4
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vignetta di giorgio forattini su giulio andreotti
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GIORGIO FORATTINI
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